Sergio Auriemma

Vice Procuratore Generale della Corte dei Conti

 

 

Definizione del giudizio di appello su richiesta della parte

art. 1, commi 231-233, legge 266/2005 : problematiche teorico-pratiche

 

 

SOMMARIO: 1.Notazioni introduttive.-  2. Questioni di diritto intertemporale.-  3.  L’ambito di applicazione.-  4. Problematiche in rito. -  5.  Il  parere del  Pubblico Ministero. -  6.  Il provvedimento camerale. -  7. Gli ambiti di potestà cognitiva del giudice.-  8.  La definizione del giudizio. -   9.  Riflessione di sintesi.

 

 

 

1.  Notazioni introduttive.

 

Le disposizioni di cui ai commi 231-233 dell’art. 1 della legge n. 266/2005 hanno dischiuso, per operatori e studiosi di diritto sostanziale e processuale, uno spettro di interrogativi ermeneutici di larga ampiezza. 

Il testo di legge, come è naturale, ha formulazione stringata.

In esso, alle incompiutezze definitorie si somma l’utilizzo di espressioni lessicali non tutte tecnicamente ineccepibili o coerenti con radicate nozioni ordinamentali o dottrinarie, sicché l’insieme fa intravedere vuoti che dovranno essere colmati per via giurisprudenziale.

Il fenomeno, non nuovo né inaspettato nel panorama di legislazione che nell’ultimo decennio ha interessato l’area della responsabilità amministrativa, è scaturigine di incertezze. 

L’alea della variabilità interpretativa,  specie quando le norme risultino costruite con cure non adeguate nel drafting e nella qualità redazionale delle fonti, è accadimento da  considerare oramai fisiologico per il tipo di produzione legislativa cui da tempo si assiste, né sinora sono stati escogitati, neppure in altre sedi giudiziali, rimedi capaci di azzerarla.

Si deve dire, ad onor del vero, che l’interpretazione  si imbatte in ostacoli difficoltosi,  perché deve saper superare una duplice linea di incertezze  :

·        quella del  linguaggio adoperato dal legislatore

·        quella dell’elaborazione giurisprudenziale in sé riguardata

La seconda linea    – tutta interna al sistema giudiziale –   è particolarmente disagevole nella giurisprudenza contabile, da qualche commentatore addirittura qualificata “erratica” perché sovente esposta ad oscillazioni non episodiche, né marginali. 

Andamenti incerti si registrano, talvolta, persino all’interno di una stessa Sezione giudicante e investono ambiti nei quali la praticabilità di  “regole di giudizio” a contenuto elastico (si pensi, solo esemplificativamente, ai temi della riduzione dell’addebito, del computo dei cosiddetti vantaggi, della liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c.,  della enunciazione da parte delle Sezioni Riunite di principi esegetici su questioni di massima ai quali le singole Sezioni non sempre sono inclini a prestare adesione generalizzata e convinta)  fanno innalzare i tassi di  incertezza.

Se si focalizza l’attenzione sulle disposizioni in esame, un dato fattuale mostra che il discorso da fare, per un buon tratto, può dirsi prematuro, non essendo ancora formati indirizzi giurisprudenziali sui quali fare affidamento e solida leva . [1]

Ciò comporta che le riflessioni qui offerte vanno considerate di primissima lettura e scontano pure   -  sia chiaro -   l’angolo visuale del redattore, che assolve funzioni di Pubblico Ministero in appello.     

Trattandosi di un istituto attivabile a seguito di scelte dispositive compiute dalle parti private, solo la concretezza delle evenienze processuali metterà in grado di conoscere e cogliere l’intero ventaglio delle situazioni reali e di affrontare ciascuna  nella maniera più adeguata alla sua tipicità.  

Al momento neppure si possono azzardare previsioni circa il favore che il beneficio di legge  sta  incontrando  nella  prassi operativa. [2]

Si tratta, d’altronde, di un complesso normativo che implica la rinuncia a far valere i motivi di appello e comporta l’obbligo di pagare entro un termine definito somme di denaro, senza che il debitore possa più godere, come oggi accade, delle incognite e delle  imprevedibili insidie che costellano le lunghe, defatiganti, farraginose procedure di esecuzione coattiva delle sentenze.

Prima ancora del varo formale dell’impianto di legge è stata avvertita l’eco di lamentele, come quelle esternate sulla stampa dal Consiglio di Presidenza  e dall’Associazione  o di accorate manifestazioni di “amarezza”, come quelle diramate a catena nella posta elettronica da numerosi magistrati.

Le disposizioni sono state accolte con comprensibile preoccupazione, con non celati timori per l’abbassamento dei livelli di contrasto a fenomeni di malamministrazione e di illecita locupletazione, in qualche caso con recriminazioni avverso le scelte di politica legislativa. [3]

Sedimentatosi velocemente il fervore reattivo di primo impatto, il tema sembra essere rientrato nell’alveo routinario del lavoro processuale, terreno meno fertile per suscitare passioni meritevoli di divulgazioni telematiche, più oneroso, meglio adatto a riflessioni di approfondimento e, in definitiva, più gratificante per chi si debba dedicare con diligenza all’assolvimento delle proprie funzioni.         

   Probabilmente giova poco gridare allo scandalo presso l’opinione pubblica oppure far circolare doglianze telematiche.

   Siffatte prese di posizione,  pur se lecite espressioni della libertà di opinione spettante a qualsiasi cittadino, restano fatto giuridicamente ininfluente, specie quando esse non sono più seguite da ragionate e motivate azioni in sede giudiziaria e  negli atti concreti ascrivibili all’esperienza processuale.   

Nel contempo, sembra doveroso  - da magistrati soggetti alla legge -   assumere l’esistenza delle norme quale dato di partenza e farsi carico di approcci metodologici all’interpretazione e applicazione delle stesse di natura rigorosamente positivistici.

Al libero cittadino è permesso considerare una qualsiasi norma espressiva di degrado delle politiche di contrasto avverso la dissipazione di risorse pubbliche mentre,  nell’esercizio delle funzioni, non ci si può limitare a tale approssimata lamentela.                

In altre parole,  vanno esaminate le norme, ne devono essere scandagliati l’ambito oggettivo e soggettivo di applicazione, ne va sondata, in tutti i risvolti possibili, la compatibilità sistematica con il  restante,  vigente ordinamento.

E’ forse anche giunto il tempo di prendere consapevolezza che argomenti di contrasto a normative poco convincenti basati unicamente :

·        sulla  “indisponibilità”  degli interessi oggetto della tutela giudiziaria contabile

·        sulla  necessità di giungere ad  “integrale soddisfazione”  del credito risarcitorio delle Pubbliche Amministrazioni

sono divenuti, di per sé soli, temi fragili nell’ impianto motivazionale e nella loro forza e capacità persuasiva.

Ciò per almeno due ragioni :

1) nell’ordinamento giuridico generale sono state, da tempo, introdotte ed esistono varie forme o istituti comunemente definiti di “giustizia negoziata”  (es. patteggiamento penale, conciliazione giudiziale tributaria). Detti istituti hanno attraversato indenni, più volte, scrutini di costituzionalità, nonostante anch’essi coinvolgano  interessi pubblici  non disponibili   e  costituzionalmente protetti, come l’interesse punitivo dello Stato ed il credito d’imposta dell’Erario   

2)  nel più ristretto ordinamento giuscontabile, da un lato l’esistenza del potere riduttivo (esercitato talvolta in maniera intensa o addirittura irrazionale, persino in appello e, quindi, con assoluta impossibilità di un’ulteriore revisio tramite cui far valere l’irragionevolezza), dall’altro la grave e seria situazione degli scarsissimi recuperi in sede esecutiva, rappresentano due circostanze di forte e innegabile risalto, che dovrebbero consigliare più realistiche e meno enfatiche riflessioni sul carattere pienamente satisfattivo della tutela contabile.    

Anche eventuali sospetti sulla incostituzionalità della normativa  – se intravisti –    devono essere motivati in diritto, sul filo di puntuali e argomentati parametri e riferimenti costituzionali, piuttosto che affidati a considerazioni generaliste desunte da talune indeterminatezze o vuoti della regolazione disciplinatrice  (che potrebbero, invece, rinvenire, aliunde e nel sistema, fonti di integrazione idonee a scongiurare l’horror vacui), dalla natura della Corte dei conti  (quasi fosse questa l’unico Organo rimasto dedito alla tutela degli interessi della collettività), dalla natura della responsabilità (nella logora diatriba tra carattere risarcitorio o sanzionatorio) o, peggio ancora, da visioni sacrali e corporative della funzione giudiziaria. [4]

L’impegno esegetico non è facile e deve confrontarsi :

·        con la carenza di ausili provenienti dagli atti parlamentari e dalla discussione in sede legislativa,  perché le disposizioni sono state incluse in un maxiemendamento oggetto di voto di fiducia

·        con una ratio legis di ardua ricostruzione, nonostante l’inclusione delle norme nell’ambito della manovra finanziaria annuale farebbe propendere per l’ipotesi di un intento  volto alla sollecita acquisizione di entrate certe 

·        con difficoltà di assetto sistematico dell’istituto, che presenta molteplici connotazioni atipiche, tali da renderlo scarsamente assimilabile a figure già note in altre branche del diritto.

Limitandosi a  brevi cenni circa la presumibile ratio legis, è da osservare che andrebbe forse escluso un obiettivo che possa dirsi di deflazione processuale (prima della legge i giudizi di secondo grado, quasi sempre, ricevevano trattazione in unica udienza;  dopo la legge e a seguito della richiesta di parte il processo si disarticola in tre fasi,  l’una camerale, l’altra riferita al periodo per il versamento delle somme, la terza di definizione finale).

Quanto alla funzione diretta ad assicurare flussi di entrate finanziarie certi e solleciti,  essa è stata attivata entro dimensioni, temporali e quantitative, talmente contingenti e  percentualmente abbattute da farla apparire poco verosimile e, comunque, poco ragionata.  

