Alberto Nardone

LE REGIONI ITALIANE E L’UNIONE EUROPEA

 

Capitolo I°:  PREMESSA STORICA

 

 

a)    Scelta del  1861 di costituire uno Stato unitario.

 

Nel 1861 l’utilizzo dei plebisciti ai quali, per forza di cose, tra cui l’analfabetismo diffuso, aveva partecipato uno stretto ed elitario numero di persone, come strumento volto a promuovere l’unificazione politica dell’Italia, aveva comportato l’implicita accettazione dell’intera legislazione sabauda preesistente.  Ciò aveva sacrificato il patrimonio di varietà e diversità socio economiche proprio dei vari Stati preunitari e impedito ogni forma di Federazione tra gli stessi, teoria sulla quale si era dibattuto molto nella prima parte del 1800.

Fu scelto il modello centralistico francese in base al quale la struttura dello Stato era organizzata come una rete burocratica e operativa che andava dal centro alla periferia.

Dopo la morte di Cavour, infatti, sostenitore del “self government” all’inglese, a seguito anche del  travolgente successo dell’impresa garibaldina e al repentino e, in un certo senso, inaspettato sgretolarsi del Regno delle  Due Sicilie, si optò per un modello amministrativo accentrato di stampo napoleonico che sembrava garantire il nuovo giovane Stato dai rischi di una difficile amalgama tra le varie entità statuali esistenti e di una loro possibile futura frammentazione.

Vi erano, infatti, vari “cleavages” che mettevano a dura prova il nascente Stato unitario quali il meridionalismo, problema all’inizio sottovalutato, come se secoli di separazione tra il nord e il sud della penisola, con al centro lo Stato della Chiesa, e la conseguente loro storia rimasta distinta, fossero passati invano; il brigantaggio, in parte connesso a tale unione voluta dall’alto e che trovò, comunque, un’accettazione popolare proprio a causa di tale differenziazione e, infine, la “questione romana” con i suoi risvolti internazionali.[1]

D’altra parte sin dalla prima idea di Federazione italiana, poi superata a favore di quella dello Stato unitario, gli Stati che avrebbero dovuto costituirla non erano ben individuati e si parlava già di “Mezzogiorno” come di un’area storico culturale, politica ed economica assai diversificata e non riconducibile solo alle isole.[2]

 

La formula unitaria, decisa in un primo momento sulla base più della situazione di fatto venutasi a creare che in considerazione di un ponderato disegno unitario, trovò poi una sua stabilizzazione, nella seconda metà del 1800 e nei primi venti anni del secolo successivo, motivata dall’urgenza di promuovere uno sviluppo industriale, il quale risultò in ritardo sin dall’inizio, rispetto ai principali paesi europei, nonché dalla necessità di imporre politiche protezionistiche e, non da ultimo, quella di creare le grandi infrastrutture viarie, ponti, strade, ferrovie.

 

Il fascismo poi risolse il problema in chiave autoritaria abolendo le eventuali autonomie e accentrando la direzione della politica sociale e industriale.

 

 

b) Scelta della Costituzione del 1948

 

Nel periodo 1947/1948, i padri costituenti ritennero fondamentale introdurre una netta discontinuità tra la prima Italia ottocentesca, monarchica e poi quella del ventennio fascista e la nuova che si voleva costruire; non era facile trovare una linea comune e si procedette a reciproche concessioni tra le forze politiche interessate, certamente non omogenee tra loro per origini e ideologie, ma straordinariamente unite dal difficile momento della ricostruzione post bellica.

In merito al problema del decentramento, nel timore che l’equilibrio faticosamente cercato per poter scrivere la Carta Costituzionale venisse meno, si scelse una linea di condotta improntata a realismo politico: si accettò facilmente la concessione di forme e condizioni particolari di autonomia e statuti speciali (art.116 Cost.) a regioni che vantavano particolarità linguistiche, la Valle d’Aosta, etniche, l’Alto Adige, poi scisso nelle due Province Autonome di Trento e Bolzano, geografiche e tradizionali, Sicilia e Sardegna, e prevalentemente politiche, Friuli Venezia Giulia, terra di confine tra due culture.

Le autonomie delle restanti 15 regioni furono solo enunciate nel contesto dell’allora Tit. V° senza trovare un’effettiva attuazione in quel momento.[3]

 

D’altra parte gli avvenimenti degli anni ‘50 e ‘60 del 1900, caratterizzati dalla fase più acuta della c.d. ”Guerra Fredda” costrinsero i paesi dell’Europa occidentale  in una logica di blocchi contrapposti che mal si conciliavano con una specifica attenzione verso le autonomie locali.

 

Vi è nella nostra Costituzione una sorta di contrapposizione dialettica in materia di autonomie; la prima parte dell’art. 5 Cost. recita: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”, ipotizzando poi un decentramento di carattere amministrativo nel resto dell’articolo.

 

Va anche ricordato che negli anni dell’immediato dopoguerra, durante o immediatamente dopo la fase costituente, si registrò una tendenza, in certi casi una rincorsa, di varie parti politiche e sociali ad ipotizzare ulteriori identità regionali basate su fattori non coerenti o culturali ma solo emotivi e legati ad interessi locali; se ciò si fosse realizzato, avrebbero trasformato l’Italia in un mosaico territoriale facendo rivivere antiche rivalità campanilistiche così radicate nella nostra storia, processo che, una volta iniziato, non sarebbe stato più controllabile.

 

Parte delle difficoltà ricordate nasce anche dalla natura non endogena delle regioni italiane che ricalcano la ripartizione, peraltro studiata a tavolino più che rilevata dalla realtà esistente del neonato Regno d’Italia, effettuata da un geografo, Piero Maestri, che ideò le regioni come compartimenti  statistico topografici, trascurando le diversità etniche, linguistiche e socio economiche che differenziavano il Paese.[4]

Sotto questo profilo esistono regioni che coprono un antico stato, ducato o regno, della penisola ed altre che risentono della loro creazione artificiosa.

 

 

c) Regioni a Statuto ordinario e speciale

 

 Quanto sopra spinse i Costituenti alle scelte fondamentali presenti nell’originario Titolo V° della Costituzione:

-Art. 114: “La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni”; già mantenere la previsione delle province, retaggio del sistema prefettizio di ispirazione napoleonica, fu e forse è ancora di ostacolo ad una funzione proattiva delle Regioni stesse;

-Art 117: la possibilità concessa alle regioni di emanare, in materie enumerate, norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, con il preciso limite che le norme stesse non fossero in contrasto con l’interesse nazionale e con quello delle altre regioni;

-Art. 123: ”Ogni regione ha uno Statuto il quale, in armonia con la Costituzione e con le leggi della Repubblica stabilisce le norme relative all’organizzazione interna della regione....omissis...Lo Statuto è deliberato dal Consiglio Regionale a maggioranza assoluta dei suoi componenti ed è approvato con legge della Repubblica”.

 

Si rimane, pertanto, nell’ambito di un disegno di Stato fortemente unitario con aperture solo di carattere amministrativo.

 

D’altra parte, sino agli scorsi anni ‘70, in assenza di elezioni (mancando una legge che le consentisse) e della conseguente creazione di Parlamenti regionali, i poteri concessi dalla Costituzione, almeno alle regioni a Statuto ordinario, rimasero cristallizzati in una dichiarazione di principio.[5]

 

 

 

d)  Natura della Costituzione italiana del 1948

 

Il  nostro testo appartiene alle c.d. “Costituzioni lunghe” tipiche della seconda metà del 1900.  Vuol dire che non si limitano a definire  l’organizzazione e la dislocazione dei poteri e ad indicare i diritti civili degli individui così come enunciati, ma si estendono a regolare i diritti sociali accanto a quelli civili disciplinando tanto i diritti che i doveri dei cittadini in un quadro unitario di trasformazione dell’intera società indipendentemente da ogni distinzione e differenza territoriale.

Vuole rappresentare un “progetto forte” di cambiamento della società, nei limiti dettati, però, dal momento storico in cui nasce , tanto è vero che si può ricordare in proposito la frase di Calamandrei:  “…in luogo di una rivoluzione  mancata ( cioè rinunciata ) la Costituzione contiene comunque una rivoluzione promessa”.

L’accenno, nella versione originaria dell’art.119 alla valorizzazione del Mezzogiorno, si pone sempre nell’ambito di un superamento delle disparità esistenti finalizzato al raggiungimento di un progetto unitario.

L’impostazione della Carta è orientata a privilegiare le ragioni dell’eguaglianza su quelle della differenza nel quadro di una volontà di trasformazione della società.  In questo contesto ogni valorizzazione delle possibili differenze  e specificità anche territoriali non può che essere valutata se non come un vero e proprio pericolo alla tenuta del sistema.

Anticipando ora, come contrapposizione immediata, ciò che verrà trattato in seguito nella sede opportuna, la riforma del Tit. V della Costituzione postula, invece, un’articolazione della potestà legislativa all’art.117, 1°c. e della attribuzione della funzione amministrativa all’art. 118, 1°comma; quest’ultimo articolo assume come valore la differenziazione territoriale della Comunità e pone al “centro” il ruolo dei diversi livelli territoriali di decisione e di governo.

Di conseguenza il principio dell’unità della Repubblica, di cui all’art. 5, pur mantenendo il suo valore di limite invalicabile , trova ora un suo collegamento con l’art.117,1°c. novellato nell’ambito del cennato cambiamento di prospettiva.

E’ da evidenziare che il nuovo art. 118 esalta anche i principi di sussidiarietà, di differenziazione e di adeguatezza che devono presiedere all’allocazione delle funzioni amministrative.

La pluralità dei livelli territoriali di governo, la moltiplicazione dei legislatori e dei soggetti titolari delle funzioni amministrative è interpretata come una “nuova centralità” non assegnata più solo allo Stato ma anche al Legislatore regionale e all’amministrazione locale.

La società italiana, che nonostante tutto viene valutata e rimane unitaria, viene però esaltata, senza timori di possibili sue scissioni interne nelle sue differenze territoriali al fine di meglio identificarsi e svilupparsi.[6]    

 

 

 

 


 

 

 

Capitolo II°: FASI DI EVOLUZIONE DI UNA POLITICA REGIONALE COMUNITARIA.

 

 

a) Influenza dei Fondi Strutturali e il principio del Partenariato

Un elemento particolare che ha dato rilevanza alle regioni europee è da attribuire ai c.d. “Fondi Strutturali”

Il primo come ideazione, in quanto previsto sin dal Trattato di Roma, ma istituito concretamente solo nel 1969, è il Fondo Sociale Europeo o FSE, destinato a sostenere le regioni meno sviluppate, con esso viene formulata la nozione di “coesione economica e sociale” che è alla base di tutti i successivi interventi comunitari.

Il secondo in ordine di tempo è il Fondo Europeo di Orientamento e Garanzia o FEAOG; istituito nel 1962 per lo sviluppo agricolo teneva conto delle dimensioni geografiche substatali più che di quelle nazionali. Ha avuto il grande merito di far raggiungere all’Europa una sua autonomia alimentare e di favorire le esportazioni e il mantenimento della popolazione rurale nelle campagne, elemento di tradizione, di civiltà e di occupazione ma il meccanismo del Fondo, perpetuandosi nel tempo con gli stessi strumenti di sostegno dei prezzi, ha ingessato l’agricoltura continentale a costi oltretutto rilevantissimi per il bilancio della Comunità. Va però annotato, a suo favore, che ha consentito un’emersione delle regioni nel contesto economico-sociale europeo.

Il terzo è stato il Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale o FESR, istituito nel 1975 a cui attribuire il gran merito di segnare l’avvio concreto di una politica regionale europea. In contemporanea ad esso nasce il Comitato per la politica regionale.

Il FESR è stato confermato con i due Piani quinquennali 1989-93 e 1994-99

I Fondi strutturali, però, almeno sino ai primi anni ‘80 lasciavano ancora agli Stati un ampia facoltà di determinazione in merito al coinvolgimento regionale nei progetti, il quale poteva essere eventuale o mancare del tutto, in tal caso ovviamente il processo decisionale era di carattere verticale.

 

Nel 1985, con l’allargamento della Comunità a Spagna e Portogallo, furono costituiti con Regolamento 2088/85 i Programmi Integrati Mediterranei o PIM che incentivavano la realizzazione di infrastrutture di investimenti nei settori produttivi e la valorizzazione delle risorse umane.

L’art. 5, 2° paragrafo del suo Regolamento prevede un primo superamento ufficiale del limite nazionale previsto dai precedenti Fondi in quanto stabilisce che i programmi sono elaborati all’opportuno livello geografico dalle autorità regionali e dalle altre autorità designate dallo Stato membro.

Non risulta affermato ancora un diritto delle regioni a manifestare pareri più o meno vincolanti, ma viene imposta una logica di decentramento a livello di programmazione.

Altro aspetto importante e innovativo di detto Regolamento è la previsione di un “Contratto di programma”, siglato contemporaneamente dalla Commissione, dallo Stato membro e dall’autorità locale nel quale vengono puntualizzati tutti gli aspetti esecutivi e attuativi del progetto. La regione assume la veste di parte contraente e quindi, divenendo diretta interlocutrice della Comunità, acquista una responsabilità propria slegata dal potere sostitutivo dello Stato nell’ipotesi di un proprio inadempimento.

Da qui il principio del partenariato nei confronti della CEE e dello Stato che permette alle regioni, attraverso la via contrattuale, di superare molti ostacoli istituzionali ma anche consente loro, come parti in causa, di adire direttamente la Corte di Giustizia del Lussemburgo per chiedere il rispetto degli impegni assunti dagli altri Partners e l’accesso diretto alle risorse comunitarie.

Questa linea di tendenza, molto innovatrice per l’epoca, si estende a tutti gli altri programmi di intervento soprattutto in occasione della riforma dei Fondi Strutturali attuata con il Regolamento del 25/6/1988 n.2052; questo, all’art.4, prevede che l’azione comunitaria, complementare alle corrispondenti azioni nazionali, si sviluppi attraverso una stretta concertazione tra la Commissione, lo Stato membro e le competenti autorità da esso designate non solo a livello nazionale ma anche regionale e locale che agiscono in qualità di “partner” verso un obiettivo comune.

Si può affermare che proprio nel 1988 fu sancito il principio del pieno riconoscimento del ruolo delle autorità regionali che vengono poste accanto a quelle della Comunità e degli Stati nazionali nella fase di progettazione e di controllo dei finanziamenti.

Il principio del partenariato viene ulteriormente rafforzato con l’ultima riforma dei Fondi prevista dal Regolamento 20/7/1993 n.2081; con esso la compartecipazione viene definita come stretta concertazione tra la Commissione, lo Stato e le autonomie territoriali quali “partners” di un obiettivo comune superando la intermediazione statale un tempo prevista.

 

Si assiste progressivamente ad una crescita del ruolo delle regioni, non solo nella fase attuativa ma soprattutto, e questo è particolarmente importante, in quella delle decisioni comunitarie, di conseguenza le regioni vengono a disporre nel caso dei PIM, per esempio, di un collegamento diretto con la Commissione e di un collegamento mediato solo formalmente dallo Stato nel caso di Fondi strutturali di competenza regionale  Va sottolineato, però, che in quegli anni, la Comunità non può dare una definizione univoca di regione e lascia agli Stati di individuare il livello geografico più idoneo all’elaborazione e all’attuazione dei Piani.[7]

 

 

b) Prime forme di collaborazione tra regioni europee.

 

Le regioni europee hanno acquisito negli ultimi trent’anni una crescente consapevolezza del ruolo che possono svolgere nello spazio continentale dentro e fuori i confini della Unione Europea.

Le prime forme di collaborazione tra regioni europee sono derivate da accordi transfrontalieri; questo movimento ha dato vita nel 1971 all’Associazione delle regioni europee di confine. Tali forme associative sono regolate da una convenzione quadro sottoscritta a Madrid il 25/5/1980 e ratificata dall’Italia con la L.19/11/1984 n. 948.

Nascono poi ulteriori iniziative concrete per il sostegno dei programmi sub-nazionali di intervento tra cui l’iniziativa “INTERREG” che prevede, tra l’altro, stanziamenti per finanziare progetti concreti di collaborazione.

La Convenzione di Madrid nel 1998 è stata estesa anche alle regioni interessate ad associarsi non per vicinanza geografica ma per precisi comuni interessi da perseguire. Il primo passo delle regioni per accrescere il proprio peso in Europa è stato quello di stringere rapporti tra loro realizzando una rete multiforme di cooperazioni che può designarsi come “integrazione orizzontale”

Il secondo passo è stato quello di creare organismi di rappresentanza e di difesa dei propri interessi nei confronti dei rispettivi Stati e in seguito dell’Unione Europea.

Un terzo passo, infine, è stato quello definibile di “integrazione verticale”  per ottenere dalla U.E. il riconoscimento di una rappresentanza istituzionale.

Accordi e aggregazioni di regioni europee si sono moltiplicati negli ultimi quindici anni grazie all’evoluzione delle Istituzioni comunitarie  e delle loro politiche volte a promuovere la cooperazione fra le regioni. Gli accordi multilaterali seguono criteri di omogeneità che possono derivare o da un avanzato sviluppo economico delle regioni interessate o, al contrario, dalle loro comuni difficoltà causate da uno sviluppo ritardato o, infine, da semplice vicinanza geografica come nel caso degli accordi transfrontalieri sopra ricordati ormai molto diffusi e di crescente importanza.