In ogni caso il presente lavoro, senza pretese di realizzare l’inquadramento teorico-sistematico dell’istituto o la codificazione di principi e regole, aspira unicamente a riepilogare le principali questioni sinora emerse in sede applicativa e fornire indicazioni che rappresentino epilogo di lettura della trama normativa.  

 

 

2.  Questioni di diritto intertemporale.

 

L’istituto processuale in esame è oggetto di disposizioni che, in quanto derogatorie o eccezionali rispetto a principi e regole di generale valenza, sono da ritenere di stretta  interpretazione e non possono essere applicate oltre  i  casi e tempi  in esse considerati   (art. 14 disp. sulla legge in generale).

Il beneficio è stato congegnato dal legislatore in maniera tale da avere efficacia applicativa limitata nel tempo.

Il riferimento ai  fatti commessi antecedentemente al 1 gennaio 2006 è  senza equivoci e la norma presenta i connotati tipici della disposizione ad  efficacia  transitoria.

Non si può parlare, pertanto, di un istituto introdotto a regime nel processo contabile, in forme similari ad altri stabilmente conosciuti in altre sedi processuali, quali il  patteggiamento penale  o  la conciliazione giudiziale tributaria. 

La misura normativa allestita  è e resta temporanea.

Tenendosi ciò fermo, un primo problema ermeneutico sta nel dover verificare se l’istituto sia applicabile alle sole vicende processuali per le quali sia stata già pronunciata, entro e non oltre il 31 dicembre 2005, sentenza di primo grado. [5]

Per dirla in maniera diversa, occorre stabilire se l’istituto interessi unicamente i processi che, conclusa al 31.12.2005 la fase di primo grado, siano già pervenuti o stiano per giungere in grado di appello oppure, al contrario,  se esso involga anche i processi di primo grado tuttora in corso o, addirittura, non ancora instaurati dal competente procuratore regionale con l’emissione di citazione in giudizio.

Al riguardo si possano confrontare due opposte tesi interpretative.

2.1   Tesi  letterale e restrittiva 

Il testo di legge, per ben due volte, adopera la locuzione  sentenza pronunciata.

Un’ interpretativa rigorista potrebbe indurre ad affermare che il legislatore     titolare di ampia discrezionalità nel fissare discrimini temporali per fare applicazione di istituti processuali -   abbia consapevolmente scelto di limitare la misura premiale ai soli giudizi di primo grado  conclusi con sentenza  depositata entro e non oltre  il 31 dicembre 2005.

E’ ben possibile (non sarebbe la prima volta) che, nel fissare il discrimine, il legislatore abbia voluto tener conto della fase cui è giunto il processo.

D’altronde, non si è al cospetto di un istituto a regime, per il quale, come già detto, possa essere intravista una ratio di deflazione del secondo grado di giudizio.   

La disposizione è stata inclusa in normazione di tipo finanziario, sicché non è strano  o irrazionale affermare che l’unica ratio, verosimile e oggettiva,  riposi nell’intento di favorire un sollecito recupero di somme certe all’erario pubblico.

2.2   Tesi ampliativa e costituzionalmente orientata

Di contro alla tesi surriferita appare meglio sostenibile una tesi diversa.

La disposizione affatto richiede esplicitamente che sia già intervenuta la sentenza di primo grado  o sia stata già esercitata dal Procuratore l’azione di responsabilità.

E’ pur vero che la frase “…sia stata pronunciata sentenza” e l’uso del verbo al passato farebbe immaginare la necessità che si sia già concluso il giudizio di primo grado e sia già intervenuta, entro il 31 dicembre 2005,  sentenza di condanna.

Detta lettura sintattica, però, risulta irragionevole e potrebbe essere oggetto di eccezione di incostituzionalità, in quanto foriera di ingiustificate disparità di trattamento.

A fronte di fatti dannosi  tutti consumati entro e non oltre il 31 dicembre 2005,  la norma risulterebbe applicabile solo a quelli per i quali vi sia stata sollecitudine nell’esercizio della funzione giurisdizionale.

In particolare  :

·        resterebbero escluse dall’ambito applicativo vicende anche risalenti nel tempo, per le quali si siano verificate lungaggini processuali indipendenti dalla volontà delle parti (es. un’interruzione, un rinvio d’ufficio), mentre potrebbero validamente beneficiare dell’istituto premiale  vicende temporali  molto più recenti,  oggetto di processi più rapidi

·        resterebbero quasi certamente escluse tutte le vicende collocabili nell’anno 2005, per le quali è inimmaginabile l’avvenuta, fulminea celebrazione del processo di primo grado  

Tenuto conto dei cennati inconvenienti, la seconda soluzione, ispirata ad una lettura adeguatrice e costituzionalmente orientata,  si lascia preferire.

L’istituto è applicabile ai processi sia instaurati, sia instaurandi  (ovviamente non a quelli esauriti) che abbiano ad oggetto eventi lesivi prodottisi entro e non oltre il 31 dicembre 2005,  indipendentemente dalla circostanza che, a tale data,  sia già intervenuto il deposito della sentenza di primo grado.

Superato il primo scoglio interpretativo, va poi osservato che, nel caso in cui la giurisprudenza dovesse accedere alla qui propugnata tesi ampliativa,  potrebbe tornare in risalto la nota problematica della nozione di “fatto commesso”, discutendosi se occorra riferirsi alla sola condotta oppure al concetto composito del  fatto dannoso  (comprensivo di condotta ed evento). 

In proposito risulterebbe strano, contraddittorio e inspiegabile che il giudice contabile,     finora univocamente orientato nel propendere per l’accezione, a fini prescrizionali,  della teoria dell’evento, mutasse d’improvviso atteggiamento e, in contrasto con il diritto vivente, ammettesse il beneficio anche per agenti che abbiano tenuto condotte causatrici di lesione patrimoniale  materialmente prodottasi  oltre la  data-limite del  31 dicembre 2005.      

 

 

3.  L’ambito di applicazione.

 

La richiesta del beneficio può essere avanzata dai “…soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna”.

Nulla di più afferma il testo di legge, sicché in nessun modo esso prende differenziatamente in considerazione :

·        il carattere  doloso  o  colposo  della responsabilità

·        la natura  amministrativa  o contabile  della responsabilità  (nel secondo caso con correlato obbligo restitutorio)

·        l’esistenza o meno del  vincolo di solidarietà passiva  nel debito risarcitorio

·        la circostanza che si tratti dell’agente oppure, nel caso di avvenuto decesso dello stesso, di condanna trasmigrata sui suoi eredi, stante la trasmissione del debito iure successionis

·        le ipotesi in cui vi sia stata in primo grado soccombenza parziale reciproca e che, avendo interposto appello, il PM possa assumere la veste di appellante principale o incidentale, oltre che quella di resistente.

Diventa, quindi, naturale interrogarsi sul fatto se l’accesso al beneficio possa dirsi assistito da una causa normativa o ragione che lo giustifichi nella totalità delle casistiche ovvero se la disciplina normativa, per talune ipotesi, possa risultare arbitraria e irragionevole,  perché contrasta con garanzie risalenti alla Carta fondamentale.

La problematica non è di scarso rilievo, non può essere vagliata attraverso indistinte  letture d’insieme ed esige ulteriori specificazioni.  

 

3.1  - sentenze di condanna appellate dal PM 

E’ già capitato, nella prassi, che l’istanza di ammissione al beneficio sia stata presentata in casi in cui appellante è il Procuratore regionale, rimasto parzialmente soccombente in primo grado. 

Spesso il Procuratore si è gravato avverso il capo decisionale concernente la quantificazione del danno, ritenuto affetto da  vizi e difettosità di cui ha chiesto correzione e riforma. Ciò induce, quale problematica aggiuntiva, il fatto che la  quantificazione del danno, costituente il parametro-base sul quale il giudice deve determinare  l’abbattimento percentuale di cui  ai commi 231 e 232, sia oggetto specifico di impugnativa, devoluto in revisio al  giudice di appello.

E’ utile partire dalla constatazione che la locuzione “…in sede di impugnazione”  di cui al comma 231  non distingue tra i casi di appello proposto dal condannato e i casi di appello proposto dal PM. 

L’inciso “…sentito il procuratore competente”, nel comma 232, sembra inoltre indicare che il PM sia chiamato a rendere un mero avviso o riscontro, non condizionante o pregiudiziale ai fini della concessione del beneficio. 

Attenendosi alla lettera delle disposizioni, il giudice potrebbe considerare la volontà espressa dal PM non vincolante e, di conseguenza, in nessun modo preclusiva per dare corso all’ammissione al beneficio.  

La legge non sembra imporre il concordamento o la condivisione volitiva tra parte pubblica appellante e parte privata appellata, sicché l’istituto di definizione agevolata,  anche quando il PM sia impugnante,  parrebbe non dover assumere connotazione bilaterale e consensuale.

Detto ciò, è doveroso notare che siffatta esegesi, rigidamente letterale, fa sì  che i commi 231 e 232 divengano  sospettabili  di  illegittimità costituzionale,  a meno che il giudice assolva al dovere di sperimentare letture alternative ricavabili dai principi e interpreti le norme in senso conforme alla Costituzione. [6]  

Il vigente ordinamento processuale, sia pure in maniera non esplicita, prevede e ammette, per le parti in causa,  la facoltà della  rinuncia  al gravame, tramite disposizioni  valevoli  anche per il Pubblico Ministero contabile,  titolare di un interesse a ricorrere nascente dalla soccombenza, che non è espressivo dell’esercizio officioso dell’azione e non si imbatte, per ciò stesso, nella regola della irretrattabilità. [7]

Da ciò consegue che, in astratto, non sarebbe impedito al PM, dopo che abbia valutato adeguatamente l’interesse pubblico di cui si fa portatore in giudizio, di aderire volontariamente alla richiesta formulata dalla parte privata e di accettare la proposta di definizione del gravame.   