Altro importante elemento dal quale scaturiranno nel tempo forme di regionalismo istituzionale è quello derivante dall’applicazione del principio di sussidiarietà già enunciato nel Trattato di Roma.  La sua portata di per sé è contenuta, si limita infatti a precisare che nei settori in cui non vi è un’esclusiva competenza della Comunità, questa comunque interviene se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri.

L’enunciazione del principio, non avendo da solo una portata giuridica ben definita, e quindi non accompagnata da precisi criteri di riparto delle competenze, pur non potendosi definire di per sé un’affermazione dell’autonomia degli enti sub-statali, è importante in quanto questi ultimi, sfruttando ogni possibile appiglio o inerzia statale hanno utilizzato il principio a favore di una maggiore loro visibilità e le Regioni europee hanno cominciato ad aprire i loro uffici a Bruxelles a partire dalla metà degli anni ‘80. Tra quelle italiane, le prime ad avere una Delegazione, peraltro non ufficiale, sono state nel 1994 l’Emilia Romagna e la Toscana, in quanto il Governo italiano ha autorizzato l’apertura di uffici solo con le Leggi 6/2/1996 n. 52, art. 58 e n. 128/98 art. 13, 11° comma; nel 2000 le rappresentanze erano salite a 17 su 20 regioni.

 

 

c) Emersione del regionalismo nell’esperienza comunitaria

 

La CEE, costituita all’origine come una Comunità di Stati e di popoli, rivolge un’attenzione, peraltro formale, verso le realtà regionali a partire dagli anni ‘80 del secolo appena trascorso.

Nel Trattato di Roma le regioni appaiono come meri quadri territoriali di squilibrio economico e non come enti capaci di esprimere un’attività autonoma a livello europeo

Solo l’Atto Unico Europeo o AUE del 1986 dopo il rilancio del processo di integrazione iniziato nel 1982  a seguito dell’entrata della Gran Bretagna e della fine del periodo gollista in Francia, sottrae, anche se come enunciazione di principio, le regioni alla tutela degli Stati considerandole una componente fondamentale della politica europea.

Nel 1988 viene adottata dal Parlamento europeo la “Carta comunitaria della regionalizzazione”. La distinzione in regioni degli Stati membri viene considerata un fattore di democratizzazione e di valorizzazione delle specificità culturali.

 

Nel 1991 alla vigilia della Conferenza di Maastricht, le tre Istituzioni comunitarie (Consiglio, Commissione e Parlamento) emisero una dichiarazione comune denominata  “Carta delle Regioni d’Europa”[8]

Sotto il profilo politico istituzionale la “regione”, a livello europeo, può definirsi come la più grande unità amministrativa all’interno di uno Stato oppure come unità territoriale posta a livello immediatamente inferiore allo Stato dotata di una rappresentanza politica.

L’importanza di tali ripartizioni appare peraltro fondamentale ai fini della costruzione europea, tanto è vero che la stessa Francia, Stato centralizzato di lunga tradizione, ha istituito 22 regioni imposte e regolamentate dall’alto.

La Spagna, dopo una prima legge organica sulle autonomie locali, ha scelto di applicare un modello flessibile che ha generato  17 “Comunitades autonomas”.

Il Belgio, con un processo di disaggregazione dovuto alla composizione della sua popolazione, da Stato unitario ha riconosciuto l’esistenza di 3 Comunità culturali (francese, fiamminga e tedesca) e di tre regioni, vallona e Fiandre per le prime due più il territorio di Bruxelles Capitale.

Il Regno Unito ha applicato una forma accentuata di decentramento che rispecchia una tradizione secolare, di  conseguenza tale processo non si è realizzato attraverso un’azione dall’alto, come è avvenuto in alcuni tentativi continentali, bensì proviene dal riconoscimento di una situazione di fatto, tipica della “Costituzione non scritta” britannica.

Gli ordinamenti regionali dei paesi dell’Europa continentale sono spesso asimmetrici, cioè presentano status e poteri diversi per alcune delle loro ripartizioni territoriali, prime fra tutte le cinque regioni a statuto speciale italiane, la Corsica per la Francia, le Comunitades autonomas e, fra esse, la Catalogna, per la Spagna.

Il Regno Unito è stato diviso in nove regioni amministrative con poteri e caratteri diversificati, ma solo la Scozia e il Galles hanno competenze proprie ed enumerate, mentre per le altre i poteri sono rimasti al governo di Londra.

Nel 1964 è stato costituito il “Welsh Office” e nel 1967 il gallese è stato parificato alla lingua inglese nel Galles con il “Welsh Language Act” del 1993.

La Scozia è sempre stata, o si è considerata tale, uno Stato nello Stato.

Dopo il periodo di governo di Margaret Thatcher, notoriamente centralista, la devoluzione ha ripreso vigore.

Il Parlamento scozzese è stato istituito l’11/9/1997 mentre un referendum ha approvato la costituzione di un’Assemblea gallese le cui prime elezioni si sono tenute nel 1999, in ambedue i casi l’iniziativa del governo laburista di Blair è stata determinante.

 

 

d) Assemblea delle Regioni d’Europa.

 

Nel 1985 le organizzazioni interregionali più importanti hanno dato vita alla Assemblea delle Regioni d’Europa o ARE che nel 2002 comprendeva 305 associate.

Il primo obiettivo dell’ARE è stato, fin dalla sua costituzione, quello di presentarsi come la rappresentanza degli interessi regionali di fronte alla U.E. cercando di favorire un vero e proprio inserimento delle regioni nel quadro istituzionale comunitario.  L’ARE ha svolto un ruolo attivo nella fase di preparazione del Trattato di Maastricht, così decisivo per le sorti delle regioni nella U.E., e in quello di far accogliere, fin dove possibile, il principio di sussidiarietà illustrato in seguito.

L’ARE riuscì ad ottenere che rappresentanti delle regioni fossero ammessi nel Consiglio dei Ministri; a tal fine fu riscritto l’art. 146 del Trattato; finora, però solo i Laender tedeschi e austriaci e le regioni belghe, in qualità di soggetti di Stati federali possono usufruire di tale diritto che si aggiunge a quello di partecipare alla conferenza intergovernativa.

L’ARE si batte perché il Comitato sia formato esclusivamente da rappresentanti eletti dalle regioni o da membri dei governi regionali e non da quelli degli enti locali, per mantenere un’uniformità di indirizzo nelle scelte e nelle petizioni e per non parcellizzare troppo la rappresentanza in seno agli Enti deputati, mantenendo un solo livello sub statale senza scendere nel localismo che rischia di non trovare un limite coerente in basso

Le regioni, quindi, sono viste sempre più come un elemento essenziale per la costruzione europea, da più parti si chiede per esse il potere di stipulare accordi e trattati internazionali e il riconoscimento come soggetti attivi.[9]

 

 

e) Il Comitato delle Regioni

 

E’ stato istituito dall’art.198 del Trattato di Maastricht che ha trasformato la C.E. in Unione Europea e che, riconoscendo il ruolo dei governi substatali, nel quadro istituzionale comunitario, ne ha fatto un organo rappresentativo dell’Unione accanto al Consiglio dei  Ministri e al Parlamento europeo.

Le regioni e gli enti locali europei hanno avuto tramite esso un riconoscimento formale a partecipare all’elaborazione delle Politiche Comunitarie.

Il Comitato è composto da 222 membri e da altrettanti membri supplenti in rappresentanza delle collettività regionali e degli enti locali, nominati su proposta dei rispettivi Stati membri per la durata di 4 anni e viene consultato dalla Commissione, dal Consiglio o dal Parlamento nelle materie di interesse locale.

E’ stato insediato ufficialmente nel 1994 ed è stato riconfermato solennemente dal Trattato di Amsterdam del 1997 e dal Trattato di Nizza del 2000 anche se fino ad ora ha svolto solo funzioni consultive.

Grazie ad esso le Regioni d’Europa hanno conquistato un rango istituzionale e il diritto di essere almeno ascoltate.

I membri sono ora eletti, in base al citato Trattato di Nizza, nell’ambito di una collettività regionale o locale e devono in ogni caso essere responsabili di fronte ad una Assemblea. Essi vengono proposti dalle rispettive autorità statali (per l’Italia dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome) e sono nominati ogni 4 anni dal Consiglio dell’Unione a maggioranza qualificata.

Il Comitato è stato rinnovato nel 2002, designa al suo interno un Presidente, un suo Vice e un Ufficio di presidenza che definisce il programma politico di ciascun mandato, coordina i lavori delle commissioni e delle riunioni plenarie ed è responsabile delle questioni amministrative e finanziarie.

I lavori sono ripartiti su 6 Commissioni per ambito tematico: (coesione territoriale, politica economico-sociale, sviluppo sostenibile, cultura e istruzione, affari istituzionali e governance europea, relazioni esterne).

Le Commissioni sono convocate dai rispettivi presidenti e si riuniscono periodicamente per esaminare, secondo una procedura codificata, i documenti trasmessi dalle Istituzioni comunitarie per formulare su di essi un progetto di parere.  Questo viene discusso successivamente nel corso della sessione plenaria del Comitato, che lo adotta a maggioranza semplice.

Allo scopo di migliorare il processo di consultazione è stata sottoscritta il 20 settembre 2001 una Dichiarazione congiunta del Presidente della Commissione europea e di quello del Comitato delle regioni con la quale la Commissione si impegna a fornire le motivazioni in merito all’accoglimento o al rifiuto dei suggerimenti contenuti nei pareri, il Comitato, a sua volta, deve tener conto, nell’organizzazione dei propri lavori, delle priorità e delle scadenze della Commissione.

I pareri, non vincolanti in ogni caso, vanno richiesti obbligatoriamente per una serie di materie tra le quali si citano: Fondo sociale europeo e Fondo europeo di sviluppo regionale, azioni specifiche di politica strutturale anche al di fuori dell’ambito dei Fondi dedicati e inoltre politica sociale, cultura, sanità, reti transeuropee.

Nelle materie non stabilite specificamente, le Istituzioni comunitarie possono richiedere un parere che assume un carattere facoltativo, così come il Comitato può formulare osservazioni di propria iniziativa.

Non è contemplato l’obbligo a carico delle Istituzioni comunitarie di motivare la non conformità dell’atto al parere acquisito, la prassi che si è instaurata, però, è ormai più rispettosa degli aspetti formali dei rapporti e delle opinioni assunte senza ribaltare, in ogni caso, la facoltà di acquisizione in obbligo.

Il ruolo consultivo è esercitabile sino ad una fase avanzata del processo decisionale nel quale la composizione dello stesso è già avvenuta e le modifiche apportabili rimangono, in tal caso, quelle di dettaglio.

Analizzando alcuni aspetti specifici della natura del Comitato va rilevato innanzitutto che si colloca in una nuova fase tendenziale di superamento dell’originaria impostazione internazionalistica dell’Ordinamento comunitario in direzione, invece, di un approccio diverso, orientato all’instaurazione di relazioni dirette tra Comunità e realtà locali.

Lo “spazio comunitario” perciò dovrebbe configurarsi come “spazio interno” di un ordinamento sui generis.

Si possono rilevare alcuni punti di debolezza del Comitato delle Regioni:

- l’alto numero dei componenti che rischia di trasformarlo in un organismo pletorico, poco funzionale nella realtà operativa;

- la voluta lacunosità del Trattato di Maastricht al riguardo per il timore di interferire sugli ordinamenti interni degli Stati;

- la mancata precisazione se i componenti del Comitato debbano essere espressione degli esecutivi regionali o dei loro parlamenti (posizione sostenuta dall’ARE), punto fondamentale perché nel secondo caso il Comitato rappresenterebbe realmente gli interessi locali.

In materia di nomina dei membri ogni Stato si muove in base alle proprie regole; l’Italia ha distribuito i suoi 24 membri secondo tale ripartizione: 5 alle regioni a statuto speciale, le quali, perciò, sono tutte rappresentate, 7 alle regioni a statuto ordinario, in tal caso l’indicazione dei membri è affidata alla Conferenza dei Presidenti, 5 alle province, tra cui, però, è compresa quella di Bolzano, e 7 ai comuni, in tale ultimo caso la designazione spetta ai loro organismi associativi UPI e ANCI.

L’indicazione dei componenti dovrebbe assicurare un’equilibrata distribuzione della rappresentanza su tutto il territorio nazionale.

L’Italia sceglie i rappresentanti tra quelli di grado e funzioni più elevate a livello di Presidenti di Giunta, di regione o di provincia, nonché di Sindaci. Con tale metodo si assicura una rappresentatività qualificata ma con il risvolto negativo che, dati i numerosi impegni dei soggetti interessati, derivanti dalle loro cariche, la presenza degli stessi non è assidua a tutto danno dell’incisività e della tempestività delle azioni da intraprendere.

I membri supplenti rappresentano invece le regioni e gli enti esclusi dalla nomina dei titolari; con tale metodo si è cercato di migliorare la rappresentatività della partecipazione italiana e anche l’efficacia della sua azione in Europa.

Un altro punto debole del Comitato è dato dalla disomogeneità delle regioni europee presenti che hanno differenti rapporti con lo Stato nazionale di appartenenza  Si hanno così regioni, come quelle francesi, a competenze ristrette, oppure, quelle italiane e spagnole, a competenze forti, regioni-stato come quelle belghe e tedesche inserite in un ordinamento federale, e regioni prive di competenze specifiche come le nomoi greche, le regioni portoghesi e le contee inglesi,

Va rilevata, infine, un’indubbia azione di concorrenza al ruolo del Comitato rappresentata dal fatto che i principali organismi della Comunità hanno creato nel tempo, al loro interno, dei sottogruppi dedicati ai problemi regionali.

Per dotare il Comitato di una sua effettività appare necessario agli studiosi che questo sia potenziato attraverso la garanzia di risorse finanziarie e di personale adeguato, nonché assicurando allo stesso piena autonomia organizzativa e di bilancio.

Il Comitato delle regioni ha proposto per sé il riconoscimento dello status di Istituzione, con conseguente modifica dell’art. 4 del Trattato di Roma, in modo da potersi porre  con autorevolezza accanto agli altri organi comunitari: Parlamento, Consiglio, Commissione, Corte di Giustizia, Corte dei Conti  In tal modo, tra l’altro, il Comitato delle regioni potrebbe elaborare autonomamente un suo Regolamento interno senza richiedere l’approvazione del Consiglio.

 

 

f) Progressivo passaggio dal sistema “government” a quello “governance”

 

Il Libro Bianco del 2001 ha auspicato, per il governo dell’Europa, l’adozione di un sistema definibile “Multilevel governance” o MLG, in cui all’apice vi sono le Istituzioni comunitarie, al secondo posto gli Stati nazionali e, al terzo, gli enti sub-statali e, di conseguenza, le regioni.

Lo scopo ultimo di tale ipotesi di lavoro che si vorrebbe realizzare sarebbe quello di superare il sistema c.d. ”Government” sinora adottato, consistente in un modello di direzione tradizionale, di carattere gerarchico e di natura verticale, per sostituirlo con uno definibile di “Governance”, modello evoluto di condotta politica, caratterizzato da una maggiore cooperazione tra lo Stato e gli altri soggetti istituzionali o privati, che si svolge in una rete di relazioni orizzontali.

Il sistema “Governance” tende a sostituire il c.d. modello intergovernativo o IGM nel quale contano solo gli Stati nazionali per cui i processi decisionali effettivi avvengono a livello dei vari Governi europei costringendo di fatto la Commissione ad un ruolo subordinato.

Con la MLG le competenze si spostano verso l’alto, quello delle Istituzioni europee, e verso il basso, cioè quello delle regioni, le quali potranno assumere una posizione propria sempre maggiore pur mantenendo agli Stati centrali il ruolo di soggetti decisionali più forti, essi infatti dovranno dividere competenze e influenze sulle politiche comunitarie con gli altri due livelli.

 

Tutto ciò premesso, è da rilevare che nonostante la diffusione di tante idee innovative, il potere e il ruolo degli Stati, anche dopo i trattati di Maastricht e di Amsterdam rimane forte e insostituibile, mentre quello delle regioni continua ad essere  relegato a funzioni consultive e di esecuzione delle politiche comunitarie non potendo entrare nelle “strategie” che le generano.

Rimane aperto, ed è un problema determinante nella attuale fase di stallo del ruolo delle regioni, l’assenza di una unità concettuale propria di “Regione” in quanto la stessa assume aspetti diversi, per motivi storici, sociali e amministrativi, nei vari Stati membri. [10]

 

 

g) Sintesi del progressivo riconoscimento delle autonomie territoriali nell’ambito della Comunità e dell’Unione europea

 

1) Prima Conferenza di Strasburgo del 25/27 gennaio 1984 delle regioni della Comunità: Il Parlamento adotta la Risoluzione del 13/4/1984 sul ruolo delle regioni nella costruzione di un’Europa democratica.

2) Il 19/6/84 i 3 Organi principali della Comunità, Consiglio, Commissione e Parlamento adottano una dichiarazione comune con la quale concordano sulla necessità di riconoscere alle regioni la capacità di partecipare al processo decisionale comunitario e sull’importanza di stabilire relazioni continue ed efficienti tra Commissione e autorità locali.