La  problematica da affrontare, però,  è altra.

Quando la parte pubblica parzialmente soccombente in primo grado sia  appellante  e non intenda rinunciare al suo gravame,  il lasciarla destinata a  fornire un mero riscontro, a dover recepire obbligatoriamente l’iniziativa unilaterale della controparte, a non potersi ad essa interdittivamente opporre e a non ricevere, dalla legge, alcuna garanzia  processuale che assicuri alla propria impugnativa di proseguire sino alla trattazione, all’esame cognitivo pieno ed  alla  valutazione decisionale finale significa, in sostanza, aver limitato, per soppressione,  la  facoltà di appello del Pubblico Ministero.

La scelta volontaria e unilaterale del soggetto privato diventa capace di determinare un effetto processuale  preclusivo  e  irrimediabile : l’inutilità, per improseguibilità, del gravame proposto dal PM e la sostanziale vanificazione dell’esercitata facoltà di appello.      

La facoltà di impugnativa, come è noto, è attribuita e regolata dall’articolo 1, comma 5-bis,  del d.l 15.11.1993 n. 453, conv. con mod. dalla legge n. 19/1994,  norma  che funge da tertium comparationis rispetto al quale si manifesta una disparità di trattamento.     

L’effetto, soppressivo tout court del secondo grado di giudizio per la sola parte pubblica,  appare essere particolarmente penalizzante, specialmente ove si consideri che la soppressione si verificherebbe dentro un sistema processuale peculiare, nel quale le sentenze contabili,  per disposto costituzionale (art. 111, ultimo comma, Cost.), sono ricorribili  in Cassazione unicamente per motivi di giurisdizione.

Si dovrebbe, cioè, assistere alla carenza ordinamentale di qualsiasi rimedio giustiziale tramite cui il PM contabile possa  far valere  in giudizio  vizi,  violazioni di legge o errori,  persino di fatto o materiali, da cui sia rimasta affetta la sentenza  di  primo grado.

L’interpretazione sviluppata  in tal maniera lascerebbe emergere, prima di tutto, una violazione del diritto di azione e difesa in giudizio, presidiato dall’art. 24, commi 1 e 2, della Costituzione, nonché del principio di eguaglianza (art. 3 Cost). 

E’ pur vero che l’oggettiva diversità delle funzioni svolte nel processo dalle due parti, pubblica e privata, potrebbe spiegare talune differenze circa il regime delle impugnative, come accade anche in altri ambiti processuali  (quanto a quello penale, nel quale peraltro vige il divieto della reformatio in peius, si veda Corte cost. sent. n. 280 del 1995).

La diversità di regolazione normativa delle due posizioni processuali, per quanto queste siano tra di loro disomogenee, tuttavia non può  superare un  limite di compatibilità oltre il quale essa diventa irragionevole lesione di parametri costituzionali.   

La facoltà del Procuratore, regionale o generale, di appellare  la sentenza di primo grado in ragione dell’interesse giuridico sostanziale ad essa sotteso, che è di natura essenzialmente e (almeno) prevalentemente risarcitoria ed è orientato alla tutela giudiziale  delle ragioni dell’Amministrazione creditrice, non può restare del tutto compressa. 

L’irragionevolezza si verifica se al Pubblico Ministero non è riconosciuta la  possibilità  di opporsi  alla richiesta di definizione agevolata del giudizio,  non tramite un  sommario parere negativo o dissenso che costituisca atto discrezionale immotivato e incontrol-labile  (sul punto potrebbe offrire spunti di riflessione l’evoluzione giurisprudenziale  che ha riguardato il rito abbreviato penale, desumibile dalla sentenze n. 66/1990, 81/1991 e 92/1992 della Corte costituzionale),  ma  in virtù della  richiesta di dare corso alla trattazione di un’argomentata impugnativa che egli ha già ritualmente proposto avverso la sentenza di primo grado e alla quale non intende rinunziare. 

Parrebbe profilarsi, inoltre, un non giustificabile contrasto con  l’art. 111 della Costituzione, configurandosi quello contabile quale  processo non giusto,  stante uno  squilibrio irrazionale,  intrinsecamente  incongruo  e  insanabile  tra  le posizioni processuali delle  due parti in causa.

Infatti, la parte privata ha intestata e conserva intatta la sua  facoltà di appellare in via principale, incidentale o persino condizionata  e di ottenere la riforma,  anche integrale,  della sentenza di primo grado, essendo a ciò  sufficiente che liberamente decida di non avvalersi del beneficio di cui alla legge n. 266/2005.

La parte pubblica, invece, pur  se  legittimamente appellante e  solo perché l’altra parte presenti la richiesta, è  chiamata  ad  esprimere un mero avviso e deve sottostare all’altrui iniziativa unilaterale, vedendosi preclusa la possibilità di coltivare fino in fondo il proprio gravame. 

In definitiva,  la  richiesta di definizione agevolata del giudizio non avrebbe  come  destinatario e soggetto partecipe l’Ufficio del Pubblico Ministero, che ha ritualmente e  in termini impugnato la sentenza, ne ha motivatamente denunziato vizi afferenti tra l’altro  proprio il   quantum  del danno deciso in prime cure  e  intende  proseguire il giudizio,  ottenere una  pronuncia nel merito e conseguire la  riforma della sentenza di primo grado.    

In questi casi, inoltre, il ritenere ammissibile e accoglibile de plano la richiesta, da  commisurare al  “…danno quantificato nella sentenza” di primo grado,  significherebbe aprire la strada  anche ad una paventabile lesione dell’art. 101, comma 2, Cost.,  nella prospettiva della cd. indipendenza funzionale in senso stretto o riserva di giurisdizione.

Il giudice di appello, anche se formalmente investito, a seguito del gravame interposto dal Pubblico Ministero sullo specifico capo decisionale, di potestà cognitiva piena in ordine all’accertamento ed alla quantificazione del danno, dovrebbe limitarsi a svolgere una molto più  angusta e limitata funzione computistico-notarile.

La sua potestà cognitiva e giudicante, nella migliore delle ipotesi, si dovrebbe tradurre nel determinare il risarcimento nella misura massima del 30 per cento di un danno già quantificato, semmai con difettosità o vizi od errori che potrebbero essere persino di natura materiale e suscettibili di emenda,  dal primo giudice, mentre questi , sulla base degli atti processuali delle parti, ha potuto invece svolgere  plena cognitione  la sua funzione.    

 

 

 

3.2  - condanne con vincolo di solidarietà passiva 

L’articolo 1, comma 1-quinquies, della legge n. 20/1994, con disposizione di valenza generale in tema di responsabilità amministrativa, sancisce che in ipotesi di danno erariale causato da più persone la responsabilità è solidale soltanto per i concorrenti che abbiano conseguito illecito arricchimento o abbiano agito con dolo.

La limitazione rappresenta speciale deroga al regime generalmente valido per la solidarietà passiva nelle obbligazioni ed ha superato positivamente, come è noto,  il vaglio di costituzionalità  (v. sentenza Corte cost. n. 453 del 1998),  avendo il giudice delle leggi ritenuto che  “….la scelta (limitativa)  così operata non può reputarsi illegittima, in quanto, per i pubblici dipendenti, la responsabilità per il danno ingiusto può essere oggetto di discipline differenziate rispetto ai principi comuni in materia.”

Nella stessa decisione la Consulta ha escluso una paventata lesione dell’art. 24 Cost. e del diritto di difesa spettante alla parte pubblica e, per essa, alla Pubblica Amministrazione, perché la garanzia presidiata dall’art. 24 “…trova confini nel contenuto del diritto al quale serve, e si modella sui concreti lineamenti che il diritto riceve dall’ordinamento”.

In definitiva, i lineamenti del diritto sostanziale nell’ordinamento vigente sono stati ritenuti quelli disegnati  dall’art. 1 della legge 20/1994 e tale diritto può essere fatto far valere esclusivamente nell’ambito del processo contabile e attraverso l’azione officiosa del Pubblico Ministero, tanto che, adito qualunque altro giudice, questi sarebbe tenuto a  dichiarare il difetto di giurisdizione.

Orbene la legge n. 266/2005,  dettando la disposizione di cui al comma 231 e senza  aver fatto salvi  i casi di dolo o illecito arricchimento,  è andata  ad incidere proprio sul  diritto sostanziale come già disciplinato dalla legge n. 20/1994 e ne ha modificato, implicitamente e profondamente,  le caratteristiche costitutive, facendo venir  meno la  solidarietà passiva  nell’obbligo risarcitorio.

Il concorrente a titolo di dolo che, avendone titolo, chieda e ottenga il beneficio di cui al comma 231,  non soltanto risarcisce una minor somma  (il che, per  insindacabile discrezionalità del legislatore, è astrattamente  ammissibile), ma  pure  si  libera e  si sottrae al vincolo della solidarietà passiva, senza che la disciplina normativa del diritto,  valevole in generale e tuttora in vigore, sia mai stata in tal senso sostanziale  modificata.

Ciò sembra comportare violazione dell’art. 24, comma 1, Cost., atteso che la garanzia costituzionale ha una formulazione tanto generale da colpire qualsiasi esclusione della tutela giurisdizionale, soggettiva od oggettiva, e qualsiasi limitazione che ne renda im-possibile o difficile l'esercizio da parte di uno qualunque degli interessati, dando al soggetto protetto il diritto di esperire le azioni e le difese che siano idonee a realizzare la protezione del proprio interesse  (cfr. ex plurimis : Corte cost. sent. n. 48 del 1968).