3) Il 24/6/88 la Commissione, con propria decisione n. 487 costituisce il “Consiglio consultivo per gli enti regionali e locali”.

4) Il 17/11/88 il Parlamento europeo approva una risoluzione sulla politica regionale della Comunità e sul ruolo delle regioni con allegata la “Carta comunitaria della regionalizzazione”.

5) Il Consiglio consultivo delle collettività regionali e locali presso la Commissione chiede, nel corso di un’audizione il 25/26 ottobre 1990 che, in base al “principio di sussidiarietà”, il Trattato dell’Unione contenga nel suo preambolo una disposizione del tipo: “le collettività regionali e locali fanno parte del quadro istituzionale della Comunità e partecipano, con forme appropriate, alla costruzione dell’Europa unita.”

6) Le 3 Istituzioni comunitarie l’11/4/90 in una dichiarazione denominata “Carta delle regioni d’Europa” ribadiscono la centralità della posizione delle regioni nell’attività di programmazione, predisposizione e gestione delle attività comunitarie nei servizi sociali e culturali e della promozione dell’economia locale, del governo del territorio e della tutela dell’ambiente; si propone, inoltre, che le regioni possano presentare alle indicate Istituzioni osservazioni e proposte sulle azioni comunitarie.

7) La seconda conferenza  -Parlamento-Regioni della Comunità- tenutasi a Strasburgo nei giorni 27 e 29 novembre 1991 approva 2 Risoluzioni:

i- sulla rappresentanza delle regioni e sulla loro partecipazione all’elaborazione, all’applicazione e alla valutazione delle politiche strutturali e delle politiche comuni;

ii- la Carta delle Regioni della Comunità.[11]

 

Le varie tappe della edificazione europea sono improntate a due importanti principi: quello di “coesione” e quello di “sussidiarietà” già avvertiti dai fondatori dell’europeismo, oggetto di studi della dottrina e in particolare il secondo ispirato al pensiero cristiano, che trovano però in atti precisi una formalizzazione politica.

Il primo è introdotto dall’Atto Unico Europeo e confermato dal Trattato di Maastricht e afferma che per promuovere una evoluzione armoniosa della Comunità questa deve sviluppare la propria azione in direzione di un rafforzamento della sua coesione economica e sociale e, in particolare, deve mirare a ridurre il divario tra le diverse regioni e il ritardo economico sociale di quelle meno favorite, nonché delle zone rurali.  Si ribadisce l’idea di riequilibrio come principio ispiratore e non solo quella di semplice miglioramento delle condizioni materiali e questo come antidoto alla crescita materiale del Mercato unico il cui sviluppo, se lasciato a se stesso, si teme che possa approfondire fatalmente i dislivelli economico-sociali, anziché risolverli, tra le varie entità locali della Comunità.

Il secondo, il principio di sussidiarietà, presente formalmente nel Preambolo del Trattato di Maastricht, si traduce nell’intento di portare avanti un processo di creazione di un’unificazione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa in modo che le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini.

Tale enunciato può sintetizzarsi nella considerazione che una organizzazione deve basarsi sul principio che le strutture inferiori sono legittimate ad agire sul fondamento di una propria competenza tutte le volte che l’intervento di quelle superiori, ad esse gerarchicamente sovraordinate, non si ponga come necessario ed efficiente.[12]

 

 

h) Principio di sussidiarietà in particolare

 

 

Volendo fare un breve excursus storico sulla creazione, nella coscienza occidentale, del concetto di sussidiarietà, quanto mai attuale nel tempo presente, è necessario tornare molto indietro.

L’idea compare già nella “Politica” di Aristotele con riferimento al ruolo che devono svolgere i vari attori sociali e ai loro rapporti con il potere politico. La società, per il grande filosofo, è vista come una sorta di organismo animale, costituito da parti complementari che hanno propri compiti e bisogni specifici.[13]

Ogni componente, individuo, famiglie, villaggio, città è parte di questo organismo complesso, ognuno si presenta come contenitore in grado racchiudere gli organismi di grandezza inferiore disegnando un’organizzazione statica e perfetta.

Con Althusius, o Johann Althaus, giureconsulto tedesco che opera tra il XIV° e il XV° secolo, che sostiene la sovranità popolare e teorizza il contratto sociale, l’organizzazione della società è vista in movimento, come risultato di patti successivi stipulati allo scopo di preservare l’autonomia dei diversi attori sociali attraverso l’intervento di autorità superiori.

Papa Leone XIII°, con l’Enciclica “Rerum Novarum” del 1891, sostiene la necessità dell’intervento dello Stato al fine di combattere gli eccessi prodotti dalle teorie liberali; va notato, però, che il successore Pio XI°, nell’Enciclica “Quadragesimo Anno”, sul punto preferisce porre l’accento sul principio di non ingerenza da parte dello Stato.

Il principio della sussidiarietà, nella politica europea attuale, può essere applicato, ove non esista una competenza esclusiva dell’Unione per materia ma questa coesista con quella degli Stati membri, quindi nei casi di competenza concorrente; in tale ipotesi l’azione svolta presenta i fondamentali caratteri della “necessità” e della “proporzionalità” rispetto agli obiettivi da perseguire.  L’incapacità o l’inerzia protratta nel tempo ad agire in un determinato cruciale settore da parte di un paese membro, dimostra la necessità dell’intervento superiore, necessità che deve comunque essere sempre dimostrata altrimenti l’azione sussidiante si trasformerebbe in un’arbitraria imposizione dall’alto.

La dottrina ha messo in luce il problema della “costituzionalizzazione” del principio di sussidiarietà, in modo che lo stesso esca definitivamente dal carattere di mero principio morale per divenire strumento di rafforzamento della compattezza dell’Unione europea.

Nel rapporto Centro-Periferia, infatti l’intervento sussidiante deve essere inteso in termini di contestuale esproprio della potestà decisionale del soggetto che non svolge i compiti a favore dell’azione comune che, quindi, si pone nella posizione di soggetto sussidiato al quale, con riferimento al singolo caso di inattività, residua solo uno spazio meramente passivo o ricettivo sempre nel più ampio rispetto del bene comune dell’Unione europea.[14]

L’art.158 del Trattato istitutivo della C.E. precisa tra l’altro: “Per promuovere uno sviluppo armonioso dell’insieme della Comunità, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica e sociale. In particolare la Comunità mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie Regioni e il ritardo delle Regioni meno favorite o insulari comprese le zone rurali”.

Il principio di sussidiarietà costituisce il presupposto giustificativo di tutte le politiche comunitarie e deve essere inteso come principio diretto a garantire che, di regola, le decisioni siano assunte a livello più vicino ai soggetti direttamente interessati al contenuto di tali decisioni.

Compartecipazione multilivello alle diverse fasi decisionali e addizionalità dell’azione comunitaria rispetto a quella statale rappresentano i due corollari applicativi di detto principio.

Va ricordato l’art. 12 del Regolamento n. 1260 del 1999 nel quale, tra l’altro, si indica come le operazioni oggetto di un finanziamento da parte di Fondi strutturali devono rispettare le regole di concorrenza, la tutela e il miglioramento dell’ambiente, nonché l’eliminazione delle disuguaglianze e la promozione della parità tra uomini e donne.

L’azione comunitaria di politica regionale, come emerge nel lungo iter normativo della costruzione europea, appare complementare rispetto alle corrispondenti azioni nazionali e si fonda su una stretta concertazione tra Commissione, Stato membro e Autorità regionali, locali o altre Autorità pubbliche, parti economiche e sociali e altri organismi comunque competenti.

La sussidiarietà, da principio astratto, si esprime nella programmazione dei cofinanziamenti, in alcune caratteristiche operative degli stessi tra le quali si annoverano la “Complementarietà” delle misure sovranazionali, cioè sostegno finanziario e gestionale che operi nei limiti delle insufficienze strutturali; “Addizionalità”, cioè, supporto e non sostituzione di risorse aggiuntive a quelle locali; “Partenariato”, quindi interventi di soggetti diversi rispetto alle Istituzioni comunitarie e statali e, infine, “Concentrazione”, cioè, l’ottimizzazione delle azioni programmate in favore dei territori e delle fasce di popolazione più deboli in termini di benessere economico e sociale.[15]       

 

 


 

Capitolo III°: IL “POTERE ESTERO” DELLE REGIONI ITALIANE, SUA EVOLUZIONE STORICA, GIURISPRUDENZIALE E LEGISLATIVA.

 

 

a) Definizione generale

 

L’espressione va intesa come l’insieme delle attività volte a produrre, con soggetti di altri Stati, accordi, intese, dichiarazioni comuni da cui scaturiscono effetti sulla politica legislativa e amministrativa delle regioni stesse.

Il potere estero delle regioni in 30 anni ( dal 1970 circa) si è evoluto in varie fasi:

- iniziale mera tolleranza statale verso alcune attività regionali svolte al di fuori dei confini nazionali;

- espresso riconoscimento in capo alle regioni della titolarità di una certa gradazione di potere estero;

- proceduralizzazione del potere estero regionale;

- il sistema ha registrato un’evoluzione di carattere c.d. pretorio, cioè imposto dall’alto, ma anche in parte attraverso norme nazionali e regionali, individuando “un nocciolo duro” di attribuzioni riservate allo Stato quali la determinazione della politica estera, la responsabilità internazionale e lo ius contrahendi.[16]

 

 

b) Prima della riforma del Titolo V°

 

Il solo potere estero regionale riconosciuto dalla CEE, riguarda la sfera meramente internazionale; la Comunità ha ancora un ruolo limitato specialmente sotto l’aspetto politico, e i rapporti tra gli Stati membri rimangono rigidamente nella sfera del diritto internazionale tout court.

I rapporti tra regioni e l’Europa sono contraddistinti, infatti, in un primo momento, da una indifferenza della seconda verso le entità sub statali.

Le ragioni dell’originaria assenza di uno spazio di azione politico-amministrativo che sia specifico alle regioni sono molteplici.  Fra queste vi sono la strutturazione della Comunità su base statale, la presenza di livelli di governo regionale solo in alcuni Stati membri, la caratterizzazione del diritto comunitario che si stava formando in direzione dell’unitarietà e dell’uniformità delle condizioni dei partners.

Le regioni, come già accennato, non hanno un ruolo proprio, all’inizio, nell’ordinamento comunitario; nel Trattato di Roma del 1957, infatti, non vengono menzionate, anzi, nel corso del primo processo di integrazione, sembrano perdere di ruolo anche nell’ordinamento nazionale, perché tanto la partecipazione alla formazione delle decisioni, come la responsabilità per l’attuazione o l’eventuale violazione del diritto comunitario, si imputano esclusivamente in capo allo Stato membro.  Ciò sia per ottenere immediatezza nelle comunicazioni che per volontà degli Stati di mantenere un’esclusiva nei rapporti con Bruxelles, ma anche ,e soprattutto, perché non si era sviluppata una presenza politica delle entità locali che il loro successivo sviluppo economico-sociale renderà poi determinante.

Ritornando alla situazione italiana, va rilevato che le regioni cominciano, lentamente negli anni ‘70/’80, ad essere autorizzate dai vari governi, senza modalità predefinite, a svolgere attività di vario genere, ma con un unico scopo che è quello di stimolare lo sviluppo locale sotto i vari aspetti economici, sociali e culturali, perché tutto ciò sia di aiuto allo sviluppo complessivo del paese.

L’intermediario unico e unificante delle esigenze nazionali, peraltro già diversificate per le disparità locali di antica origine, rimane lo Stato che vuole trattare con i suoi pari nell’ambito europeo.

Nello spazio lasciato alle regioni rientrano innanzitutto le “attività promozionali”, la partecipazione a fiere e mercati all’estero e la promozione di prodotti tipici e del turismo locale.

Viene facilitata la sottoscrizione di accordi di intenti, senza vincoli cogenti soprattutto per lo Stato, e di collaborazione nei settori economico, sociale e culturale, lo scambio di informazioni con enti stranieri, gemellaggi, formulazione di proposte e la prospettazione di problemi di comune interesse; il fattore unificante, di tale attività complessiva, è quello di realizzarsi in sintonia con gli omologhi enti al di fuori del territorio nazionale.

Il tutto avviene nell’ambito di una procedura standardizzata: comunicazione dettagliata in termini di luogo, tempi e modalità di attuazione degli scopi, nonché della spesa prevista, in relazione a quanto la regione vuole porre in essere, ripartita tra oneri a carico dell’ente pubblico e quelli che devono sostenere gli imprenditori privati interessati al progetto.  Del programma da svolgere viene informato ogni anno il Dipartimento Affari regionali.

La procedura consente al Governo di verificare la conformità delle singole iniziative con gli indirizzi di politica estera dello Stato e di poterle coordinare con quelle predisposte da altre regioni; esigenza, questa del coordinamento, avvertita ancor più oggi quando gli attori, che interagiscono in vario modo con l’Unione Europea, sono diventati molteplici e le iniziative dei singoli enti si possono sovrapporre tra loro o con quelle decise dallo Stato.

Da un certo punto in poi, soprattutto dopo la trasformazione della Comunità in Unione con il Trattato di Maastricht, le prospettive dell’attività estera delle regioni, anche con lo stimolo delle organizzazioni europee, si sviluppano con rapidità.

Per quanto riguarda il nostro paese assume particolare rilevanza l’emanazione, nel periodo 1994/1998, di una serie di norme tra cui la principale è rappresentata dalla “legittimazione” all’apertura di uffici regionali a Bruxelles attraverso una via formalmente non politica.

Tali uffici sono stati istituiti dal DPR 31/3/1994 recante atti di indirizzo e di coordinamento in materia di attività all’estero delle regioni e prov.aut.  Poco dopo la L.6/2/96 n. 52 art. 58, 4°comma ha formalizzato l’istituzione degli Uffici di Collegamento regionali, propri o comuni a più regioni, presso le sedi delle Istituzioni comunitarie.

Gli enti locali, infatti, possono far sentire la loro voce nella formazione del diritto comunitario, attraverso il canale, oltretutto ufficiale, del Comitato delle Regioni e quello ufficioso dei contatti diretti con la Commissione e con i parlamentari europei, potendo gestire un negoziato con tali autorità con l’attenzione e con l’interesse specifico che un governo centrale non potrebbe garantire.

Vi è, diversamente dal passato, in vigenza della CEE che era legata al suo stretto ruolo di Comunità economica, un valore aggiunto a tali iniziative svolte dalle regioni, riconosciuto dalla stessa U.E., che è quello che le attività sono portate avanti da enti che inviano rappresentanti eletti democraticamente e che, soprattutto, sono vicini per funzioni e vocazione, alle esigenze del cittadino.  Per tali motivi possono portare una linfa vitale di informazioni sulle realtà locali, dialogare tra loro e con i loro omologhi colleghi di altri paesi, affinché tutta l’U.E. non rimanga una costruzione artificiosa e giustapposta agli Stati membri e quindi priva di significato morale e sociale prima che politico.

 

 

c) Prassi emergente e primi riconoscimenti legislativi e giurisprudenziali.

 

L’imporsi di un potere estero regionale nasce dalla necessità di compensare, in termini di separazione dei poteri, il pericolo che all’internazionalizzazione di molte materie corrisponda un accentramento di competenze in capo al potere centrale e, in particolare, al Governo, impedendo la funzionalità del sistema dei pesi e contrappesi che è alla base dello sviluppo armonico di ogni sistema democratico.  Negli ordinamenti, come quello italiano che non prevedevano, specie in passato, un ruolo degli enti substatali nel processo decisionale centrale, tale tipo di contrappeso assume un carattere fondamentale.

La Costituzione italiana, almeno nel suo impianto originario, non ha mai attribuito un potere alle regioni in tema di relazioni internazionali.  L’interpretazione prevalente in dottrina dell’art. 5 Cost., peraltro ancora in vigore dopo le recenti modifiche che hanno interessato la seconda parte della Carta fondamentale e il Titolo V° in particolare, ha sempre ribadito il principio che la Repubblica, prima di riconoscere e promuovere le autonomie, è “una e indivisibile”.

Il potere estero delle regioni si è invece affermato progressivamente, procedendo in un andamento che ha manifestato arresti e accelerazioni improvvise, sulla base di una prassi che solo in un secondo momento, quasi a fatto compiuto, trovava una sanzione giurisprudenziale e normativa.  Linea seguita anche dalla Suprema Corte che ha riconosciuto per gradi, nel corso di un congruo lasso di tempo, la natura delle regioni come enti dotati di politicità e visibilità.[17]

Nella già rilevata redazione di tipo dicotomico dell’art.5 Cost.: “La Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali;..omissis..” la dottrina ha visto come caratterizzante il secondo principio (quello delle autonomie), mentre il primo è stato valutato come il limite invalicabile, oltre il quale le autonomie non possono spingersi lecitamente, di conseguenza l’articolo, nel suo insieme, fornisce  i parametri di valutazione della legittimità dell’azione regionale.

Ciò nonostante le regioni continuano a crescere nella consapevolezza, man mano rafforzata, di una propria, anche se indefinita, competenza estera spinte da motivazioni di carattere politico dovute alla volontà di collaborare con l’esterno e affermare una propria visibilità; oppure di carattere tecnico-giuridico, più semplicemente spinte dalla consapevolezza che esistono i presupposti di questa loro attività.

Le regioni hanno posto in essere, perciò, attività di rilievo internazionale mirando ad ottenere, in sede di conflitto di attribuzione, da loro direttamente provocato, ma giustamente sollevato dal Governo ex art. 134 Cost., chiarimenti e di fatto riconoscimenti di tale potere, in una continua rivendicazione di potestà sull’esercizio di singole funzioni non legislative che nel tempo hanno minato il monolitico centralismo iniziale del nostro Ordinamento.[18]

Questo modus operandi è stato facilitato dalla Suprema Corte che ha visto con sempre maggior favore una collaborazione fra Stato e regioni nell’ambito di una strategia di attenta ricezione dell’evoluzione sociale in corso per cui la sua azione può definirsi non già “creativa” del potere estero regionale, bensì più propriamente di carattere “recettivo” ma anche “evolutivo” in merito al suo sviluppo.

Qualunque attività internazionale, specie nel testo costituzionale del 1948, è stata considerata una “materia” vera e propria non soggetta a ripartizioni verticali di competenze per la sua importanza politico strategica e quindi attribuibile in via esclusiva al potere centrale.

Il potere estero regionale era visto come “materia a sé stante”, quasi una contraddizione in termini, perché altrimenti trovava l’ostacolo dei poteri enumerati dello Stato o, meglio, come una “procedura”, ossia una disciplina dell’esercizio verso l’esterno di talune competenze spettanti alle regioni entro il limite del proprio territorio.

La vicinanza delle regioni ai problemi concreti dei cittadini e la necessità di porre in essere rapporti transfrontalieri con enti omologhi posti al confine, appartenenti ad altri Stati, hanno rappresentato un’ulteriore spinta verso un cambiamento strutturale dell’ordinamento italiano.

La giurisprudenza costituzionale, negli anni ‘80, ha cominciato a tracciare una linea di demarcazione tra “politica estera” e “potere estero” intendendo con la prima la direzione programmatica delle attività compiute all’estero dallo Stato, e con il secondo le attività degli enti locali svolte con soggetti di paesi stranieri in posizione paritaria o anche dotati di poteri superiori  alle nostre regioni ma pur sempre nel rispetto di un limite invalicabile dato dal fatto che, in caso di contrasto, dovevano prevalere gli interessi  della politica nazionale[19].
d) Primo riconoscimento giurisprudenziale del potere estero delle regioni: Sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 1987.

 

La sentenza scaturisce da alcuni conflitti di attribuzione sollevati dalla Presidenza del Consiglio contro l’attività di quattro regioni (Puglia, Marche, Lombardia e Lazio), ribadisce in via di principio la posizione dello Stato ma, dati i tempi ormai maturi, si muove in un certo senso, pur con la dovuta cautela, ultra petita.

Riconosce, in sostanza, che il legislatore ordinario può introdurre deroghe alla competenza statale esclusiva purché rientrino in una stretta interpretazione; di conseguenza, le suddette deroghe erano ritenute ammissibili, dall’allora vigente sistema costituzionale, seppur in via eccezionale e derogatoria.

Recependo indicazioni dottrinarie emergenti la Corte accoglie, inoltre, il concetto di “attività di mero rilievo internazionale” come categoria intermedia tra quelle attinenti alle relazioni internazionali e con la Comunità europea proprie dello Stato e le attività promozionali già previste dal DPR 616/1977, di cui al successivo punto e).[20].

Più precisamente la Corte ritiene che le attività promozionali comprendano ogni comportamento strettamente connesso con le materie di competenza regionale, cioè diretto allo sviluppo economico, sociale e culturale del territorio.

Le attività di mero rilievo internazionale, invece, pur non essendo tipizzabili in una categoria ben definita, comprendono attività compiute congiuntamente dalle nostre regioni con altri omologhi organismi esteri aventi ad oggetto studio ed informazione su materie tecniche, previsioni di partecipazione a manifestazioni con enti di altri paesi o programmi di armonizzazione delle rispettive condotte.

Non si tratta di stipulare accordi di valenza internazionale ma di scambi di notizie utili e di progetti che indubbiamente avvicinano le regioni d’Europa, consentono una reciproca conoscenza e comprensione tra gli abitanti anche per gli incontri tra giovani o tra amministratori che ne conseguono.

La tipologia appena indicata è certamente di carattere residuale rispetto alle attività promozionali e comporta, di conseguenza, per la Corte, un diverso regime di comunicazione al Governo delle relative attività: per quelle promozionali rimane l’obbligo della necessaria intesa, per le altre è sufficiente un previo assenso governativo al fine di scongiurare il pericolo della lesione di interessi nazionali.

In breve sintesi, per la Corte, ad un primo livello si pongono i rapporti internazionali in senso stretto per i quali continua a valere la riserva statale assoluta, seguono poi le attività promozionali all’estero di cui all’art.4, 2°comma del DPR 616/1977, in seguito descritto, che rimangono soggette alla previa intesa con il Governo; tra le attività promozionali rientrano per la Corte anche quelle di collaborazione transfrontaliera a seguito della ratifica, da parte dell’Italia, della Convenzione quadro europea di Madrid, con L.19/11/1984 n.948.  Residuano, infine, le cennate attività di mero rilievo internazionale, non tipizzabili come già precisato, rimesse all’iniziativa delle regioni che si esplicano in settori accessori rispetto alle competenze degli enti locali.

Rimane, per quanto riguarda il regime procedurale interessante le attività regionali all’estero, un doppio sistema di controlli: il previo assenso, che è una valutazione ex ante della compatibilità delle attività rispetto agli indirizzi di politica estera dello Stato, e il tradizionale sistema dei controlli sulle attività delle regioni che avviene ex post.

L’importanza, anche storica, della sentenza in questione, dato che l’attuale riforma del Titolo V° ha riorganizzato tutta la materia, è quella di segnare il definitivo superamento di una concezione estensiva ed omnicomprensiva dei rapporti internazionali riservati di diritto solo allo Stato.  La Corte, in pratica, ha ribaltato il limite di competenza internazionale tout court dello Stato in un limite, sulla materia, alle competenze delle regioni

L’attenzione da quel momento si sposta dall’esistenza o meno di un potere estero regionale a quello sui limiti di esercizio di tale potere.

La Corte si è astenuta dall’entrare nel merito dei contenuti concreti di tali attività, come era logico del resto, ma, insistendo sull’importanza di promuovere procedure collaborative Stato-enti locali, ha progressivamente spostato il regionalismo italiano da un’impostazione duale, di contrapposizione, ad un modello partecipativo, pur nel rispetto della necessaria articolazione gerarchica dei soggetti interessati.

Una critica fu mossa a suo tempo sulla reale consistenza della distinzione tra attività promozionali, ritenute incidenti sulla responsabilità internazionale, e le attività di mero rilievo internazionale, non ritenute idonee a provocare i medesimi effetti, quasi a voler far risaltare, da una parte della dottrina, la citata distinzione come meramente artificiale.[21]

Si potrebbe evidenziare, sinteticamente, che il potere estero deve essere considerato non una materia e quindi il suo esercizio un limite per sé e per gli altri soggetti, ma solo una proiezione esterna della regione stessa motivata, da una volontà di visibilità legata a fattori commerciali o ad un’attività anche non strettamente contenuta nella sfera di competenza locale, ma soggetta al limite della politica estera.

La natura derivata del potere estero regionale non implica che si sovrapponga o cancelli quello dello Stato ma, al massimo, che il potere di quest’ultimo risulti ridotto nell’ambito della flessibilità consentita dall’art. 5 della Costituzione.

Lo Stato è, e rimane, l’unico titolare della soggettività giuridica internazionale e, pertanto, sono ammissibili, per enti diversi da esso, solo quelle attività estranee alla politica estera che sarebbero da considerare, più che di mero rilievo internazionale, in una più realistica definizione, come “internazionalmente irrilevanti”.

In una prima conclusione di tale argomento si può dire che la sentenza n. 179/1987 riconosce un potere estero in capo alle regioni, ma ne subordina contenuti e procedure alla dinamica tra Stato ed enti locali ed ai rapporti di forza contrattuale che si vengono ad instaurare e alla capacità argomentativa delle singole regioni.

La Corte, più che porre obblighi in capo allo Stato, vuole esortare le regioni ad attivarsi per una loro partecipazione al potere estero che pertanto sarebbe una fattispecie a competenza ripartita.

Rimane aperta dalla sentenza la questione intorno alla qualificazione giuridica del potere estero regionale da vedere o come deroga alla regola della riserva statale o come attribuzione regionale propria.

Il problema allora, nonostante gli sforzi della dottrina e un’ulteriore giurisprudenza, sviluppatasi al riguardo, non poté essere risolto. Troverà in seguito, in altre condizioni, una sua appostazione sistematica.

Facendo un balzo in avanti, giustificato dal fatto di rimanere sul terreno dello sviluppo della giurisprudenza della Suprema Corte, salvo ritornare a rispettare un ordine cronologico con l’enunciazione della legislazione prodotta al riguardo, corre l’obbligo di menzionare la sentenza 10/2/1994 n.26.[22]

Con questa pronuncia la Corte interviene in campo finanziario, stabilendo l’illegittimità costituzionale di una riduzione, unilateralmente imposta dallo Stato, delle attività promozionali delle regioni nel quadro di un programma di contenimento della spesa.

Se infatti fosse vero che lo Stato è titolare esclusivo di tutto il potere estero e che l’esercizio di attività internazionali da parte delle regioni si traduce in una semplice esecuzione di una competenza statale, la conseguenza sarebbe che lo Stato può determinare sia l’an che il quantum dell’attività estera delle regioni.

La sentenza 26/94 afferma esattamente il contrario, ma rimanendo nel solco tracciato dalla citata sentenza n.179/1987.

A partire appunto dal 1987, principio ribadito più volte in molte sedi, il problema del potere estero regionale si è spostato dalla questione della sua ammissibilità a quello dei limiti del suo esercizio rendendo indubbia la titolarità in capo alle regioni di un proprio potere estero diverso da quello dello Stato.

La sentenza n.26/1994 rientra nella scia di altre importanti pronunce emesse nel 1992-1993, dalle quali emergono alcuni punti chiave:

- Il dovere delle regioni di informare il governo delle proprie attività svolte all’estero, Sent. n.472/1992, nell’ambito del principio di leale collaborazione.[23]

- L’obbligo da parte del governo di motivare l’eventuale diniego di intesa o di assenso all’operato della regione, Sent. n.204/1993, determinante nello stabilire un nuovo assetto tra i poteri dell’ordinamento nazionale; detta pronuncia della Corte porta infine ad un terzo balzo in avanti quando specifica i motivi che possono condurre a tale diniego che devono limitarsi alla politica estera o al contenimento delle spese.[24]

 

 

e) DPR 24 luglio 1977 n.616

 

E’ un testo fondamentale per il discorso in argomento. Si afferma, all’art. 4, 1°comma, che i rapporti con l’estero sono di regola riservati allo Stato nella sua qualità di titolare della soggettività internazionale ma al 2° comma prevede che le regioni, nelle materie delegate, possano validamente porre in essere alcune attività estere.

E’ la prima volta che in un testo normativo è introdotta la distinzione tra rapporti giuridici internazionali in senso proprio in capo allo Stato e altre attività rivolte all’estero ma destinate a soddisfare esigenze di carattere locale che implicano di necessità un’attività di relazione tra regioni e soggetti ed organismi esteri, senza tuttavia mettere in discussione la centralità dello Stato.

Dall’affermazione di questa centralità, così come enunciata, si può ricavare a contrariis la possibilità di ritenere ammissibili le attività svolte all’estero dalle regioni, non configurabili comunque come rapporti internazionali, purché in presenza di un procedimento che garantisca allo Stato l’informazione e, di conseguenza, il controllo sulle attività regionali.

Una circolare ai commissari del governo del 1°/4/1978 riconosceva tre tipologie di attività: i rapporti internazionali e con la Comunità europea; le attività promozionali di cui al DPR 616/1977 e, infine, una categoria residuale di materie rientranti nella competenza regionale definite “attività di mero rilievo internazionale”

Negli anni ‘80, almeno in dottrina, il principio della “previa intesa” governativa si andava stemperando in una prassi di semplice correttezza, anche se manteneva ancora i caratteri formali dell’obbligo, di tenere informato lo Stato per consentire allo stesso un coordinamento della politica internazionale, ma non più come elemento assolutamente validante l’azione dell’ente locale.[25]

Il passaggio successivo sulla strada di una lenta ma progressiva deregolamentazione del sistema è dato dal DPCM 11 marzo 1980 con la previsione di un obbligo delle regioni di comunicare solo annualmente in unica soluzione, anche se in modo dettagliato, alla Presidenza del Consiglio, tutte le attività che si volevano intraprendere, nei dodici mesi successivi, con le loro caratteristiche.

Un ulteriore passo nella direzione di dare maggiore libertà di manovra alle regioni si ha, come già accennato, con la Convenzione quadro europea sulla cooperazione transfrontaliera adottata a Madrid il 21/5/1980 e recepita dall’Italia con Legge 19/11/1984 n.948.

Con essa veniva stabilita per via normativa la capacità delle regioni di stipulare accordi e intese con enti territoriali stranieri per lo svolgimento di compiti e servizi di comune interesse purché a fronte di trattati bilaterali tra gli Stati interessati.

Nel 1987 il sistema trova una prima fondamentale organizzazione normativa:

- con circolare del 16/1/87 n. 2081 il Governo, premettendo la necessità del coordinamento delle attività svolte all’estero dalle regioni, riconosce indirettamente la capacità regionale di operare nel settore del commercio estero, seppure attraverso la partecipazione all’azione statale;[26]

- la Conferenza permanente Stato-regioni-province autonome, il 30/1/87, approva una bozza d’intesa in materia di attività all’estero, sottolineando la necessità di riconoscere alle regioni un ruolo distinto da quello statale sul piano delle relazioni estere, configurando la possibilità per gli enti locali di adottare iniziative internazionali con il dovere di informarne il governo;

- la legge sulla cooperazione con i paesi in via di sviluppo del 26 febbraio 1987 n.49 art.8 contiene un ulteriore deroga rispetto allo schema di attività promozionali stabilito dal DPR 616/1977, prevede infatti la possibilità per le regioni di partecipare, sia pure con poteri meramente consultivi, all’elaborazione di studi e progetti e comunque di attività non strettamente comprese nelle competenze regionali.

 

 

f) Dal DPR n.616/77 alla L. n.86/1989 “ La Pergola” - Evoluzione legislativa

 

1) Ruolo delle Regioni.

Una prima sistemazione, di carattere sistematico, del ruolo delle regioni italiane nella fase di formazione del diritto comunitario, si realizza attraverso una serie di norme:  il DPR 616/77 (paragrafo e), la L. n. 183/87, la L. n. 400/88 e la L. n. 86/89 ricordata comunemente con il nome del suo presentatore, On. La Pergola.

L’indirizzo prevalente nel periodo considerato, è quello di dare un’importanza maggiore alla c.d. “fase discendente”, cioè di attuazione del diritto comunitario, che a quella “ascendente” di collaborazione alla sua creazione da parte delle regioni, ciò in conseguenza dell’importanza e del ruolo unificante svolto dallo Stato in materia e per la preferenza dimostrata dagli organi comunitari di dialogare con le autorità nazionali.

Il riconoscimento della competenza delle regioni a svolgere all’estero attività promozionali relative a materie di loro pertinenza (DPR 616/77, art.4, 2° comma) è poi confermato dal DPCM 11/3/80, che precisa che i contatti con gli organismi della CEE, per le materie interessanti le regioni, sono svolti dalle stesse per il tramite dei Ministeri di volta in volta competenti con il coordinamento di quello degli Esteri. Si ha quindi una prima apertura verso un ruolo (anche se solo passivo) delle regioni.

Il decreto appena menzionato, all’art. 11, contiene il principio in base al quale, nella determinazione degli obiettivi della programmazione economica nazionale, è richiesto il concorso delle regioni, in tal modo è messa in rilievo l’esigenza di coordinamento dei programmi di origine locale con quelli predisposti dallo Stato.

Si ha in sostanza una istituzionalizzazione dei rapporti Stato-regioni, con specifico riguardo alla formazione del diritto comunitario che trova base giuridica nel DPCM 12/10/83 che costituisce la “Conferenza Stato-Regioni”, la cui esistenza viene ulteriormente confermata e attuata in una sede legislativa più consona, con l’art. 12 della l. n.400/88, il cui oggetto principale, peraltro, era l’ordinamento della Presidenza del Consiglio.

La cennata legge disciplina sia la struttura che le funzioni della Conferenza, che deve essere convocata almeno ogni 6 mesi e il ruolo attribuito per l’occasione al Presidente del Consiglio, che ha compiti di informazione, consultazione e soprattutto di raccordo, in relazione agli indirizzi di politica generale suscettibili di incidere nelle materie di competenza regionale, con espressa esclusione di quelli più generali attinenti la politica estera, la difesa, la sicurezza nazionale e la giustizia.

L’efficacia della Conferenza non si dimostra in pratica incisiva, ma tale caratteristica appartiene un po’ a tutti gli organismi dotati di mere competenze consultive, dotati pertanto di “facoltà” e non di un preciso obbligo di esprimere pareri peraltro non sempre vincolanti.

Dopo l’istituzione della Conferenza permanente Stato-Regioni, ma prima della sua regolamentazione definitiva, fu emanata la Legge “Fabbri” n.183/87 che disciplina l’attuazione interna della direttive comunitarie.