La legge n. 266, nell’attribuire al concorrente danneggiatore doloso la facoltà di  definizione del giudizio che lo libera dal vincolo della solidarietà, per ciò stesso comprime e inibisce irrimediabilmente il diritto dell’Amministrazione di escuterlo,  anche da solo e ancorché i patrimoni degli altri coobbligati siano sufficienti a garantire il soddisfacimento della pretesa a norma dell'art. 2724 del codice civile, per l’intero. 

L’effetto appare gravemente pregiudizievole per la pubblica Amministrazione creditrice, perché questa, senza poter fruire di rimedio alcuno, perde il  diritto di avvalersi della garanzia patrimoniale di cui all’art. 274O del codice civile,  mentre  il vincolo di solidarietà, gravando sul patrimonio di ciascun debitore coobbligato (cfr. tra molte : Cass. civ.  n. 2623 del 1987, n. 2400 del 1990, n. 15428 del 2004; n. 21664 del 2005), dovrebbe essere destinato ad  assicurare proprio il rafforzamento della garanzia di adempimento ed importare che l’Amministrazione possa pretendere la totalità della prestazione anche da uno solo dei debitori coobbligati.  

La disposizione normativa varata nel 2005, inoltre, ha efficacia transitoria e, sotto questo profilo, disegna un’ irragionevole disparità di trattamento (art. 3 Cost.) rispetto alle fattispecie, passate ma anche future  nelle quali invece,  in conformità al regime sostanziale del diritto intestato alla P.A., l’obbligo risarcitorio degli agenti, quando essi siano concorrenti in causazione di un danno a titolo di dolo, resta gravato dal vincolo della solidarietà a beneficio dell’amministrazione creditrice.

 

 

3.3  - altre fattispecie   

Alle fattispecie sin qui descritte, nelle quali agevolmente si potrebbero cogliere   i sospetti di un temibile contrasto con garanzie di rango costituzionale, se ne aggiungono altre, da esaminare con maggiore attenzione oppure meno frequenti nella pratica applicativa.

Una prima ipotesi può riguardare fattispecie in cui l’amministrazione danneggiata sia identificabile in un ente appartenente alle Autonomie territoriali.

La previsione legislativa dell’abbattimento della somma risarcitoria potrebbe far sospettare indebita invasione o interferenza nell’area riservata dall’art. 119 Cost. alle autonomie regionali,  cui la legge statale può prescrivere solo criteri e obiettivi di massima, ma non imporre in dettaglio né vincoli,    strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi. [8]

Si deve tuttavia ricordare    -  avuto riguardo alle autonomie aventi natura statutaria non speciale  -  che la disciplina della responsabilità amministrativa ricade in un ambito materiale ascrivibile a competenza statale esclusiva. [9] 

Altri casi di interesse potrebbero riguardare fattispecie di nocumenti patrimoniali arrecati all’Unione e incidenti su bilancio o risorse comunitarie, oppure  da società soggette a giurisdizione contabile e  operanti in ambito di mercato ultranazionale. 

In queste ipotesi, degli effetti derivanti dal beneficio dell’abbattimento di buona parte del nocumento, sancito con legge di uno Stato membro, andrebbe vagliata la giuridica compatibilità e la non infrazione di regole comunitarie (es. aiitui di Stato indiretti).     

Da ultimo si può far cenno al comma 174 della medesima legge n. 266/2005, che ha  legittimato il PM contabile all’esperimento di   “tutte”  le azioni a tutela delle ragioni del creditore previste dalla procedura civile. 

Viene da interrogarsi in ordine all’ intrinseca coerenza e non contraddittorietà  tra detta previsione e l’istituto premiale di cui ai commi 231-233,  ad esempio nei casi in cui si intenda esercitare azione revocatoria avverso atti dispositivi dei quali si assumano effetti  pregiudizievoli sul credito risarcitorio, considerato che l’ammontare del credito è suscettibile di una consistente variazione in numerario, potendo essere, a semplice richiesta del debitore, abbattuto sino a ridursi al 10 per cento dell’intero.   

 

 

4. -  Problematiche in rito.

 

Alcune problematiche riguardanti i profili in rito della procedura atipica disegnata dalle nuove disposizioni di legge sono venute immediatamente in evidenza nella pratica applicativa.

Di seguito è utile segnalare le più salienti.

 

4.1  - la procedibilità dell’impugnazione  

Il fatto che la richiesta di definizione agevolata del giudizio possa essere formulata  “…in sede di impugnazione” sembra indicare la necessità delle valida instaurazione della fase processuale nella quale è applicabile l’istituto. 

Elemento intrinseco, pur se implicito, dell’ambito applicativo è la giuridica esistenza di un’impugnativa validamente interposta, sicché il giudice deve svolgere una preliminare delibazione circa la procedibilità del mezzo di impugnazione. 

Il procedimento camerale previsto dalla legge ha natura  incidentale  rispetto al giudizio di gravame, atteso che la richiesta del beneficio non può pervenire al di fuori del procedimento di impugnazione della sentenza di primo grado.

La legge, stabilendo che l’ istanza  deve essere proposta in sede di impugnazione,   segna in tal maniera una connessione funzionale necessaria, tanto che un’eventuale decisione d'inammissibilità dell'appello farebbe automaticamente  venir meno anche gli effetti della richiesta.

Se si reputasse diversamente, si sarebbe costretti ad assistere a casi di appelli invalidi, ad esempio per tardività, surrettiziamente azionati al solo scopo di aggirare la preclusione del giudicato, oppure a casi di istanze presentate in giudizi estintisi per inattività.

L’effetto distorsivo potrebbe assumere dimensioni dilatabili a macchia d’olio, andando ad investire (ad esempio attraverso istanze proposte per revocazione, sia pure immotivata, entro il larghissimo termine triennale) persino i casi in cui,  dopo l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza, sia stata attivata e sia in corso, anche da lungo tempo,  l’esecuzione coattiva della condanna.     

 

 

4.2  - il momento di presentazione della richiesta

Un aspetto procedurale di sicuro rilievo riguarda il momento in cui l’interessato può avanzare richiesta di ammissione al beneficio.

Se il giudizio di appello è già instaurato e pendente,  sembra ovvio che la richiesta debba essere azionata  tramite  atto diverso da quello introduttivo, mediante deposito in segreteria  (la richiesta, se si guarda alla regola per i procedimenti camerali di cui all’art. 737 c.p.c., dovrebbe assumere la forma del “ricorso”) oppure attraverso una richiesta  formulata e presentata  in limine  all’udienza di discussione.

Tra le opzioni ermeneutiche praticabili in astratto meno convincente è quella volta a ritenere necessaria la presentazione contemporanea o addirittura unitaria e contestuale all’atto di appello.

Praticata siffatta esegesi, diverrebbe automatica una conseguenza processuale :   la carenza di un requisito formale reputato indispensabile, quale l’ìnscindibilità tra il ricorso di appello e la richiesta di definizione agevolata del giudizio, anche se la nullità non è comminata esplicitamente dalla legge, condurrebbe a dover pronunciare l’inammissibilità dell’atto  (art. 156, comma 2, c.p.c.). 

Sennonché, al riguardo vengono in rilievo e dovrebbero essere considerati due elementi.

Un primo elemento di interesse, in presenza di dizioni letterali non tutte tecnicamente irreprensibili utilizzate dal legislatore nella costruzione regolativa dell’istituto,  sicuramente asistematico e innovativo per l’ordinamento giuscontabile, suggerisce di indagare se ed  in quali casi nel vigente sistema processuale risulti adoperato il vocabolo “impugnazione”.

Orbene,  nel T.U. n. 1214/1934, nel regolamento di procedura di cui al r.d. n. 1038/1933 e nelle leggi di riforma n. 19 e n. 20 del 1994,  il vocabolo  è inesistente. 

Quanto al codice di rito civile (applicabile in virtù del rinvio dinamico di cui all’art. 26 del reg. n. 1033),  il titolo III del libro II  è dedicato alle  impugnazioni  in generale e, nell’ambito delle stesse,  individua l’appello come uno soltanto tra i  vari  mezzi  di impugnazione  (cfr. art. 323 c.p.c.).

Sul piano logico-sistematico, pertanto,  sembra difficile  sostenere che l’espressione “…in sede di impugnazione” equivalga ad aver voluto indicare il  momento  della formale presentazione del ricorso di appello,  atto questo tramite il quale le parti esperiscono il relativo mezzo. 

L’espressione, piuttosto, sembra aver inteso identificare la fase processuale o, meglio, il  grado di giudizio, cognitorio in senso pieno, nel corso del quale può trovare ingresso  il nuovo  istituto.

Ma vi è di più.

Se si aderisce alla tesi della perfetta e rigida equipollenza  tra  la locuzione adoperata nella legge e il  momento di presentazione del ricorso di appello, si corre il rischio di introdurre,  per via interpretativa o pretoria, un’ inespressa preclusione processuale o di sbarramento formale, così esponendo la norma a sospetti sulla sua legittimità costituzionale, per vizio derivante da irragionevolezza di disciplina, in violazione degli articoli 3 e 24, comma 2,  della Carta.

Nello stesso comma 231 è stabilito che la facoltà ivi prevista può essere esercitata dai soggetti condannati con sentenza di primo grado per fatti commessi antecedentemente all’entrata in vigore della legge (il 1 gennaio 2006, come recita il comma  612).

L’unico discrimine temporale, sancito a chiare lettere,  è quello della  data  entro cui  è stato commesso  il fatto dannoso. 

Se si reputa che a tale, unico discrimine temporale il legislatore abbia inteso aggiungere, per implicito,  anche quello della contestualità tra istanza e atto di appello,   la disposizione finisce con il confliggere con i due citati parametri costituzionali  (artt. 3 e 24, comma 2,  Cost.). 

Un elemento occasionale e fortuito (la data di presentazione del ricorso), tra l’altro vincolato ai tempi del processo e persino alla sollecitudine nelle iniziative notificatorie della controparte pubblica  (che, notificando o meno, nelle forme all’uopo prescritte, la sentenza di primo grado, può aver fatto scattare il termine breve per l’impugnativa), assumerebbe rilievo giuridico preclusivo per i processi instaurati anteriormente al 1 gen-naio 2006 e attualmente in pendenza.