Con essa viene attribuito alle regioni a statuto speciale e alle province autonome il potere di dare immediata esecuzione alle raccomandazioni e alle direttive europee, sulle materie di competenza esclusiva, salvo l’adeguamento alle leggi dello Stato se esistenti, mentre consente a tutte le regioni, senza distinzione, l’attuazione in via amministrativa dei citati provvedimenti comunitari, su materie non riservate alla legge, mediante regolamenti o altri atti amministrativi.

 

2) La Legge La Pergola

Con la L. 9/3/1989 n. 86, si esce finalmente dalla logica dell’emergenza, da un periodo per tanti versi fecondo per la costruzione del ruolo delle regioni ma certamente convulso; viene perciò regolamentata in modo stabile la materia degli obblighi che derivano all’Ordinamento italiano per la sua appartenenza alla CEE.

Si registrano dei cambiamenti significativi per gli enti locali, tra i quali si evidenzia l’estensione, anche nell’ambito della legislazione concorrente, della facoltà riconosciuta alle regioni a statuto speciale (e alle province autonome) dall’art. 13 della legge Fabbri che comporta di poter legiferare in via direttamente attuativa sulla base della specifica disciplina comunitaria, anche prima dell’emanazione dell’atto statale di riferimento; le regioni ordinarie potranno procedere sulla stessa linea ma solo dopo l’entrata in vigore della successiva legge comunitaria, pur in assenza di una specifica regolamentazione nazionale al riguardo.

La materia in argomento, già regolata dall’art. 9 della legge La Pergola, è stata poi modificata a sua volta dalla legge n. 128/98, art.13 che ha abolito la distinzione tra tipologie di regioni prevedendo che tutte, anche quelle ordinarie, possano dare immediata attuazione alle direttive, sia in competenza esclusiva che concorrente, con il solo onere di indicare, nelle rispettive leggi, il numero identificativo del provvedimento comunitario attuato.

Si prevede inoltre che al Disegno di Legge Comunitaria sia allegato l’elenco delle Direttive applicate o da applicare in via amministrativa, ciò in base all’art. 4, n.8 della ricordata legge n.86/89.

Lo Stato, a sua volta, deve adeguarsi alle decisioni del Consiglio e della Commissione europee che possono incidere sulla competenza delle regioni, distinguendo quegli interventi definibili di ordinaria amministrazione, che determinano una specie di automatismo di accoglimento, da quelli che, per la loro particolare importanza, comportano rilevanti oneri di esecuzione. Per questi ultimi ogni provvedimento esecutivo rimane sospeso in attesa che il Consiglio dei Ministri decida o meno di impugnare la decisione davanti alla Corte di Giustizia.

La legge La Pergola ha inoltre previsto il caso dell’inerzia regionale sia legislativa che amministrativa: la prima è risolta dall’intervento diretto dello Stato, la seconda prende sempre avvio dallo Stato ma la decisione passa per l’iniziativa del Ministro per il coordinamento delle politiche comunitarie d’intesa con quello degli affari regionali e degli altri Dicasteri eventualmente competenti.

La “filosofia” dell’intervento sostitutivo, che informa i rapporti centro-periferia, è improntata non ad un predominio statale ma ad un potere-dovere di quest’ultimo e il suo esercizio deve essere assistito da garanzie sostanziali e procedurali rispondenti ai valori fondanti la Costituzione nel suo insieme.

La grande novità della legge n.86/89 è data però dall’introduzione di un nuovo strumento normativo denominato “Legge Comunitaria”, questa deve essere sottoposta, sotto forma di disegno di legge, al Consiglio dei Ministri, con il fine di dare disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla CEE.

Tale legge si presenta come fonte sia di produzione che sulla produzione di legislazione, infatti può recare ai sensi del suo art.3, 1° comma:

1) disposizioni che modificano o abrogano direttamente leggi vigenti che siano in contrasto con obblighi comunitari, lett.a);

2) disposizioni che attuano direttamente gli atti normativi oppure quelli di indirizzo comunitari, lett.b);

3) norme che conferiscono una delega al Governo a provvedere, all’occorrenza, in via legislativa, lett.b);

4) norme che autorizzano ad attuare in via regolamentare le direttive e le raccomandazioni in aderenza al successivo art. 4), lett.c);

5) norme che consentono, per materie particolari, il recepimento di direttive mediante atti amministrativi, art. 4, 7° comma.

 

La Legge Comunitaria è uno strumento permanente di attuazione della normativa europea che successivamente si è evoluta nella sua portata con l’introduzione della Sessione comunitaria della Conferenza Stato-Regioni (L.281/95, art.5), con il riconoscimento della facoltà alle regioni di istituire presso la Comunità propri Uffici di collegamento (L.52/96 art.58) e, infine, con la possibilità di integrare la rappresentanza permanente dell’Italia presso la U.E. con quattro funzionari ed un esperto regionali, designati dalla citata Conferenza (L.128/98 art.13).

Le Leggi Comunitarie del 2000 e 2001 ambedue, all’art.6, hanno apportato importanti modifiche alla Legge La Pergola n.86/89, peraltro oggetto di revisione da parte di un DDL rubricato al n.2386 (Buttiglione) che si commenta in seguito.

L’art. 3 della Legge Comunitaria 2001, delega il Governo ad emanare, entro due anni dalla sua entrata in vigore, disposizioni recanti sanzioni penali o amministrative per le violazioni delle Direttive comunitarie attuate in via regolamentare o amministrativa.

L’art. 5 della Legge Comunitaria 2002 delega il Governo ad emanare, entro diciotto mesi dalla sua entrata in vigore, Testi Unici sul “recepimento delle disposizioni comunitarie da coordinare con le norme legislative vigenti nelle stesse materie apportando le sole integrazioni e modificazioni necessarie a garantire la semplificazione e la coerenza logica, sistematica e lessicale della normativa.”

Detti T.U. devono riguardare materie o settori omogenei e le disposizioni contenute in essi “non possono essere abrogate o sospese o comunque modificate se non in modo esplicito.”

 

 

g) Il potere estero delle regioni allo stato attuale

 

Il potere estero regionale, si basa, nella sua definizione e nella sua applicazione pratica, su alcuni punti chiave.

E’ caratterizzato dalla titolarità delle pertinenti attività in capo alle regioni ma anche dal potere di blocco da parte dello Stato nell’ambito della sua più ampia competenza esclusiva, necessariamente unitaria, relativa al coordinamento di tutta la politica internazionale.

Va tenuto presente che la non idoneità delle attività di mero rilievo internazionale degli enti locali ad incidere sulla responsabilità estera dello Stato, come si evince dalla sentenza della Corte Cost. n.179/1987, ha solo carattere presuntivo, quindi opera salvo contraria opinione del Governo che potrebbe condividere il risultato di tale azione.

Va precisato, inoltre, che la semplificazione procedurale introdotta dal DPR 31/3/1994, che comporta l’eliminazione dell’obbligo di comunicazione al Governo per alcune attività di mero rilievo internazionale non determina il divieto per lo Stato che, venuto comunque a conoscenza di tale attività, può sempre bloccarla e sollevare conflitto dinnanzi alla Suprema Corte.

Il potere estero è soggetto all’obbligo c.d. cooperativo consistente nel dovere delle regioni di portare a conoscenza dello Stato ogni loro iniziativa rivolta all’estero, e nel corrispondente dovere in capo allo Stato di motivare l’esercizio del suo potere di blocco.

Questo è un passaggio importante perché, in assenza di precise indicazioni normative, la giurisprudenza costituzionale non può che annullare, sistematicamente, si potrebbe anche dire automaticamente, le attività regionali non comunicate in via preventiva, a prescindere dalla loro portata o dagli effetti sulla politica centrale.

La soluzione collaborativa rivolta al confronto dialettico sulla materia in argomento, che si è ormai stabilmente affermata, appare quindi come un risvolto positivo e procedurale del principio di leale collaborazione che deve ispirare l’azione di tutte le componenti dell’ordinamento.

Va altresì evidenziato che, mentre il potere estero statale è facilmente identificabile, data la sua unitarietà, che è condizione di esistenza ma anche caratteristica di procedura, quello regionale è legato alla libera iniziativa degli enti locali, alla loro intraprendenza, tanto è vero che lo stesso varia da regione a regione in funzione della volontà di ciascuna di perseguirlo e della relativa forza contrattuale nei confronti dello Stato.

La via italiana al potere estero si svolge in ordine sparso da parte delle singole regioni attraverso l’obbligo, a cui sono tenute per affermarlo, di attivarsi tramite giurisdizione per la rivendicazione di singole parti di potere dello Stato e, quindi, è spesso una faticosa, disomogenea, costruzione a strati, non solo temporali, come già accennato in precedenza, ma ad accumulazione di contenuti.

Nella sostanza si rivela come una proiezione extranazionale, là dove è consentita dal potere centrale, di competenze già esercitabili dalle regioni in proprio, nel rispettivo territorio e, di conseguenza, è sempre potenzialmente suscettibile di espansione.

Visto che la Suprema Corte, nelle sue sentenze di costruzione di un potere estero degli enti locali, dato come esistente anche se non misurabile, si è ispirata ad una forma di “Stato regionale” che derivava, ovviamente, dalla stessa Costituzione, in particolare dall’art.5, si può ritenere che tale potere regionale, per quanto comprimibile da parte dello Stato, non possa essere eliminato del tutto, per via interpretativa lo stesso risulta perciò garantito alle regioni almeno nell’an anche se non sul quantum.

Il potere regionale in materia trova dei limiti obiettivi nell’Ordinamento italiano, innanzitutto perché non è una “materia” ma una “procedura”, soggetta quindi ad una continua dialettica con gli altri poteri definiti dello Stato e poi ( repetita iuvant ), data la necessità di una continua rivendicazione per la sua attuazione, incontra il limite sostanziale dato dalla competenza esclusiva dello Stato nella determinazione di indirizzi di politica estera e nella conclusione dei trattati internazionali, che si traduce, nel diritto dello Stato di conoscere le attività estere regionali[27].

In sintesi il potere estero regionale si ispira ad alcuni principi:

* eventualità, cioè la necessità da parte delle regioni di attivarsi d’iniziativa per esercitare il proprio potere;

* asimmetria, cioè i rapporti Stato-Regioni, in materia, sono suscettibili di uno sviluppo differenziato anche per la diversa quantità di competenze esercitabili dalle varie regioni;

* procedura, l’azione regionale e la connessa garanzia sono assicurate non da una lista di attività consentite in modo dettagliato nella sostanza ma dall’esercizio concreto, ove possibile, di tale potere;

* cooperazione, le procedure sono di carattere collaborativo come si evince dall’art. 5 della Costituzione, che precisa “La Repubblica (omissis), adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze delle autonomia e del decentramento”, nell’esercizio del potere estero infatti, devono convivere gli interessi dello Stato e quelli delle regioni. Le modalità di espansione e di contenimento hanno invece carattere contenzioso.

*contenzioso, è il carattere delle modalità di espansione e di contenimento dell’azione regionale in tale settore.

Il problema è che alle regioni manca ancora la possibilità di concertare le rispettive iniziative e di agire insieme per rivendicare le attribuzioni da inserire in una causa comune.

D’altra parte è da notare che l’intero fenomeno del potere estero anche statale ha uno scarsissimo collegamento assembleare. Il Parlamento è chiamato a deliberare l’autorizzazione alla ratifica dei Trattati, atto necessario ma in pratica dovuto in quanto riguarda decisioni già assunte dall’Esecutivo le quali, se fossero rifiutate, determinerebbero una seria crisi istituzionale. Allo stesso modo le attività di potere estero delle regioni sono portate avanti dagli organi esecutivi e non dai rispettivi Parlamenti.

Sarebbe necessario istituire un apposito meccanismo di concertazione tra Stato e regioni anche sul potere estero così come sta avvenendo in generale con la Conferenza Stato-regioni o costituire, all’interno di questa, una sezione specializzata.

Ribadendo per l’ultima volta, per meglio esplicitarla, una considerazione già indicata in precedenza, l’edificazione del potere estero regionale è avvenuta e continua a realizzarsi al presente, in via fattuale, con un processo di giuridicizzazione da parte della Corte costituzionale il quale, ovviamente, è sempre successivo al dato fattuale.

Si è creata pertanto una situazione di costante rincorsa da parte delle regioni ad operare all’estero che ha imposto i propri ritmi all’interpretazione evolutiva della Costituzione la quale, pertanto, si è realizzata in modo spesso sconnesso e quindi non si è inserita in un quadro organico anche tenendo conto della riforma del Titolo V°.

E’ però indubbio che questo lavoro, protratto negli anni, ha evidenziato dei punti fermi assimilabili alla dignità di un intervento legislativo quando ha ottenuto l’affermarsi di elementi costanti quali il dato collaborativo necessario, l’essenzialità del momento procedurale, la derogabilità per territorio e per materia e last but not at least, il riconoscimento ormai unanime del potere estero regionale.

Tale potere, inoltre, sfugge alla possibilità di una dettagliata regolamentazione normativa in quanto sinora si è fondato sulla dialettica Stato-regioni prevista dall’art.5 della Costituzione ma non su un riparto normatizzato delle competenze tra potere centrale e quello periferico.

Probabilmente lo strumento per offrire una costante, aggiornata partecipazione cooperativa, produttrice di una normazione chiaramente applicabile, potrà essere offerto dalla costituzione di una seconda Camera parlamentare su base regionale quale è, anche se inserita in un sistema federale e quindi diverso da quello in essere in Italia, il Bundesrat tedesco.


Capitolo  IV°  IL LIBRO BIANCO SULLA GOVERNANCE

 

 

a) Esame del testo ufficiale pubblicato

 

La preoccupazione che è alla base della pubblicazione del Libro Bianco, pubblicato dalla Commissione Europea nell’estate del 2001, è quella che i cittadini europei, dinnanzi ad un sistema complesso del quale non riescono, nella stragrande maggioranza, a capire bene il funzionamento, perdano la fiducia che le loro esigenze vengano ascoltate e trovino, perciò, in tempi e modi opportuni, accoglimento.

La stessa espressione “Governance” sta ad evidenziare il superamento dello Stato Nazione e il coinvolgimento di molteplici livelli di governo nell’elaborazione e nell’attuazione della politica comunitaria sempre più complessa alla luce dell’ampliamento a 25 Membri dell’Europa Unita.

Il Libro Bianco vuole in sostanza trattare il modo in cui l’Unione europea deve esercitare i poteri che le hanno conferito i suoi cittadini.

 

 

 

1) Cambiamenti proposti: maggiore partecipazione ed apertura.

L’Unione europea deve rinnovare il metodo comunitario adottando un’impostazione meno verticistica ed integrando in modo più efficace i mezzi di azione delle sue politiche con strumenti di tipo non legislativo.

Per ottenere tale risultato occorre una più stretta interazione con le autorità regionali e locali, nonché con la società civile in genere.

La Commissione prende perciò l’impegno di instaurare un dialogo con dette autorità tramite le associazioni nazionali ed europee sin dalla prima fase di elaborazione delle politiche che è determinante per la formulazione dell’indirizzo programmatico che verrà preso nella decisione finale.

Per ottenere tale risultato si propongono vari passaggi:

* introdurre una maggiore flessibilità nei processi esecutivi onde tener conto delle specificità regionali e locali;

* definire e rendere pubblici i criteri di qualità o “standards minimi” da rispettare nelle consultazioni sulle politiche della U.E;

* istituire rapporti di partenariato in determinati settori cruciali al fine di ottenere uno scambio tra una maggiore disponibilità della Commissione ad ascoltare con attenzione e profitto le istanze delle organizzazioni consultate e l’offerta di più ampie garanzie di apertura verso le stesse riconoscendo una loro funzione di rappresentatività.

La Commissione intende promuovere un uso diversificato degli strumenti a sua disposizione, quali i Regolamenti e le Direttive quadro e semplificare sempre più il diritto comunitario incoraggiando i paesi membri a fare altrettanto per le proprie normative nazionali.

Uno degli obiettivi chiave è quello di utilizzare in via ottimale il parere degli esperti i quali hanno una funzione essenziale, che va riconosciuta sempre più, in un organismo complesso e variegato come la Commissione al fine di aumentare la credibilità dell’Unione e delle sue istituzioni; le stesse e gli Stati membri devono operare di concerto per elaborare una strategia di politica globale.

L’intento della Commissione di aprirsi alla collaborazione di tutti è dimostrato, tra l’altro, dal fatto che, come indicato nel Libro Bianco, chiede espressamente di conoscere le osservazioni sulla efficacia delle indicazioni dello stesso attraverso un metodo diretto del tutto innovativo per l’organizzazione europea, indicando l’indirizzo, sia di posta elettronica che postale al quale inviare ogni suggerimento/commento che verrà reso pubblico, salvo contrario avviso dei proponenti, sul proprio sito web.

Al fine di una maggiore comprensione dell’operato della U.E, viene esplicitato il concetto di “metodo comunitario” che viene sintetizzato nei seguenti termini:

- la Commissione presenta le proposte di legge e quelle in tema delle politiche da perseguire;

- il Consiglio dei ministri, che rappresenta gli Stati membri, e il Parlamento europeo, che rappresenta i cittadini, approvano gli atti legislativi e di bilancio;

- la Corte di Giustizia garantisce il rispetto del principio di legalità.

 

2) Definizione ufficiale di Governance.

Il concetto designa le norme, i processi e i comportamenti che influiscono sul modo in cui le competenze sono esercitate a livello europeo, soprattutto con riferimento ai principi di buona Governance che sono:

* Apertura: le istituzioni devono operare in modo più aperto: assieme agli Stati membri, devono adoperarsi attivamente per spiegare meglio, con un linguaggio accessibile e comprensibile al grande pubblico, che cosa fa l’Unione Europea e in che consistono le decisioni che essa adotta.

* Partecipazione: è indispensabile che le amministrazioni centrali cerchino di interessare i cittadini all’elaborazione e all’attuazione delle politiche dell’Unione.

* Responsabilità: i ruoli all’interno dei processi legislativi ed esecutivi vanno definiti con maggiore chiarezza.

* Efficacia: le politiche della U.E. devono essere efficaci e tempestive, producendo i risultati richiesti in base ad obiettivi chiari.

* Coerenza: le politiche della U.E. devono essere coerenti e di facile comprensione, come risposta alla crescente complessità del sistema.

Quanto sopra deve svolgersi in un rapporto di proporzionalità che consenta di verificare in modo sistematico, dalla prima elaborazione di una politica sino alla sua esecuzione, se un’azione pubblica è veramente necessaria, se il livello europeo scelto, comunitario, nazionale o locale, sia quello più opportuno, se le misure proposte sono proporzionate agli obiettivi da raggiungere.

 

3) Una “Glasnost” per l’Europa.

La Commissione, nell’elaborare le sue proposte, deve tener conto delle realtà e delle esperienze locali, se gli atti normativi ed i programmi che sono decisi hanno un forte impatto territoriale, devono essere attuati con la massima flessibilità.

La società civile, che comprende le organizzazioni sindacali e le associazioni padronali o “parti sociali”, le organizzazioni non governative, le associazioni professionali e le organizzazioni di base che cointeressano i cittadini nella vita locale, deve essere ascoltata, rappresenta infatti la “realtà” rispetto alla “forma” delle decisioni di Bruxelles assunte con il necessario linguaggio tecnico e devono convivere in simbiosi affinché la stessa U.E. abbia un senso.

Deve essere rafforzata la cultura della consultazione e del dialogo, da estendere anche alle procedure del Parlamento europeo, cultura che, ovviamente, non può essere creata attraverso leggi ma mediante un’osmosi di comunicazioni, di naturale propensione all’ascolto, di rispetto delle istanze locali e individuali che può realizzarsi efficacemente solo nella costante prassi quotidiana.

E’ determinante in questo processo, il nuovo fenomeno della costituzione di “reti” che attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie, i mutamenti culturali in corso e l’interdipendenza locale, collegano imprese, comunità, centri di ricerca e autorità regionali e locali e che forniscono, in modo autonomo, un nuovo punto di partenza per la costruzione europea.

E’ necessario evitare atti normativi inutilmente dettagliati, che provocano una eguale reazione nei Parlamenti nazionali e rendono lenti i lavori legislativi e soprattutto l’applicazione delle norme, vanno invece favorite le c.d. “cooperazioni rafforzate”, cioè la combinazione di strumenti di pubblico intervento quali atti normativi, programmi, orientamenti, fondi strutturali per conseguire gli obiettivi del Trattato europeo.

Va sempre scelto lo strumento normativo adeguato allo scopo da perseguire per far progredire il processo di coesione europea:

- il Regolamento è d’obbligo quando sono necessarie uniformità e certezza giuridica e soprattutto rapidità, in quanto è immediatamente applicabile in tutti i paesi dell’Unione;

-le Direttive quadro, meno impegnative e più flessibili, approvabili in tempi brevi, sono invece adatte per far recepire in maniera più naturale gli indirizzi dell’Unione da parte dei paesi membri attraverso il necessario passaggio parlamentare.

E’ infine opportuna una cultura del feed back per trarre insegnamenti dai successi e dagli errori del passato.

 

4) Diritto comunitario

E’ essenziale una sua ampia semplificazione tramite un T.U. degli atti normativi esistenti, abrogando le disposizioni ridondanti e obsolete; anche tale azione, per avere efficacia, deve procedere in sintonia con analoghi interventi da parte dei Parlamenti nazionali.

Purtroppo la dichiarata volontà di semplificazione (v. p.19 del documento) è accompagnata dalla previsione della costituzione di 12 agenzie autonome di regolamentazione per l’applicazione delle norme comunitarie in settori specifici in tutta Europa. Tali agenzie “dovranno operare con un certo grado di indipendenza e nell’ambito di un chiaro contesto definito dal potere legislativo”, definizione testuale che non sembra conciliarsi molto con il concetto di autonomia ad esse attribuito; quanto sopra, ad avviso del redattore, implicherà un sistema efficace di vigilanza e di controllo ma con probabili ritorni in termini di rallentamento delle azioni necessarie e di confusione su chi sarà il decisore ultimo.

L’incidenza delle norme comunitarie dipende dalla reale volontà e capacità degli Stati membri di assicurare una loro “effettività” nell’applicazione, carattere non sempre attribuibile alle stesse norme di produzione nazionale, altrimenti le disposizioni comunitarie rimarranno spesso buone intenzioni non collegate con le realtà e il sentire comune dei vari paesi.

Il principio da perseguire è invece quello di legalità, il diritto comunitario deve divenire parte organica di quello dei singoli Stati, essere sentito come proprio da tutti gli europei perché tiene conto delle istanze locali.

L’Unione deve infatti cessare di essere il prodotto di un processo diplomatico ma concretizzarsi sempre più attraverso un processo democratico che incida in profondità nelle realtà nazionali e nella vita quotidiana dei cittadini.  Gli Stati membri devono scambiarsi le buone pratiche seguite dai propri Parlamenti in una osmosi naturale di esperienze ed i cittadini pensare europeo nell’ambito di una evoluzione che è soprattutto di natura sociale più che politica.

 

 

b) Brevi note di dottrina sul Libro Bianco sulla Governance

 

Il termine, ormai in uso nella versione in lingua inglese, viene dalla parola latina guberna, timone, da cui gubernare, guidare la nave e, successivamente, si è esteso alla gestione della cosa pubblica.

Al momento presente ha assunto, distinguendosi dal termine “Government”, che individua l’Istituzione in quanto tale, il significato di promozione di un modo nuovo di gestione degli affari pubblici basato sulla partecipazione della società civile a tutti i livelli.

Il punto chiave, messo subito in evidenza dagli studiosi, è quello che non è più procastinabile l’applicazione della massima flessibilità nella normativa comunitaria in modo da tener conto delle specificità regionali e locali e, allo stesso tempo, preservare l’omogeneità delle condizioni di concorrenza.

Data l’organizzazione spesso di carattere “bizantino”, specie se ci si riferisce alle varie sottocommissioni della U.E., non sempre giustificata dalla complessità e dal numero dei vari “attori” che agiscono per il mantenimento e per lo sviluppo della costruzione dell’Europa, un altro scopo fondamentale, insito nel concetto di Governance, è quello di creare e di diffondere un “codice di condotta” a cui dovranno rapportarsi tempi, persone e modalità di produzione normativa e quant’altro possa avere effetto sui destini dell’Unione.

Va comunque ricercato un giusto equilibrio tra l’imporre un’impostazione uniforme di comportamenti, quasi una lingua franca di scrittura e di comunicazione, e la evidenziata flessibilità nell’attuazione pratica delle norme.

Considerato che la Commissione è l’autrice del Libro Bianco sulla Governance, appare evidente il suo scopo di circoscrivere le funzioni del Consiglio e del Parlamento europei alla produzione della legislazione primaria, riservando a sé i compiti di esecuzione dei provvedimenti nonché di produzione di legislazione secondaria riferita alla maggior parte delle questioni di carattere tecnico.[28]

Già Jean Monet parlava di “Europa delle Regioni” per indicare il concetto di unità nella diversità, ora gli studiosi preferiscono parlare di una “Europa con le regioni”, in quanto le stesse non si sostituiscono ma si affiancano ai Governi nazionali nella Governance europea.  D’altra parte il modello vincente appare quello della Multilevel Governance, basato su vari livelli in armonia tra loro rappresentati dalla U.E., dagli Stati membri e dai governi regionali e locali. [29]

Un vero coinvolgimento delle regioni, come è noto, si ha con il Trattato di Maastricht, in particolare con l’introduzione del principio di sussidiarietà e con l’istituzione del Comitato delle Regioni che permette agli enti locali una partecipazione diretta a livello comunitario, oltre a quella indiretta mediata dai Governi centrali.

Il ruolo del C.d.R. è un punto cardine della Governance, anche se finora non ha potuto svolgere appieno il compito per il quale è stato costituito a causa del carattere solo consultivo del potere assegnatogli e per l’eterogeneità dei suoi membri componenti.

Ciò comporta per lo stesso il rischio di avvitarsi in un circolo vizioso, con scarsa partecipazione ed incidenza, perché conta poco il suo intervento ma nel contempo difficoltà a richiedere l’acquisizione di un ruolo più incisivo.

Altro settore in cui i funzionari regionali possono far sentire la loro voce è nel gruppo di lavoro COREPER (Comitato dei rappresentanti permanenti) il quale rientra in quel sistema chiamato “comitologia”, ovvero dell’utilizzo continuo dell’opera di comitati da parte della Commissione per elaborare progetti per la formulazione delle sue politiche.

Esistono sin dagli anni ‘90 gli Uffici di rappresentanza presso la U.E. che pur avendo anch’essi scarso peso forniscono informazioni agli esecutivi regionali sull’iter di formazione e sulla stessa esistenza di atti comunitari di interesse locale anche se agiscono senza un vero mandato politico.

Punto chiave di tutta la Governance attuale e base per una sua evoluzione in futuro è il dialogo costante, organizzato tra Commissione, Associazioni regionali e Comitato delle Regioni in una strategia di politica globale in Europa.

Esprimendo alcune osservazioni a latere, si può evidenziare che al processo di integrazione europea, di carattere centripeto, ancora in una fase attuativa, si è affiancato, specie negli ultimi anni, il fenomeno, apparentemente opposto, del decentramento politico amministrativo che si sta diffondendo nei vari paesi membri, ovviamente quelli che non hanno una struttura federale e che sono la maggioranza, che certamente valorizza tale processo e lo incrementa nella velocità di aggregazione.

Tutto ciò ha un peso sulla futura “Governance” che sarà necessario attuare, sia per la molteplicità di esperienze che verranno acquisite, non solo dall’Europa storica, anche se allargata rispetto ai primitivi sei componenti, ma da quella che dal 1° maggio 2004 comprende 25 realtà nazionali da amalgamare tra loro.

Sempre in tale contesto va notato che le procedure di creazione legislativa e di produzione amministrativa che dovranno necessariamente convergere tra loro e , in via prioritaria, dialogare in termini di linguaggio tecnico e di procedure con gli Organi dell’Unione, al momento presentano naturali forme di diversificazione di carattere storico e politico.

L’Europa, sin dal Sacro Romano Impero, è sempre stata un’idea, amata, odiata, ripudiata, osannata, auspicata ma mai realizzata concretamente se non per brevi momenti, in modo parziale, e solo con la forza delle armi.

La Governance che ci attende, invece, dovrà adattare le “diversità” europee, che nella fase di ampliamento aumenteranno per poi, auspicabilmente, trovare punti sempre più numerosi di convergenza.[30]

 

Una proposta interessante è venuta, nel marzo 2002, dal Presidente dell’Unioncamere della Toscana, regione, insieme alla contigua Emilia Romagna, sempre all’avanguardia nello sfruttare positivamente l’appartenenza dell’Italia alla U.E. ma anche pronta a collaborare per una sua più corretta costruzione.

La proposta parte dalla considerazione che lo stesso “Libro Bianco” sofferma la sua attenzione sulla necessità, per il progresso dell’Europa, e per attualizzare la metodologia di Governance alla nuova realtà ancora in evoluzione, di avere sempre più contatti con i cittadini e con qualificate loro aggregazioni, attraverso tutte le possibili “reti esistenti”.

Secondo questa impostazione non dovrebbero esistere solo le regioni, peraltro ancora non confrontabili perfettamente per la loro natura, nonché gli ulteriori enti sottostanti, almeno come fonti esclusive di collegamento con la U.E.

Per la costante comunicazione di informazioni, tassello essenziale per giungere ad una corretta formulazione delle decisioni, l’Unioncamere della Toscana propone di sfruttare il sistema delle Camere di Commercio che già posseggono una rete telematica non solo in Italia ma in Europa tramite “Eurochambres” che assicura l’interconnessione istituzionale su tutto il Continente.

E’ da rilevare, infine, che il sistema delle Camere di commercio esiste da secoli, ha accompagnato la rinascita in chiave moderna dell’Europa, nonostante la persistenza di guerre e di nazionalismi forti, spesso è stato un valido sostegno alle varie ambascerie ed esiste, egualmente da tantissimo tempo, anche nei paesi di prossima adesione alla U.E..[31]

 

 


Capitolo V°:  LOGICA DI ELABORAZIONE DELL’ATTUALE TITOLO V° DELLA COSTITUZIONE

 

 

a) Brevi note sui principi guida del nuovo Titolo V della Costituzione.

 

Regioni, province e comuni non sono più una mera ripartizione interna della Repubblica, così come era prescritta dall’art. 114 del testo originario, ma, insieme alle Città Metropolitane e allo Stato sono ormai indicate come parti costitutive della stessa nell’articolo novellato.

Tutto questo è importante perché è la traduzione del principio di sussidiarietà nell’ordine costitutivo della Repubblica, già trattato, e in secondo luogo perché, dopo la L.Cost. 2001/3, ogni volta che nella Carta fondamentale è citata la parola Repubblica non è più giustificata la sua automatica identificazione con lo Stato. (Corte Cost.le, Sent.282/2002).

In base al nuovo art.114 tutte le parti costitutive della Repubblica sono equiordinate ma partendo dal basso, cioè dai comuni e non dall’alto, quindi dallo Stato.

Equiordinazione non vuol dire indistinzione dei ruoli e delle competenze; se comuni, province, città e regioni sono infatti Enti autonomi, i loro poteri e funzioni sono fissati dalla Costituzione.

Tale principio trova peraltro concreta applicazione nell’art.117, 1°comma là dove nell’individuare i soggetti a cui spetta l’esercizio della funzione legislativa, cioè Stato e regioni, sottopone la relativa potestà ad identici limiti.

Il principio in questione trova applicazione anche nell’art.119, 1°comma concernente la disciplina dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa che viene riconosciuta agli enti territoriali diversi dallo Stato; ciascuno di essi, infatti, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica fissati con legge nell’ambito della potestà legislativa concorrente, in seguito descritta, deve poter disporre di riserve proprie.

Il principio dell’equiordinazione e la possibilità di disporre di risorse proprie non esclude, così come previsto esplicitamente dall’art.119, 3° e 5° comma, l’esistenza di formule perequative e integrative dei bilanci degli enti territoriali meno ricchi.

Il Riformatore costituzionale ha, inoltre, volutamente sostituito nell’Ordinamento la sovrapposizione di competenze legislative con il principio di una loro netta separazione il cui recepimento sarebbe in contrasto con la possibilità di creare un effettivo modello cooperativo.

Per tale modello si intende l’insieme di relazioni tra enti territoriali che decidono di esercitare le proprie competenze in maniera coordinata

La cooperazione può definirsi orizzontale se si svolge tra enti del medesimo livello istituzionale, tra regioni oppure tra comuni, per esempio, oppure verticale se avviene tra enti di diverso livello, come tra Stato e regioni o tra queste e i comuni.

Il modello cooperativo, infine, ha possibilità di funzionare solo se si genera dal basso con carattere volontario e non obbligatorio, altrimenti si risolverebbe in un non senso operativo oltre che giuridico.[32]

 

 

b) Competenza esclusiva dello Stato in materie enumerate.

 

Il fatto nuovo è dato dal rovesciamento del principio enumerativo: lo Stato, in via di principio, ha una competenza esclusiva ridotta e peraltro precisata in modo dettagliato, mentre le regioni hanno (formalmente) o avrebbero una competenza “generale” e quindi di carattere espansivo.

Vi è inoltre un tertium genus, dato dalla competenza detta concorrente, in base al quale spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.

Va osservato, inoltre, che l’attuale enumerazione delle materie di competenza statale ex art. 117 novellato della Costituzione ha un carattere dinamico e funzionale rispetto a quello statico ed oggettivo della elencazione dei poteri delle regioni prevista dall’originaria versione di detto articolo.

In secondo luogo, una prima lettura e conseguente schema interpretativo del Titolo V° vede lo Stato e le regioni posti in posizione di parità regolata nell’ambito di un ordinamento generale.

L’art. 114, 1°comma, infatti, inserisce lo Stato, naturalmente, come parte costitutiva della Repubblica, al pari però delle regioni ma anche dei comuni e delle città metropolitane.  L’art. 117,1°c. afferma che la potestà legislativa  è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione ma anche dell’Ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali.