Siffatta preclusione appare esser tale da comprimere irrimediabilmente l’esercizio della facoltà di richiedere il beneficio, facoltà che spetta alla parte condannata indipendentemente dall’accoglimento o meno della sua  richiesta. 

E’ pur vero, come più volte ha insegnato la Corte costituzionale, che il legislatore gode di larga discrezionalità nel fissare discrimini temporali per l’applicazione di istituti aventi natura processuale, potendoli ancorare alle diverse fasi in cui è giunto il processo.  

Ma la preclusione, nella specie, opererebbe all’interno di identica e unica fase processuale (appello), iniziata e non ancora conclusa e sarebbe, perciò, sintomo di incongruenza normativa,  in quanto comportante irragionevole e ingiustificata disparità di trattamento, lesiva del diritto di difesa. 

 

 

4.3  - la sottoscrizione della richiesta e il mandato al difensore

L’istanza di definizione agevolata postula l’esistenza di una specifica volontà del richiedente.

L’assenza di firma autografa sull’istanza non darebbe certezza della provenienza della manifestazione di volontà :  ottenuto che sia l’abbattimento della somma risarcitoria, non sarebbe dato conoscere, in maniera incontrovertibile, se il richiedente sia personalmente intenzionato al tempestivo versamento della somma.

Più delicata è la questione del conferimento del potere di richiesta al difensore costituitosi in appello.

Alla stregua del disposto di cui all’art. 84, commi 1 e 2, del codice di procedura civile,   è da valutare l’estensione dei poteri esercitabili dal difensore nella fase procedurale in cui è destinato a valere l’atto processuale de quo.

La problematica insorge prevalentemente per gli appelli già pendenti, il cui atto introduttivo, redatto prima dell’entrata in vigore della legge, reca un mandato alle liti conferito senza esplicita previsione in proposito. 

La  risposta risolutiva meglio aderente alle regole di rito dovrebbe essere di segno  negativo.  

Pur se ci si intende muovere sulla strada della integrale e convinta adesione ai più recenti indirizzi ermeneutici, che oramai rifuggono dai rigidi schematismi formali richiesti in passato (si veda, ad esempio,  SS.UU. n. 25032/2005, che ha definitivamente superato la questione dell’ omessa certificazione della firma del mandante da parte del difensore),  non si può fare a meno di osservare che la richiesta di definizione agevolata   implica, se accolta,  un atto di vera e propria disposizione patrimoniale, dovendo il richiedente effettuare il versamento, nel termine fissato dal giudice, di somma risarcitoria in misura abbattuta secondo le percentuali indicate nella legge e determinate con il decreto camerale.

Sarebbe arduo  - qualunque elasticità contenutistica si intenda attribuire alla formula adoperata nel conferimento dello jus postulandi (la procura alle liti solitamente  è rilasciata mediante firma apposta in calce a testo predisposto) e pur volendosi trascurare il fatto che il rilascio del mandato è avvenuto quando ancora neppure esisteva in ordinamento l’istituto giuridico de quo -   ritenere che sia stato conferito espressamente al difensore il potere di chiedere la definizione del giudizio mediante  il volontario pagamento di una somma di denaro.

 

 

4.4  - la notificazione o la comunicazione mediante deposito della richiesta 

 

Eccetto i casi in cui la richiesta del beneficio sia avanzata  in limine litis e direttamente all’udienza di trattazione del gravame, ci si può interrogare circa la necessità della notificazione o della comunicazione dell’istanza  al PM resistente in appello.

Il rispetto della regola del contraddittorio, nonché la previsione normativa che il PM debba essere sentito dal giudice prima della eventuale concessione del beneficio, farebbero propendere per un rituale e preventivo obbligo notificatorio, a garanzia del contraddittorio e in considerazione della circostanza che il PM, sia pure non sostituto processuale, agisce anche a tutela dell’amministrazione danneggiata (che è già creditore, perché ha già ottenuto un titolo di condanna esecutivo),  oltre che nell’interesse generale della legge.

Si deve, tuttavia, valutare un aspetto che potrebbe suggerire una diversa soluzione applicativa.

Serve rammentare che esistono e sono in vigore, non essendo mai state abrogate neppure in via tacita o implicita,  disposizioni di rito valevoli per i giudizi innanzi la Corte dei conti  (articoli  4 e 5 del  r.d. n. 1038/1933).

Tali disposizioni permettono ad entrambe le parti, pubblica e privata, di adottare una specifica  “forma” procedurale destinata alla presentazione di  memorie,  richieste e atti   nell’ambito di un processo già incardinato e iscritto a ruolo, salvo tassative eccezioni (es. ricorso incidentale) per le quali è prescritta la notificazione.    

Dette disposizioni,  in quanto riferite ad una forma  “…determinata” e regolata,  se lette in connessione con il disposto dell’articolo 121 del codice di procedura civile, a sua volta applicabile nei limiti sanciti dall’art. 26 dello stesso r.d. n. 1033, indicano forme aventi  natura obbligatoria.

Esse comportano che l’istanza, avanzata dalla parte già costituitasi tramite la presentazione del ricorso in appello,  possa essere “depositata” nello stesso e identico giudizio e presso  la Segreteria della stessa Sezione giudicante.        

Siffatta soluzione    – che ha il pregio di  scongiurare in radice qualsiasi problema –     trova attualmente ostacolo in una scelta compiuta  dalle tre Sezioni centrali.

La scelta procedurale è stata nel senso di assegnare ad ogni singola istanza, quando non contestuale all’atto di appello, un  nuovo numero di ruolo, distinto da quello del gravame (principale o incidentale)  instaurato dal soggetto istante.   

In tal modo la procedura camerale di esame dell’istanza ha  assunto i caratteri  di una sorta di giudizio autonomo e separato, svincolato dal giudizio di appello cui invece direttamente,  per esplicita volontà di legge,  essa  afferisce.

Sembra evidente che siffatta scelta,  per serbare compatibilità giuridica con la doverosa osservanza della regola del contraddittorio, dovrebbe comportare l’obbligo della previa  notificazione  dell’istanza  al Pubblico Ministero. 

La conseguenza che ne deriva non consente alla parte privata di avvalersi della  speciale regola dettata per il rito contabile (deposito nello stesso giudizio e in segreteria, che equivale a notificazione al PG) e può condurre la disposizione di cui al comma 231 a vulnerare  l’articolo 111, comma 2, Cost. 

 Il legislatore non ha sancito una specifica regola  di notificazione o di comunicazione della richiesta, ma ha indicato unicamente l’organo giudiziario destinatario della stessa (la competente sezione di appello).

Il vuoto di disciplina normativa,  onde mantenere coerenza con i precetti costituzionali, deve essere colmato attingendo in via integrativa,  per quanto non previsto in quel comma,  al vigente regolamento di procedura per i giudizi contabili. 

Immaginare che il procedimento camerale prenda avvio tramite atti processuali neppure fatti oggetto di formale e reciproco scambio comunicativo tra le parti è, invece, situazione capace di disegnare  il giudizio contabile    - che è processo tra due parti,  rispetto alle quali il giudice è in posizione di terzietà -  al di fuori del rispetto del canone del contraddittorio di cui all’articolo 111, comma 2, Cost., rendendolo su questo versante processo non giusto. [10]      

 

 

5.  Il  parere del  Pubblico Ministero.

 

La dizione “…procuratore competente” potrebbe destare perplessità, sino al punto di lasciare ipotizzare una variabilità nell’identificazione dell’Ufficio del pubblico ministero legittimato ad esprimere il parere.

Premesso che la normazione riferita all’area contabile ha di frequente mostrato scarsa attitudine o propensione alla precisione concettuale e redazionale     - più volte sono state  adoperate, flessibilmente e con disinvoltura, le locuzioni procuratore generale  o procuratore regionale    (si pensi all’art.  2 della legge  n. 19/1994,  all’articolo 6 della legge n. 97/2001, all’articolo 5 della legge n. 89/2001) -   occorre ricordare  che in appello esiste una competenza ordinaria della Procura generale, sicché non può che essere sentito il Procuratore generale. 

Il PG è presente e obbligatoriamente interviene nei giudizi in svolgimento in sede centrale in virtù di  specifica attribuzione funzionale,  prevista e regolata dall’articolo 1, comma 4, del T.U. n. 1214/1934; dall’articolo 2 del r.d. R.D. 13 agosto 1933, n. 1038; dall’ art. 18, comma 2, del medesimo  r.d. n. 1038/1933, nonché dall’art. 2, comma 1, del d.l. 15 novembre 1993 n. 453, convertito con modificazioni da legge 14.10.1994 n. 19.

Trattasi di competenza normativamente radicata, esclusiva, funzionale e territorialmente sovraordinata e distinta da quella che la legge assegna ai Procuratori regionali, giammai modificata dalle novelle del 1994 e del 1996.

Un dato testuale inequivoco, invece,  indica che il PG  deve essere “…sentito”.

L’intervento della parte pubblica, pertanto, da un lato è presupposto giuridico essenziale della procedura camerale, connotato da valenza obbligatoria e non derogabile; dall’altro è solo  consultivo e non vincolante, tanto che il giudice può andare in diverso avviso rispetto alle determinazioni del PM.

Sennonché, come già detto in precedenza,   non sembra  priva di ragionevoli  fondamenti la tesi che, almeno in un caso  (appello principale o incidentale del PM),   l’istituto dovrebbe assumere caratteri necessariamente bilaterali, in questa prospettiva potendo essere denominato   definizione concordata della  lite.