L’art. 127 Cost., infine, mantiene, è vero, la differenza tra eccesso di competenza per la legge regionale e il principio di lesione di competenza per quella dello Stato, ma ha parificato processualmente ambedue nell’accesso al giudice costituzionale.[33]

 

Si può ipotizzare un ulteriore schema interpretativo del Tit.V° basato non su una posizione di parità ma su uno sviluppo gerarchico dei rapporti Stato-Regioni, presente soprattutto negli Ordinamenti di lunga tradizione federale come gli Stati Uniti o la Germania.

Nella nostra attuale Costituzione si trovano tracce di questa impostazione nell’art. 119, 5°comma riguardante l’intervento dello Stato atto a promuovere lo sviluppo economico ed a rimuovere i conseguenti squilibri attraverso la destinazione di “risorse aggiuntive a favore di determinati Comuni, Province, Città Metropolitane e Regioni”.  In tal caso gli enti sub statali sono elencati, perciò posti su un piano paritetico rispetto al potere centrale.

Altra traccia di tale orientamento si ritrova nell’art. 120, 2°comma concernente il potere sostitutivo del Governo rispetto ai cennati enti sub statali, “nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure in pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica...”

D’altra parte l’art.117, 5°comma attribuisce alle regioni e alle prov.aut. nelle materie di loro competenza, la facoltà di partecipare alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari ma “nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalle leggi dello Stato” che peraltro “disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”.

Lo stesso articolo, all’ultimo comma, il 9°, stabilisce testualmente: ”Nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato”[34]

 

Scendendo nell’esame delle competenze enumerate si evince che 17 materie appartengono allo Stato in competenza esclusiva mentre 21 alle regioni in competenza c.d. “concorrente” anche se è più corretto definirla “ripartita”; in base a tale ultima definizione lo Stato deve fissare i principi fondamentali e la regione interessata dettagliare la disciplina della materia.

La vera natura della competenza concorrente, invece, è diversa, l’una esclude l’altra, legge regionale opposta a quella statale, sistema che è proprio degli Ordinamenti federali come quello tedesco in cui la competenza o spetta ai Laender o al Bund, ma non può essere condivisa.

In linea di semplice lettura le 17 materie riservate allo Stato appaiono poche rispetto alle 21 riservate alle regioni per le quali lo Stato deve limitarsi a fissare i principi fondamentali, ma in tal modo la disciplina conseguente e la relativa potestà regolamentare sono di fatto affidate agli enti locali.

Lo Stato, però, ha la possibilità di mantenere per altre vie, su tutta la nuova disciplina dei poteri, un ruolo fondamentale e superiore.

Innanzi tutto determina l’ “unità” della Nazione ma, soprattutto, nel concreto, in base alla Costituzione, possiede materie fondamentali concernenti il sistema tributario e contabile centrale, la disciplina dei mercati finanziari, la protezione civile, il commercio con l’estero e altri, potendo anche gestire funzioni e compiti che lo differenziano dagli altri enti.  Le funzioni non sono materie definite ma attribuiscono allo Stato uno specifico potere in settori importanti, quali la politica estera, i rapporti internazionali, quelli con l’Unione Europea, la perequazione delle risorse finanziarie, l’ordine pubblico, la sicurezza.

L’attribuzione di compiti avviene, invece, quando la Costituzione adotta espressioni del tipo “tutela” o “promuove”, con una conseguente visione finalistica e perciò una competenza di carattere dinamico e non meramente oggettivo che riguarda la tutela del risparmio, quella della concorrenza, dell’ambiente, la sicurezza del e sul lavoro, il sostegno all’innovazione per i settori produttivi, la tutela della salute e il coordinamento della finanza pubblica.

Sono i poteri funzionali che consentono una posizione particolare e superiore dello Stato rispetto all’impianto che emerge da una prima lettura del Titolo V° caratterizzato, come già accennato, da una formale equiparazione degli Enti interessati.

Le attribuzioni funzionali, infatti, non presentano un contenuto neppure strettamente predeterminabile per cui giustificano interventi del legislatore statale sia di ordine generale e astratto che dettagliato e concreto, su tutti i campi materiali a prescindere dalla regola della competenza.

Nello stesso ambito sono da annoverare i compiti che attribuiscono all’azione statale elasticità e superiorità programmatica in quanto, indipendentemente dalle materie di riferimento, lo Stato tutela, coordina, assicura, sostiene, armonizza, valorizza, promuove e, infine, organizza.


c) La competenza concorrente

 

In merito, innanzi tutto, va ricordata la vigenza del principio della continuità dell’ordinamento giuridico per il quale sino a quando non vengono adottate le nuove normative, restano in vigore le disposizioni che regolano le materie sorte conformemente al precedente riparto di competenza al fine di evitare vuoti di normazione pericolosissimi per la tenuta dell’Ordinamento.

Ciò premesso, la nuova formulazione dell’art.117, 3° comma Cost., afferma, dopo un’elencazione dettagliata all’ultimo paragrafo, che nelle materie di legislazione concorrente spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.

Vi è il pericolo, evidenziato dalla dottrina,[35] che lo Stato, utilizzando la sua esperienza, in pratica la sua compattezza rispetto ai singoli enti locali, finisca per lasciare alle regioni compiti di dettaglio, possibilità di intervento limitato e con la sua capacità invasiva e pervasiva, finisca per condizionare ogni decisione su materie di competenza concorrente e la loro organizzazione.

La stessa Legge costituzionale 18/10/2001 n.3, all’art. 11, 2°comma, prevede di istituire, presso la Commissione parlamentare per le questioni regionali, una rappresentanza integrata tra Stato, regioni ed enti locali che prenda parte al procedimento legislativo quando un progetto di legge riguardi materie di cui al 3° comma dell’art. 117, oppure all’art. 119 della Costituzione.

L’orientamento ampliamente prevalente nella dottrina, che è anche una soluzione di buon senso, è quello del necessario rispetto in ogni caso del limite dei principi fondamentali da desumere in via interpretativa dall’Ordinamento, detto anche dei “principi impliciti”.

La tesi dell’esistenza di tali principi giocava tutta a favore del potere centrale, grazie all’assioma della competenza generale dello Stato che assegnava proprio a questo la formazione e la cura dell’ordinamento giuridico.

Nel momento in cui una parte della competenza legislativa passa di diritto alle regioni, i principi impliciti non possono essere tratti, come prima, dalla legislazione centrale. Pertanto le materie di competenza concorrente ex art. 117, 3°c. Cost. dovrebbero considerarsi vere e proprie materie di competenza regionale, liberamente disciplinabili dalle regioni fino a quando non vi siano interventi limitativi dello Stato, sotto forma di principi fondamentali espressi in leggi del Parlamento.[36]

Non vanno trascurati, sull’argomento, altri due principi:

1) La “Specialità”, conservata dall’art. 116, 1°comma della Costituzione mantenendo la tradizionale distinzione nel nostro Ordinamento tra regioni a statuto speciale e quelle ordinarie, considerando l’anzidetta specialità come una disciplina costituzionale in deroga rispetto al disegno dell’autonomia tracciato dal Titolo V° della Carta fondamentale.

E’ anche vero che, per evitare una reformatio in peius, l’art 10 della citata legge costituzionale n. 3/2001 prevede espressamente:  ‘Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge si applicano anche alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite’.

2) “Clausola di asimmetria”, è un diverso principio deducibile ex art. 116, 3°c. Cost. che, a differenza di quello di specialità, non consente di negoziare qualsiasi aspetto costituzionale dell’autonomia regionale, ma solo alcune competenze attribuite allo Stato dal successivo art. 117, 2°c., punti l, n, e  s, cioè organizzazione della giustizia di pace, il primo, norme generali sull’istruzione, il secondo, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, (punto s), nonché le ulteriori materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 Cost. relative alla legislazione concorrente.  Il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario non appare contrattabile con le regioni in quanto collegato alla competenza esclusiva dello Stato.[37]

L’attivazione del principio di asimmetria è rimesso alle singole regioni interessate che, sentiti gli enti locali, contrattano con il governo per il raggiungimento di un’intesa su un complesso di competenze che intendono assumere in modo esclusivo e nominato, per cui, nel caso specifico, il riparto di competenze si risolverebbe in un sistema a doppia enumerazione.

L’intesa, però, per avere validità, deve essere portata in Parlamento, dal Governo o dalla regione, con un atto di iniziativa legislativa e questo deve essere approvato dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti.

Appare certamente anomalo, a stretto rigore, a fronte dell’attuale sostanziale ristrutturazione del Titolo V° e dei rapporti centro-periferia, ispirati ad un riparto di competenze di carattere generale delle regioni e sulla enumerazione delle materie esclusive attribuite allo Stato, parlare ancora, in via generale, di statuti speciali.

La distinzione accennata può trovare ancora un motivo d’essere, se si esamina dall’angolo visuale dei connotati storici ormai radicati, dal cui cambiamento si temono squilibri e rischi di tenuta di tutta la struttura, motivati da insularità, minoranze linguistiche non disgiunte, nel caso di una delle province autonome, da questioni internazionali.

La competenza ripartita delle regioni speciali, rispetto a quella esclusiva dello Stato, da’ vita a due enumerazioni con la coincidenza di oggetti e, di conseguenza, a collisioni tra statuti e leggi nazionali.

La Sicilia presenta ora una coincidenza di oggetti di competenza propria con materie enumerate sull’istruzione media e universitaria, sull’importante disciplina del credito, delle assicurazioni, del risparmio e dei mercati finanziari, sulla legislazione sociale, sui rapporti di lavoro, sulla previdenza e assistenza come da art. 17 dello Statuto.

Le altre tre regioni hanno una competenza di integrazione e attuazione, (il Trentino-Alto Adige solo di integrazione) di tipo nominato per adattare o adeguare alle loro particolari esigenze o alle condizioni regionali, le disposizioni delle leggi della Repubblica in materie già elencate.

La sovrapposizione parziale o totale delle voci di competenza concorrente delle regioni speciali, può condurre, anzi è quasi fatale che ciò succederà, ad un degrado della seconda al rango di competenza concorrenza Stato-regioni.[38]

 

 

Capitolo   VI°    RIVISITAZIONE DEI PRINCIPI DEL TITOLO V° DELLA COSTITUZIONE: DDL BUTTIGLIONE DI MODIFICA DELLA LEGGE  “LA PERGOLA” n.86/1989.

 

 

a) Riflessioni generali sul ruolo delle regioni

 

Per Rousseau l’uomo aliena nel corpo politico tutti i suoi diritti per poi riceverli, per intero, in quanto cittadino.

La Repubblica francese del 1793, che si ispira alle idee del filosofo francese, è “una e indivisibile” e pur potendosi articolare in dipartimenti, tutta la sovranità è concentrata nello Stato che si propone quasi come un erede “democratico” del Sovrano assoluto.

La costruzione dell’Europa non si dovrebbe sviluppare secondo il vecchio concetto di sovranità che da Rousseau, appunto, si è trasferito in tutta la tradizione giuridica successiva, ma, al contrario, il potere decisionale dovrebbe essere il più possibile vicino alle effettive esigenze del cittadino non interpretate a senso unico da un’onnipotente “volontà generale”.

Negli ultimi tempi sembra diffondersi la convinzione che l’Unione Europea debba realizzarsi quasi fatalisticamente e non per motivi concreti; l’Europa invece non può essere solo quella dell’economia (anche se l’Unione monetaria rappresenta un passo avanti fondamentale per il suo futuro), ma prima di tutto deve essere in sintonia con i suoi abitanti, deve certo avere un corpo ma anche un’anima e tutto ciò si può garantire con una condivisione profonda e diffusa nel tessuto sociale della sua necessità e della volontà di proseguire verso obiettivi di maggiore integrazione.

Le basi sulle quali si giustifica il cammino intrapreso con il Trattato di Roma del 1957 sono il desiderio e la necessità di sicurezza interni ed esterni e quelle di un diritto attivo alla cultura nel senso più ampio del termine, elemento, quest’ultimo, fondante anche in passato, pur nelle tante guerre “civili” che hanno funestato il Vecchio Continente, di un’idea d’Europa che poi, in fondo, è stata sempre presente, anche se non realizzata se non per brevi periodi e nel modo sbagliato cioè con la forza delle armi.

Uno tra gli strumenti per costruire un’Europa organica è rappresentato dal rafforzamento del ruolo del Comitato delle Regioni, in qualità di organismo tecnico di partecipazione della periferia ai centri decisionali.

Si è ancora lontani da un’Europa delle Regioni sia perché non vi è un denominatore comune nella definizione comunitaria di ente locale, che assume competenze diversificate a seconda degli Stati interessati, sia per la resistenza del concetto di nazione a fare un passo indietro, operazione questa, peraltro, che se non condivisa da tutti i paesi membri, non solo sarebbe impossibile da realizzare ma deleterio tentare di imporre su basi ideologiche e, ancor più, se limitata al solo fine di stringere i tempi per la costruzione di un’Europa unita al di là della forma confederale o federale che si vorrà scegliere.[39]

 

 

b) Finalità della normativa

 

Le modifiche alla legge “la Pergola” n. 86/89 sono da ultimo previste dal DDL “Buttiglione e altri” approvato dalla Camera dei Deputati il 3/7/2003, rubricato al n. 2386, derivante dall’unificazione di altri DDL n.3071, 3123 e 3310, dal gennaio 2004 all’esame del Senato.

Le modifiche proposte dal provvedimento in discussione al momento della redazione del presente studio, riguardano principalmente tre profili:  La partecipazione parlamentare e degli altri soggetti interessati alla c.d. fase “fase ascendente” della formazione del diritto comunitario; la previsione del recepimento di detto diritto nella c.d. “fase discendente” e, infine, la procedimentalizzazione della partecipazione delle regioni, degli enti locali in genere e delle parti sociali a tutto il processo di integrazione.

Per tutte queste fasi il DDL in argomento punta a potenziare l’incisività della partecipazione dello Stato italiano, sempre coadiuvato dalle regioni e dalle autonomie locali nella sua attività di collaborazione alla elaborazione degli atti comunitari, nonché nello snellimento burocratico e conseguente accelerazione nell’applicazione di questi ultimi su tutto il territorio nazionale.

Gli strumenti previsti per realizzare quanto esposto sono dati dalla Legge Comunitaria annuale e dall’utilizzo di sistemi normativi più flessibili quali il ricorso al Regolamento per l’attuazione delle Direttive comunitarie.

Il fine ultimo di tale elaborazione è quello di creare una cornice normativa relativa alla partecipazione del Parlamento, delle regioni, degli enti locali e di tutti i soggetti comunque interessati quali, per primi, le parti sociali, al processo decisionale della U.E.

Per quanto riguarda il ruolo delle regioni si conferma la loro necessaria partecipazione alla formazione/esecuzione degli atti comunitari nelle materie di loro competenza e un ruolo più significativo per la Conferenza Stato-regioni e Stato-città di cui verrebbe istituita una sessione comunitaria.

Con particolare riferimento alla fase di esecuzione, le regioni hanno l’obbligo di attuazione per le materie di loro competenza. Tenuto conto, però, che lo Stato rimane l’unico soggetto responsabile nei confronti dell’Unione, la quale attualmente mostra indifferenza per la ripartizione interna delle competenze nei paesi membri, per la nota eterogeneità delle varie situazioni nazionali ancora non confrontabili, viene previsto che lo Stato, che deve comunque intervenire in via sussidiaria in caso di inadempienza delle regioni, possa emanare atti c.d. “cedevoli”, cioè con natura e con l’efficacia di recepire le disposizioni della U.E., ma che rimangono in vita sino all’effettiva e, ovviamente, tempestiva, attuazione degli stessi da parte delle entità locali interessate.

L’art.5, 1°comma del DDL Buttiglione prevede, contestualmente alla ricezione dei progetti degli atti normativi europei, la loro trasmissione, da parte del Governo, nelle persone del Presidente del Consiglio o del Ministro per le politiche comunitarie, alla Conferenza dei Presidenti delle regioni e a quella dei Consigli regionali per l’inoltro alle rispettive Giunte.

L’art.5, 3°comma prevede la possibilità di proporre osservazioni, ovviamente sugli argomenti di competenza, da parte delle regioni entro venti giorni dal ricevimento degli atti in questione.

L’art.5, 5°comma introduce la possibilità da parte del Governo di apporre, in sede di Consiglio dei Ministri della U.E., su richiesta della Conferenza Stato-regioni, la “riserva di esame regionale” se l’argomento del provvedimento in itinere si riferisce ad interessi degli enti locali italiani.[40]

Il complesso normativo non è quindi più espressamente rivolto al solo tempestivo adempimento degli obblighi di derivazione comunitaria, cui si provvede attraverso l’articolazione della fase discendente, ma definisce compiutamente anche il procedimento per la formazione della posizione italiana, nel suo complesso, verso gli atti comunitari.  Il DDL, come indica l’art.1, garantisce gli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla U.E. sulla base di principi di sussidiarietà, proporzionalità, di efficienza, di trasparenza e di partecipazione democratica.