Nel caso menzionato  l’effetto premiale della riduzione dell’ammontare della condanna        come accade per il patteggiamento penale in appello di cui  all'art. 599, commi 4 e 5, c.p.p., novellato con la legge 19.1.1999 n. 14 e con la stessa differenza rispetto a  quanto accade per l’istituto del normale patteggiamento di cui agli artt. 444-448 c.p.p.  -   non si dovrebbe poter produrre in base alla volontà unilaterale della parte privata condannata.

La struttura necessariamente bilaterale troverebbe un’altra giustificazione logico-giuridica,  argomentabile alla stregua di garanzie costituzionali.

E’  noto che nel patteggiamento penale  (in tutte le sue forme : normale, allargato, in appello) la parte civile danneggiata costituita nel processo resta totalmente fuori dall’accordo; tuttavia, tale situazione è controbilanciata dal fatto che la parte civile conserva intatta la facoltà, come ha ribadito la giurisprudenza (cfr. Corte costituzionale, sent. n. 219 del 2004), di agire successivamente e autonomamente in sede civile per ottenere il risarcimento del danno. 

Nel nostro caso, invece, una volta avanzata la richiesta e concesso al debitore il beneficio premiale, l’amministrazione patrimonialmente danneggiata non ha alcuna, residua possibilità di ottenere alcun altro ristoro in altra sede.

E’ questa una ragione costituzionalmente forte per poter considerare componente costitutiva essenziale  la partecipazione volitiva  del Pubblico Ministero, con espressione di una volontà superabile dal giudice, in caso sia negativa, solo attraverso congrua motivazione.

Il PM, anche se non è sostituto processuale in senso stretto,  è portatore di una tutela diretta anche agli interessi dell’amministrazione danneggiata.

Negare ed escludere il carattere bilaterale dell’istituto comporterebbe una  totale e irrimediabile compressione del diritto della Pubblica amministrazione di ottenere tutela giudiziale, con violazione di parametri costituzionali.

In definitiva, si verificherebbe  una situazione analoga a quella che, paventata a suo tempo per il caso del patteggiamento penale,  ha portato la Corte costituzionale ad escludere il dubbio di lesione dell’art. 24 Cost. [11] 

Nei ragionamenti fin qui svolti non può trovare spazio, invece, il dubbio che il  concordamento tra le due parti in causa sarebbe incostituzionale perché vincolerebbe il libero convincimento del giudice, limitandone  i poteri  (v. art. 101 Cost.).

Tenendo presente quanto ha enunciato la Corte costituzionale, sia a proposito di  patteggiamento penale (cfr. sent. n. 313/1990), sia a proposito di conciliazione tributaria (cfr. sent.  433/2000 e ord. 435/2000), il dubbio si supera notando che non sarebbe  ravvisabile alcun svilimento della funzione giurisdizionale e il giudice contabile non  sarebbe relegato a svolgere un ruolo meramente formale.

Il giudice, infatti, conserverebbe il potere di delibazione nel merito,  il potere di modificare l’assetto negoziato (es. giungendo sino al 30 per cento, laddove le parti siano state consenzienti sul 10 o sul 20 per cento), il potere di non accogliere la richiesta e, infine, avrebbe comunque l’obbligo di motivare il provvedimento e la concessione del beneficio

 

 

 

6.  Il provvedimento camerale.

 

Una delle primissime questioni posta all’attenzione di chi è impegnato in sede processuale attiene all’ eventuale intervento delle parti alla camera di consiglio nella quale il giudice di appello deliba l’istanza.  

Viene in risalto, in prima battuta, l’art. 738 c.p.c. che, con disposizione comune per i procedimenti camerali, non impone esplicitamente la  partecipazione fisica delle parti in causa. [12]

E’ altrettanto vero che nei procedimenti camerali civilistici da un lato la pienezza di  contraddittorio è assicurata in modo differito, sicché il decreto è reclamabile dalle parti  (cfr. art. 739 c.p.c.);  dall’altro,  il giudice può assumere informazioni (cfr. art. 738, ultimo comma c.p.c.), se del caso sentendo personalmente le parti; infine, diversamente dalla fattispecie che qui interessa, le disposizioni comuni del rito, applicabili fatta salva diversa regolazione, si riferiscono a  provvedimenti che, in caso di accoglimento, non hanno effetti definitori sul giudizio e sulla lite.

Inoltre, sia nel rito civile, sia nel rito contabile,  sono rinvenibili casi di intervento delle parti in camera di consiglio  (cfr. esemplificativamente  art. 108 r.d. n. 1038/1933 e art. 373 c.p.c.). 

Quanto ad istituti similari in sede penale (ferme restando, ovviamente, tutte le rilevanti differenze), vi è da ricordare che l’art. 127, comma 3,  c.p.p. a proposito di patteggiamento in appello, stabilisce che il pubblico ministero e i difensori sono sentiti se compaiono.

Un’ indicazione generale più volte offerta dalla Corte costituzionale, infine, esclude l’esistenza di un principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità di regole procedurali tra diversi tipi di giudizio, ben potendo i rispettivi ordinamenti processuali differenziarsi sulla base di una scelta razionale del legislatore, derivante dal tipo di configurazione del processo e dalle situazioni sostanziali dedotte in giudizio (cfr. sent. n. 251 del 1989 e sent. n. 82 del 1996).

Tenendosi accortamente presente quanto enunciato non sembra andare del tutto fuori segno, pertanto, qualche convincimento in ordine alla partecipazione diretta delle parti, ove richiesta, alla camera di consiglio, al fine di assicurare un più compiuto svolgimento del contraddittorio.

Occorre,  tuttavia,  essere chiari in proposito.

Nell’ipotesi in cui la giurisprudenza si orienti per l’opposta soluzione  (cioè camera di consiglio in assenza delle parti, da svolgere sulla scorta dei soli atti scritti versati dal richiedente e dal PM) sarebbe oltremodo difficile ipotizzare e motivare un vulnus di livello costituzionale che, come è noto, si configura e sussiste soltanto quando la limitazione  renda  realmente  impossibile o  difficoltoso  l'esercizio del diritto di difesa da parte di uno qualunque degli interessati.

All’esito della camera di consiglio è emesso un provvedimento,  che decide se assentire o meno al richiedente il beneficio della riduzione del debito risarcitorio.

Il provvedimento assume la forma del  “decreto.

Se si presta mente alle vigenti disposizioni processuali (cfr. art. 135 c.p.c. e art. 737 c.p.c.),  il  provvedimento  deve essere motivato.

Altrettanto evidente sembra essere il fatto che, trattandosi di provvedimento non avente efficacia decisoria, al pari delle ordinanze che non decidono la causa  (cfr. art. 279, comma  4, c.p.c.)  e come tutti i decreti camerali (cfr. art. 742 bis c.p.c.)  esso debba essere  ritenuto reclamabile dalle parti, entro il termine di dieci giorni.

Il decreto camerale  stabilisce  “…il termine per il versamento”.  

Nel silenzio della legge, sussiste discrezionalità del giudice nella fissazione del termine.

Vale, però, la pena far notare come tale opzione legislativa appaia particolarmente dissonante sia rispetto alla presumibile ratio normativa  (pronto e certo recupero all’erario di somme),  sia rispetto al principio della ragionevole durata del processo  (art. 111, comma 2,  Cost.).

Non è fuor d’opera ricordare che il legislatore, nell’esercitare la sua pur insindacabile discrezionalità,  si è comportato in  maniera nettamente diversa quando ha disciplinato gli istituti del patteggiamento penale e della conciliazione tributaria, avendo,  in tali casi,  sancito  termini processuali ben precisi,  idonei a garantire una sollecita definizione della lite.

La Corte costituzionale ha fatto salva la legittimità dei menzionati  istituti proprio perché la regolazione normativa dei termini, sia pure definita “…generosa”, non ha frustrato finalità acceleratorie del processo  (nel caso che qui occupa, al contrario, una dilazione temporale lunga  sarebbe molto più penalizzante di un processo di appello che, di regola, si conclude dopo un’unica udienza di discussione).

Ad ogni modo, gli esposti argomenti  rendono sicuramente inconcepibile un beneficio,  aggiuntivo e non previsto, quale la concessione di un’ eventuale rateizzazione del versamento .    

Dopo l’avvenuto deposito della quietanza di versamento “…il giudizio di appello si intende definito”.

La formulazione della norma, anche per questa parte, è tecnicamente carente e  non prevede come necessaria  l’adozione di un ulteriore, formale provvedimento.

Se si può convenire sul fatto che l’effetto definitorio del giudizio è  ipso jure o di diritto,  ciò non toglie che si renda indispensabile l’adozione di un provvedimento, tipico e avente efficacia dichiarativa, idoneo a determinare l’effettiva e compiuta conclusione del giudizio di appello.  

Il provvedimento, peraltro, si rende indispensabile per altre ragioni,  meglio enunciate in prosieguo. 

 

 

 

7.  Gli ambiti di potestà cognitiva del giudice.

 

La disciplina normativa non fornisce spazi idonei  a far  dubitare del fatto che la richiesta di ammissione al beneficio non può essere avanzata in subordine :  si pensi ad un condannato che insista nel suo appello e nel chiedere di essere prosciolto dall’addebito di responsabilità, mentre soltanto in via gradata chieda di accedere al beneficio della riduzione. 

Anche se la legge non  impone esplicitamente la previa  rinunzia  ai motivi di appello, come, invece, accade per il patteggiamento penale in sede di appello ed eccetto il motivo concernente la quantificazione della pena,  le due volontà   -  di insistere nel gravame e solo in via residuale o condizionata di chiedere la riduzione -   non possono porsi in alternativa  e  sono logicamente, oltre che giuridicamente,  tra di loro incompatibili. 

Aggiungasi che lo svolgimento della camera di consiglio  e la definizione abbreviata del giudizio non possono che essere antecedenti alla discussione nel merito e ad una  cognizione piena  da parte del giudice del gravame.

L’ipotesi inversa darebbe luogo ad un’ inammissibile  “regressione”  delle fasi processuali (la camera di consiglio avrebbe luogo dopo l’udienza di discussione del gravame), con patente violazione persino della regola costituzionale della durata ragionevole del processo.

Altrettanto sicuro è il fatto che la legge non prevede  un contenuto decisionale vincolato o automatico gravante sul giudice e funzionante nel senso di dover dare mero riscontro giudiziale ad una sorta di diritto  potestativo esercitato dal richiedente.  

Se il giudice fosse obbligato ad ammettere in ogni caso il beneficio e delibare unicamente l’entità del beneficio (dieci, venti o trenta per cento), così svolgendo una funzione quasi notarile o ragionieristica,  non avrebbero significato o spiegazione ragionevole né la frase  “…delibera in merito alla richiesta”,    l’inciso “…in caso di accoglimento”, entrambe locuzioni  usate dal  legislatore.

Verosimilmente, proprio all’interno di tale spatium deliberandi deve trovare posto  l’esercizio di una discrezionalità che, distinguendo con prudenza giudicante tra le varie fattispecie (locupletazione, condanne in solido, eredi, ecc…), affranchi la previsione normativa dai più appariscenti dubbi di costituzionalità che la affliggerebbero nel caso in cui, invece,  si  dovesse ipotizzare l’accoglimento vincolato della richiesta.

C’è un argomento sistematico aggiuntivo che avvalora la tesi della non automaticità della concessione del beneficio.

E’ noto, ad esempio, che per la praticabilità processuale dell’istituto del patteggiamento penale in appello la legge ha sancito l’obbligo della previa rinuncia ai motivi di gravame, eccetto il motivo riguardante la quantificazione della pena  (cfr. art. 599, comma 4, c.p.p.) 

Nulla di simile è stato, invece, previsto dal legislatore per l’istituto qui in esame.

L’omessa previsione trova una giustificazione razionale solo se si immagina l’astratta possibilità che il giudice addivenga ad un rigetto della richiesta :  in questo caso, infatti, il giudizio di appello deve poter proseguire e l’appellante può continuare a  far valere tutti  i suoi motivi di gravame.   

Altro aspetto su cui è doveroso soffermarsi riguarda l’interpretazione della  locuzione  “…danno quantificato nella sentenza”.

E’  questo il  parametro giuridico base cui  va rapportato  il limite minimo e massimo di  riduzione   (dal dieci al trenta per cento).

Le parole usate dal legislatore hanno un significato che non può essere avulso dal sistema giudiziario in cui le nuove disposizioni di legge vanno organicamente ad inserirsi.

Le sentenze contabili procedono alla quantificazione del danno computando il nocumento economico arrecato all’amministrazione o ente (se del caso anche attraverso un giudizio valutativo di tipo equitativo, ex art. 1226 c.c.)  e decurtando,  da esso,  gli eventuali   vantaggi  comunque conseguiti.

Tutto ciò che è valutato successivamente in sentenza, in particolare la cosiddetta  riduzione dell’addebito, è elemento estrinseco o esogeno rispetto alla quantificazione medesima.

Il legislatore non può aver ignorato o trascurato tale assetto, esistente da oltre centocinquanta anni  (salvo il computo dei vantaggi di cui alla novella riformatrice).

Diversamente,  avrebbe potuto e dovuto adoperare altre locuzioni,  quali  danno “addebitato”  oppure danno  irrogato” oppure danno cui il richiedente “è stato condannato”  oppure  “risarcimento cui è stato condannato” o altre espressioni  similari. 

Va affrontato, da ultimo,  un profilo  particolarmente delicato e complesso,   concernente il perimetro della discrezionalità decisionale ed i criteri in base ai quali il giudice, al suo interno,  forma  la propria decisione.

A tal proposito la formulazione legislativa è priva di qualsiasi indicatore di riferimento, tanto da  indurre a dubitare persino dell’esistenza di regole di giudizio  cui il giudice possa ancorare la  propria cognizione e decisione.

In realtà, serve rifuggire da epidermiche impressioni e scandagliare più in profondità il punto.    

Può essere utile, anche per questo aspetto, muovere da una constatazione.

Nell’ordinamento giuridico già esistono altre disposizioni formulate in maniera similare.

L’articolo 599, comma 5,  del codice di procedura penale, a proposito del patteggiamento in appello, stabilisce che il giudice,  se ritiene di non poter accogliere, allo stato, la richiesta di patteggiamento, ordina la citazione a comparire al dibattimento. In questo caso la richiesta e la rinuncia perdono effetto, anche se possono essere poi riproposte nel dibattimento.

La decisione del giudice cui fa riferimento la citata norma, anch’essa solo apparentemente  sfornita di regole di giudizio cui ancorare la decisione giudiziale,  in realtà non è tale. 

 Dottrina e giurisprudenza concordemente individuano,  al riguardo,  una decisione da assumere in base alla cosiddetta  factual basis”,  che impone al giudice di decidere allo  stato degli atti, sulla base di un criterio che è di diritto e che vale per tutte le ipotesi di patteggiamento.

Il criterio non si traduce nella valutazione prognostica del probabile esito dell’appello,  cioè il giudice non è chiamato a  valutare se, passando ad un esame di piena cognizione  nel merito, si possa giungere a pronunciare la riforma della sentenza di primo grado e l’assoluzione del condannato in prime cure.

Egli, sulla scorta della richiesta validamente presentata dalla parte privata e della determinazione del PM, valuta unicamente l’insussistenza di vidi di rito e di cause di radicale proscioglimento e, poi, decide direttamente in relazione alla  fattispecie lesiva originaria  ed alla  congruità dell’abbattimento della misura. 

In analogia, pare impossibile immaginare che lo spatium deliberandi commesso dalla legge al giudice contabile comporti il dover valutare, in via prognostica,  l’accoglibilità o meno dell’appello.

La cognizione da svolgere in sede camerale deve investire direttamente, e in maniera sommaria,  la fattispecie come è stata azionata e giudicata in primo grado,  i suoi caratteri costitutivi, l’inesistenza di ragioni ostative alla concessione del beneficio, infine la congruità dell’abbattimento richiesto.

Le  ”regole di giudizio” sono tutte e sole quelle ordinariamente applicate dal giudice contabile :  se si dovesse opinare diversamente, persino l’esercizio del potere riduttivo o la valutazione dei cosiddetti vantaggi dovrebbero essere ritenuti, coerentemente,  oggetti  di un giudizio contabile da svolgere senza regole e senza parametri indicati esplicitamente dalla legge e, per questo,  entrambi  istituti da segnalare come costituzionalmente illegittimi.

 

 

 

8.  La definizione del giudizio.

 

La formulazione testuale del comma 233 è tale che l’accoglimento della richiesta da parte del giudice e la pronuncia del decreto camerale che fissa l’ammontare della somma da pagare ed il termine per il versamento, pur se necessarie,  non sono condizioni processuali di per sé sufficienti a  determinare l’effettiva conclusione del giudizio di appello.

Si rende, tra l’altro, indispensabile la successiva verifica dell’avvenuto versamento della somma, che la parte privata potrà dimostrare attraverso il deposito della quietanza. 

Nell’eventualità di un non adempiuto o non esatto pagamento, il giudizio non potrà dirsi concluso e dovrà proseguire, perché la pretesa risarcitoria non sarà stata soddisfatta, neppure nella misura ampiamente ridotta per volontà di legge.  

La verifica dell’adempimento non può essere relegata al rango di mero incombente segretariale  e non può che competere allo stesso giudice di appello, con conseguente necessità di una formale declaratoria che, ovviamente con efficacia dichiarativa,  accerti  l’avvenuto effetto estintivo e pronunci la definitiva caducazione del titolo (esecutivo) di primo grado.           

Ciò fermo,  non ci si può esimere dall’affrontare altre questioni.

In primo luogo, la legge n. 266 nulla dispone in ordine alla regolazione delle spese processuali.

Orbene, se per il giudizio di appello è pacifico che la cessazione della materia del contendere determini  l’effetto della  compensazione (cfr. art. 92 c.p.c.), con riferimento al  giudizio di primo grado resta da stabilire quale sorte debba avere la condanna alle spese processuali,  oggetto di un  capo decisionale autonomo e diverso da quello riguardante la condanna al risarcimento del danno. [13]

Tenuto conto che il giudizio di appello non ha avuto normale corso, l’unica soluzione conforme a diritto è quella di fare salva la regolazione delle spese così come statuita nella sentenza di primo grado; il che comporta che la sentenza finale dovrà espressamente  pronunciare  in proposito.

La legge 266, inoltre, nulla prevede per il caso di omesso versamento della somma determinata con il decreto camerale, versamento che il beneficiario è tenuto ad effettuare in maniera  integrale e in termini.

A fronte di un mancato o inesatto versamento,  non si produce l’effetto definitorio sancito dalla legge e, perciò, il giudizio di appello deve riprendere e proseguire sino alla sua naturale conclusione con sentenza.

In assenza di previsione normativa circa un atto di impulso processuale per fare fronte a tale evenienza,  sembra naturale che il giudice di appello,  nell’adottare il decreto camerale, debba fissare una udienza susseguente al termine per il versamento e in prosecuzione. [14]

L’udienza consentirà la verifica dell’avvenuto adempimento e, in caso di positivo riscontro,  la declaratoria di cessazione della materia del contendere.

Un’ultima questione    – anch’essa  sfornita di disciplina proveniente dalla sommaria e  troppo lacunosa formulazione legislativa -    può essere affrontata e risolta tramite la sentenza che dichiara cessata la materia del contendere e concluso il giudizio.   

La questione insorge nei casi in cui sia stata adottata una misura cautelare (sequestro conservativo mobiliare o immobiliare).

Il decreto camerale, dovendo statuire unicamente in ordine alla concessione del beneficio,  nulla può disporre in proposito.

Eppure, essendo intervenuta la sentenza di condanna di primo grado (in vita, sia pure appellata) il sequestro si è convertito in pignoramento e mantiene provvisoriamente la sua efficacia.

Definitosi  il giudizio di appello con l’avvenuto versamento della somma  (quindi, estintosi il debito risarcitorio), viene meno il diritto di credito che sorreggeva la giuridica validità del  titolo esecutivo  (la sentenza di primo grado).

La declaratoria di rimozione del vincolo cautelare - si tratta di mera dichiarazione - a questo punto  è  atto dovuto. 

Probabilmente la soluzione più funzionale è che sia il giudice di appello, con la  sentenza finale,  a dichiarare definitivamente caducato e rimosso il vincolo cautelare a suo tempo apposto sui beni del debitore.

 

 

9.  Riflessione di sintesi.

 

Quali che siano gli sviluppi applicativi che l’istituto riceverà nel prossimo futuro e  nella viva concretezza della pratica giurisprudenziale che contribuisce a formare il diritto vivente,   i profili sostanziali e processuali sin qui enunciati paiono attestare, concordemente,  almeno due indicatori di fondo   : 

·        la  non automaticità della misura che, se positivamente applicata in talune fattispecie,  difficilmente si  può sottrarre a sospetti di illegittimità costituzionale 

·        una sua struttura latamente bilaterale,  tale da configurarla come una figura, sia pure transitoria,  di definizione concordata e abbreviata del giudizio di appello,  specialmente nei casi in cui la sentenza di primo grado sia stata appellata anche dalla parte pubblica rimasta parzialmente soccombente.

     Non è concesso oggi prevedere se e fino a che punto la giurisprudenza delle tre Sezioni centrali di appello intenderà cogliere e condividere tali aspetti che, probabilmente,   sarebbero in grado di affrancare le disposizioni di legge dai limiti più appariscenti che hanno fatto temere, a ragion veduta, un impoverimento dell’azione giudiziale di contrasto a  fenomeni dissipatori di pubbliche risorse.

Resta il fatto che consolidati principi affermatisi nella giurisprudenza indicano che una disposizione di legge non può essere denunciata e dichiarata incostituzionale perché sia possibile darne interpretazioni incostituzionali,  ma deve esserlo solamente quando, per il giudice a quo, sia oggettivamente impossibile darne interpretazioni costituzionalmente conformi.  [15]  

In convinta adesione a tali indirizzi  l’Ufficio di Procura Generale, nella redazione degli atti processuali di propria competenza, sta curando di proporre alle Sezioni giudicanti  letture adeguatrici e orientate e di profilare, solo in subordine, eccezioni di incostituzionalità concernenti alcuni aspetti più appariscenti. 

Siffatta condotta processuale è  sub iudice   ed è doveroso attenderne gli esiti.

Sarà l’evoluzione della giurisprudenza contabile a tracciare i percorsi ulteriori, dando così modo a tutti di constatare se i timori di cui si è fatto cenno nel paragrafo introduttivo,  depurati di qualche superflua genericità declamatoria, possano trovare nelle soluzioni applicative che sapranno dare i giudici smentite o, purtroppo, avranno conferme non rimediabili, almeno finché resterà in vita e sarà efficace la norma attualmente in vigore.     



[1]    Alla data di stesura del presente lavoro (27 marzo) risultano emessi soltanto due decreti camerali.  Con il decreto n. 1/2006/A del 7.2.2006 la Prima Sezione centrale ha negato la concessione della misura nei casi in cui la richiesta non sia stata avanzata   “…in sede di impugnazione e cioè al momento di presentazione dell’atto di appello”.  Con il decreto n. 2/2006/A del 14.3.2006 la Seconda Sezione centrale ha invece concesso la misura premiale, affermando che l’accoglimento della richiesta  “…sottende…una valutazione di merito da parte del giudice adito”,  valutazione che in base ad una ratio desumibile dalla formulazione letterale della disciplina di legge  “…non può prescindere da un esame della complessiva vicenda lesiva, nei suoi profili soggettivo ed oggettivo, pur se condotto con il criterio della sommarietà imposto dalla celerità del rito camerale”.  

[2]   Un dato numerico di larga massima indica che sino ad oggi sono pervenute presso la Procura Generale  circa 80 istanze individuali. Il dato, puramente indicativo, è sfornito di qualsiasi attendibilità statistica, sia perché la scelta procedurale sinora praticata presso le  tre Sezioni centrali  (assegnare un numero di ruolo diverso alle singole istanze quando esse siano presentate separatamente dall’atto di appello; assegnare lo stesso numero quando le istanze  siano contestuali all’atto di appello) altera irrimediabilmente la statistica, impedendo di valutare il reale impatto sul carico indotto dalle nuove norme,  sia perché il dato numerico secco andrebbe, a sua volta, ragguagliato al numero dei giudizi effettivamente pendenti  (molti dei quali tra di loro riuniti).   

[3]      In occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario il Presidente della Corte dei conti ha parlato di   “…considerevole abbuono, in via di straordinaria sanatoria”,  segnalando che le disposizioni di legge finiscono con il “… ridurre ulteriormente l’effetto di deterrenza che rappresenta la primaria ragion d’essere dell’istituto della responsabilità amministrativa” (cfr. Relazione sullo stato dei controlli e della giurisdizione al 1° gennaio 2006).

[4]    E’ appena il caso di rammentare      specie dopo gli autorevoli richiami effettuati dal Presidente della Corte costituzionale in occasione della conferenza stampa annuale per il 2006,  statisticamente riferiti anche alla Corte dei conti  -     che le eccezioni devono essere, di volta in volta,  rilevanti nella specifica fattispecie (quindi sarebbero da evitare doglianze generiche avverso la irragionevolezza o un presunto carattere aberrante della misura premiale)  e non devono essere formulate in maniera tale da esigere pronunce additive impraticabili,  atteso che la Corte costituzionale non ammette mai questioni che postulino una sentenza additiva dal contenuto non costituzionalmente obbligato (“a rime obbligate”),   tale da comportare l’introduzione di elementi estranei all’impianto normativo esistente e di alternativa soluzione attraverso l’esercizio di valutazioni discrezionali esulanti dalle funzioni della Corte medesima  :   cfr. ex plurimis e  da ultimo :  sent. n. 70/2005,  sent. n. 109 del 2005 e ordd.  n. 260 e n. 273 del 2005.

[5]  In ordine alla nozione concernente la “pronuncia” della sentenza, secondo consolidata regola riguardante il cd. jus superveniens il momento di perfezionamento della sentenza coincide con la sua pubblicazione mediante deposito ex art. 133 c.p.c. :    cfr. ex multis Cass. n. 4176 del  2001 e n. 15750 del 2002.

[6]     Sul punto si veda, da ultimo,  Corte cost. ord. n. 427 del 2005 e ord. n. 57 del 2006.

[7]    In tema di rinuncia al gravame si vedano gli articoli 306 e 359 c.p.c. nonché si legga, tra molte, Cass. civ. -  Sez. 2 -  n.  8387 del 1999. 

[8]     Sul punto si vedano i  principi esposti in Corte cost. sentenze n. 417 e n. 449  del 2005;  n. 390  e  n. 36 del 2004.

[9]    Si veda in proposito Corte cost. sent. n. 345 del 2004,  nonché si confrontino i ragionamenti esposti in sent.  n. 196/2004 a proposito di condono edilizio, materia sicuramente ancor più incidente in ambiti di autonomia finanziaria ex art. 119 Cost.  

[10]   Sul punto si consiglia attenta lettura della decisione Corte cost. n. 100/2006 nella quale,  tramite richiamo di principio già affermato nella sent. n. 441/2005, si osserva che la “comunicazione”, al pari della notificazione, costituisce mezzo idoneo ad assicurare le garanzie di conoscenza e di ufficialità necessarie per il rispetto dei principî della difesa in giudizio ex art. 24, secondo comma, Cost. e del contraddittorio, quale presupposto del "giusto processo" ex art. 111, secondo comma, Cost., a condizione che la stessa assicuri una informazione completa e tempestiva dell’atto che ne forma oggetto. Il principio  sembra rafforzare  quanto si diceva in precedenza a proposito dell’irragionevolezza della scelta di attribuire alla istanza un numero di ruolo autonomo e separato, così impedendo la validità della  comunicazione mediante deposito. 

[11]   Con la sentenza  n. 443 del 1990 la Corte costituzionale ha fatto salvo l’istituto del patteggiamento  perché  “…anche se la tutela giudiziaria riconosciuta nel processo penale alla persona danneggiata rimane senza seguito e, quindi, senza sbocco, la possibilità di agire in giudizio per la tutela del diritto alle restituzioni ed al risarcimento del danno, proprio perché suscettibile di estrinsecarsi per un'altra via sùbito percorribile liberamente, non può dirsi pregiudicata in modo irrimediabile” .

[12]    Sul punto si vedano, tra molte, Cass. n. 1370/1992,  n. 5119/1996, n.  8386/2000, n. 11315/2005.

[13]   Il principio secondo cui  il capo decisionale concernente le spese di giudizio è capo accessorio, ma pur sempre autonomo  rispetto alle  statuizioni decisionali rese in prime cure  è  da ritenersi pacifico, in base a consolidati canoni giurisprudenziali (v. per tutte :  Cass. 6004/92; 7373/94; 8662/94; 4896/96).  

[14]  La soluzione è già stata validamente  adottata dalla Seconda Sezione centrale, con il decreto n. 2/2006/A del 14.3.2006.

[15]   Sul punto si possono leggere, tra molte :   Corte cost. sent. 356 del 1996;  sentt. 452 e 197 del 1998; ordd.147 e 55 del 1998;  sent. 69 e ord.  174 del 1999;  sent. 425 del 2000;  sent. 163 del 2000;  ord. 592 del 2000;  ord. 107 del 2003; sent. 301 del 2003; ord. n. 35/2006.