Il DDL distingue tra “atti comunitari” cioè quelli adottati dalle Istituzioni comunitarie nell’esercizio dei poteri e secondo le procedure di cui ai Trattati istitutivi e gli “atti dell’Unione Europea” includendo in essi non solo le disposizioni relative alla fase discendente ma anche le “decisioni quadro” e quelle adottate nell’ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale.[41]

Viene istituito, all’art.2, il Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei (CIACE) che si avvale della collaborazione di un comitato ad elevata qualificazione tecnica essendo composto da soggetti con la qualifica di Direttori Generali o di alti funzionari con provata specializzazione in materia

Alle sue riunioni, quando si trattano questioni locali, partecipano le regioni e le province autonome attraverso loro delegati quali il Presidente della Conferenza dei Presidenti degli enti appena indicati, oppure un presidente di regione o di provincia autonoma appositamente incaricato, sempre con riferimento agli ambiti di competenza degli enti locali, oppure i Presidenti delle loro associazioni rappresentative.

In merito al CIACE, la Conferenza dei Presidenti delle regioni e delle province autonome , in un documento approvato il 13/11/2003 rileva, si citano testualmente alcune parti:  “ omissis   come tale organo non tenga conto nella dovuta considerazione il ruolo delle regioni la cui partecipazione è limitata a quella del Presidente della Conferenza o di un suo delegato, a fronte della numerosa componente ministeriale”.

Si paventa perciò, sempre secondo tale documento, quanto già accade in sede CIPE “laddove la prevista presenza regionale non può esplicarsi, mancando i presupposti essenziali per ogni partecipazione delle regioni” perché le previste modalità procedurali non consentono un adeguato esame delle questioni all’ordine del giorno, per la posizione del tutto minoritaria e marginale della presenza regionale che finisce, di fatto, per non essere presa in considerazione

La Conferenza ritiene altresì che “ogni pre-definizione di una posizione dello Stato renderebbe difficile il raggiungimento di una posizione comune con le regioni”. La soluzione andrebbe perciò ricercata e definita solo nell’ambito della Conferenza Stato-regioni, sessione comunitaria, che è una sede, forse l’unica, paritaria per il confronto politico Governo-enti locali.

Viene inoltre proposto “di istituire una componente delle regioni all’interno della Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’Unione europea, organizzata interamente e in via autonoma dalle regioni”

Quanto sopra trova peraltro un sostegno legislativo recente nell’art. 5 della L. 5/6/2003 n. 131, nota con il nome del proponente “La Loggia”, che prevede la partecipazione a pieno titolo dei rappresentanti regionali e delle province autonome ai comitati e ai gruppi di lavoro del Consiglio e della Commissione della U.E.

Si auspica pertanto la possibilità di proiettare nell’organizzazione a Bruxelles gli equilibri paritetici di co-determinazione tra Stato e regioni previsti nel DDL nr. 2386 di riforma della legge  “La Pergola” a firma del sen. Buttiglione e altri.[42]

Entrando nell’aspetto tecnico del CIACE esso presenta una composizione a “geometria variabile” nel senso che accanto alla partecipazione necessaria del Ministro per gli affari regionali e quello degli affari esteri, ne fanno parte anche altri Ministri purché competenti nelle materie all’ordine del giorno. Alle sue riunioni, inoltre, possono chiedere di partecipare il Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni e prov.aut. oppure un Presidente di regione o prov.aut. da lui delegato o i Presidenti delle associazioni rappresentative  degli enti locali se sono trattate materie di competenza di detti enti, come da art.2, paragrafo 2 del citato DDL Buttiglione.

In merito alle funzioni, il Comitato si configura come una sorta di “cabina di regia” governativa chiamata a coordinare le indicazioni di tutti i soggetti interessati al fine di definire una posizione comune del “sistema paese”.

Per questo motivo l’istituzione del CIACE è vista dalla Conferenza dei Presidenti delle regioni come una conferma di una rinnovata centralità del Governo nell’ambito delle relazioni comunitarie che la riforma del Tit.V° aveva voluto, o almeno così era stata interpretata, attenuare a favore delle realtà locali.[43]

Una diversa valutazione della dottrina vede al contrario, in modo positivo, l’affermarsi di un sistema policentrico delle autonomie e, di conseguenza, un progressivo ampliamento dello spettro di azione dei soggetti coinvolti nella definizione degli atti comunitari attraverso modalità indirette di partecipazione.[44]

 

 

c) La fase ascendente, partecipazione regionale alle decisioni comunitarie.

 

La fase riguarda tutti i soggetti interessati ad essa, il Parlamento, le regioni e gli enti locali inferiori e, attraverso questi ultimi, la Conferenza Stato-città, le rappresentanze che siedono nel CNEL, nonché le parti sociali e le categorie produttive.

Il DDL Buttiglione risente, nella sua impostazione, delle forti critiche sulla scarsa democraticità del “governo”, inteso in senso lato, della U.E. e dei suoi riflessi, almeno per l’Italia, sull’attivismo del nostro Esecutivo.

Il fulcro della disciplina consiste nella trasmissione degli atti o loro progetti alle Camere e alla Conferenza delle regioni e province autonome con l’indicazione della data presunta di discussione o di adozione in sede comunitaria

Per quanto riguarda il “ritorno”, cioè le iniziative da assumere, occorre distinguere tra gli organi parlamentari che possono formulare osservazioni o adottare ogni opportuno atto di indirizzo al Governo (art.3, 7°c.) e le regioni e prov.aut. per le quali è previsto un sistema graduato e complesso in funzione dell’effettivo coinvolgimento delle competenze di tali enti in detta fase.

Tutti gli atti vengono trasmessi a detti enti locali ai fini dell’inoltro alle loro Giunte e ai Consigli. L’informazione deve essere qualificata e tempestiva con un’attività di aggiornamento costante da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Nelle materie di competenza i suddetti enti sub-statali possono trasmettere osservazioni, al Presidente del Consiglio e al Ministro per le politiche comunitarie, per il tramite delle Conferenze dei Presidenti nel termine di 20 giorni dal ricevimento della documentazione.

Per i progetti comunitari che riguardano una materia attribuita alla competenza legislativa delle regioni o prov.aut., qualora uno o più di tali enti ne facciano richiesta.(art.5,4° comma) il Governo convoca la Conferenza permanente Stato-regioni; per evitare situazioni di stallo, si prevede che l’Esecutivo possa egualmente procedere quando sia decorso inutilmente il cennato termine di 20 giorni oppure nei casi di effettiva urgenza che devono, però, essere motivati.

Va sottolineata la novità dell’istituto della “riserva di esame parlamentare” di cui all’art. 4 del DDL Buttiglione, con il quale il Governo può bloccare i lavori del Consiglio dei Ministri dell’Unione europea in attesa che sul piano interno si definisca la fase ascendente; la “riserva” opera sia a favore delle Camere che delle regioni, in quest’ultimo caso solo su richiesta della Conferenza Stato-regioni.[45]

Nell’ipotesi di questioni di particolare rilevanza per gli enti locali, gli atti sono trasmessi anche alla Conferenza Stato-città e autonomie locali e, da questa, alle associazioni rappresentative degli enti locali

La Presidenza del Consiglio, in tali eventualità, convoca ad apposite riunioni (v. art.6 DDL in argomento) esperti designati dagli enti locali le cui osservazioni devono pervenire al Governo entro la data indicata nell’atto di trasmissione, in caso contrario, quest’ultimo, può provvedere direttamente ponendo in essere le attività di collaborazione dirette alla formazione dei relativi atti comunitari.

Nel caso di materie di particolare interesse economico e sociale, gli atti sono trasmessi al CNEL che può far pervenire alle Camere e al Governo le valutazioni e i contributi che ritiene opportuni.  Il Presidente del Consiglio o il Ministro per le politiche comunitarie organizza, se necessario, in collaborazione con il CNEL, apposite sessioni di studio ai cui lavori sono invitate le associazioni nazionali dei comuni, delle province e delle comunità montane e ogni altro soggetto interessato come previsto dall’art.7 del più volte citato DDL Buttiglione.

 

 

d) La fase discendente o dell’esecuzione delle disposizioni dell’Unione Europea.

 

Tutti gli “attori politici” italiani, ciascuno per le materie di propria competenza, in conformità con l’art. 117, 5° comma della Costituzione, ha il compito di dare tempestiva attuazione alle direttive comunitarie.

Rispetto alla legge “La Pergola” n.86/89, la relativa informazione non spetta solo alle Camere ma anche ai Consigli regionali e delle province autonome, tramite le Conferenze dei rispettivi Presidenti.

Il Governo in via preliminare, ma con la collaborazione delle amministrazioni interessate, verifica la conformità dell’ordinamento interno e degli indirizzi politici, ai vincoli di derivazione comunitaria, in base al cui esame, entro il 31 gennaio di ogni anno, presenta al Parlamento il disegno di “legge comunitaria” ex art. 8 del DDL de quo recante disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità, prima, e ora Unione europea.

Tale legge reca, tra l’altro, per quanto ora interessa, le disposizioni che individuano i principi fondamentali in base ai quali gli enti sub-statali esercitano la loro competenza normativa e conferiscono delega al Governo per l’applicazione delle sanzioni per l’eventuale violazione delle disposizioni comunitarie, come da art.9 del DDL Buttiglione.

L’art 11 del provvedimento in esame introduce, come novità di rilievo, la possibilità di attuazione degli atti comunitari in via regolamentare e amministrativa per quelle materie non coperte da riserva assoluta di legge, purché ciò sia disposto dalla legge comunitaria e in conformità del citato art. 117, 5°comma Cost., gli atti normativi in questione possono essere adottati in tale forma anche nelle materie di competenza delle regioni e prov.aut. in caso di inerzia di tali enti.

Punto cruciale, derivante dal riconoscimento alle regioni della potestà legislativa residuale, è quello previsto dall’art.16, 1°comma del DDL de quo, che afferma: “Le regioni e le province autonome, nelle materie di propria competenza, possono dare attuazione alle direttive comunitarie. Nelle materie di competenza concorrente la legge comunitaria indica i principi fondamentali non derogabili dalla legge regionale o provinciale sopravvenuta e prevalenti sulle contrarie disposizioni eventualmente già emanate dalle regioni e dalle province autonome”.

Il Governo, in ogni caso, deve perseguire finalità di carattere unitario di programmazione economica e di rispetto degli impegni derivanti dagli obblighi internazionali; a tale scopo indica i criteri e formula le direttive alle quali si devono attenere regioni e province autonome.

Per l’esecuzione o per l’impugnazione delle decisioni comunitarie destinate all’Italia, viene convocata almeno ogni sei mesi su iniziativa del Governo o su richiesta delle regioni e prov.aut., una sessione speciale della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, (art 17 DDL cit.).  Le Camere possono avanzare osservazioni e atti di indirizzo, mentre la cennata Conferenza solo osservazioni.

Nella fase del recepimento della normativa comunitaria l’intervento del legislatore adotta, in conclusione, una linea di condotta volta alla razionalizzazione delle procedure indirizzata a garantire l’adeguamento del diritto interno a quello comunitario incentrata soprattutto in uno strumento ad hoc, la legge comunitaria annuale, già previsto peraltro dai primi due articoli della legge “La Pergola” nella versione originaria. Nel procedere in tal senso, pur costretto da evidenti motivi di chiarezza, il potere statuale nel suo complesso sembra voler ribadire ancora una volta una sua “centralità” a cui non può ma soprattutto non vuole rinunciare.

A conclusione della presente parte si deve rilevare che l’attuazione del diritto comunitario da parte delle regioni registra un massiccio coinvolgimento delle stesse  sul piano legislativo e amministrativo relativo anche agli atti di programmazione presenti nella normativa comunitaria.

Considerati sia il pericolo di una certa passività congenita delle regioni o di parte di esse  a tale recepimento, sia il sistema necessario ma macchinoso dei poteri sostitutivi del governo attraverso norme “cedevoli”, si discute nelle opportune sedi, con alterne e spesso opposte soluzioni, sulla necessità di introdurre specifici strumenti legislativi di recepimento della normativa comunitaria negli ordinamenti regionali.

 


e) Cooperazione bilaterale tra regioni in Europa

 

La promozione di “partenariati” interregionali con enti locali di altri paesi europei, di natura prevalentemente economica ma anche sociale e istituzionale, e, non ultimi per importanza, per motivi dettati da affinità politica, consente un’attività internazionale delle regioni italiane che si pone su un piano diverso, forse più concreto, di quello del loro, al tempo stesso contestato e ammesso, potere estero già trattato in precedenza.

La motivazione di allacciare relazioni tra aree di frontiera è dovuta principalmente alla ricerca di riduzione dei costi relativi alla duplicazione dei servizi e delle infrastrutture che in tal modo viene eliminata quasi del tutto, oppure al mancato raggiungimento di economie di scala che divengono determinanti in un sistema ormai globalizzato e altamente concorrenziale quale è quello in cui viviamo a tutti i livelli.

Si possono affrontare con accordi bilaterali, che possono estendersi altresì a più soggetti portatori di intenti comuni, se necessario, e con un’ottica di risparmio ma anche di miglioramento della qualità, problematiche comuni.  Per esempio la legislazione in materia ambientale o sulla circolazione di beni e merci, sempre più imposta dalla necessità di salvaguardare l’habitat in cui viviamo dalla pressione, pur necessaria e inevitabile ma spesso devastante se non regolata opportunamente, dell’attività produttiva con i ritmi e l’estensione che ha assunto nel nostro tempo. Materia importante per la cui salvaguardia vengono applicate sempre più spesso sanzioni penali oltre che amministrative ai contravventori da parte degli organi competenti.

In merito a quanto sopra esposto è, prima di tutto auspicabile, ma anche razionalmente prevedibile, che il Comitato delle regioni venga coinvolto, con poteri che potrebbero essere ridefiniti in senso ampliativo, nella fase preliminare dell’elaborazione di nuove scelte legislative e di nuove politiche che abbiano ripercussioni sulle collettività regionali.

La partecipazione degli enti locali italiani a questi accordi bilaterali è un fenomeno che presenta aspetti ancora molto eterogenei per le caratteristiche morfologiche, prima che storiche, della nostra Penisola.

Si possono in proposito rilevare situazioni presenti nel Settentrione, dove si è in grado di realizzare ed operare entro piani strategici predefiniti con regioni di altri paesi, non necessariamente transfrontaliere, oppure confinanti in Italia, con utilizzo di strutture dedicate e fruenti di adeguata dotazione finanziaria; tutto ciò consente a tali enti locali un notevole ed efficace potere di pressione.

In altre regioni, localizzate soprattutto nel Mezzogiorno, le scelte imprenditoriali vincenti sono spesso frutto di operatori dinamici ma limitati nel numero, che agiscono, inoltre, senza una pianificazione strategica di base, con la conseguenza che gli enti locali interessati stentano  ad ottenere risultati medi apprezzabili.

E’ indubbio che atouts quali un efficiente sistema economico e produttivo e una posizione geografica favorevole sono determinanti e hanno sinora giustificato la prevalenza e soprattutto la visibilità delle regioni del Nord a cui aggiungere, per dinamismo e direzione per obiettivi, la Toscana e l’Emilia Romagna, è anche vero, però, che grazie ad un “bilateralismo” interno in fase magmatica anche le regioni del Sud stanno recuperando il tempo perduto e attirando capitali sia stranieri che domestici.

E’ altresì chiaro che la via da seguire per il rilancio del nostro Mezzogiorno può, e in molti casi, deve essere diversificata rispetto a quella adottata dal Settentrione, in modo che le regioni del Sud possano rappresentare a pieno titolo, per le loro tradizioni storiche e commerciali, un ponte dell’Europa verso il bacino del mediterraneo ed i paesi che su di esso si affacciano alcuni dei quali, in tempi che non si stimano particolarmente lunghi, passeranno da semplici contraenti di accordi preferenziali con l’Europa, a far parte della stessa Unione quali, tra i primi, Israele e la Turchia.

Altro problema, che non si può affrontare in tale sede ma solo accennare per dovere di conoscenza, è rappresentato dal fatto che un’eccessiva espansione geografica e quindi orizzontale dell’Europa, come si sta delineando e attuando, in presenza di divisioni anche sostanziali seppur diplomaticamente messe sottotono, nella sua compattezza verticale e quindi nel suo assetto organico sia, per il futuro, un bene o un male.

Si notano infatti alcune resistenze o dubbi degli Stati nazionali fondatori e di quelli entrati nel ventennio cruciale di rilancio dell’Europa tra il 1970 e circa il 1990, verso i nuovi paesi che premono per far parte dell’Unione i quali, peraltro, sperano spesso di risolvere così i loro problemi interni e non sempre sono spinti da un’autentica vocazione europeistica.

Il conseguente rischio dell’affermarsi e del consolidarsi di tale problematica, cioè la crescita o meno attorno ad un nucleo compatto, sia giuridicamente che per programmazione politica, a cui possano aggregarsi per adesione altri paesi, possa diluire sino a sterilizzare il “sogno”, per il momento in cui fu concepito, (alla fine della più grande guerra civile europea oltre che seconda guerra mondiale) ma che nel tempo ha dimostrato di essere anche progetto realistico avanzato dai padri fondatori quali Schumann, Adenauer, Monet e De Gasperi di un’Europa dinamica, portatrice di una sua originale posizione nello scacchiere internazionale, che non si limitasse nel futuro ad un ruolo di semplice comunità commerciale.[46]


Capitolo  VII°  LE REGIONI ITALIANE E LA L. 5/6/2003 n.131, (La Loggia): DISPOSIZIONI PER L’ADEGUAMENTO DELL’ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA ALLA LEGGE COSTITUZIONALE 18/10/2001 N.3

 

 

a) Caratteri generali

 

Si tratta di una legge a carattere generale e attuativo conseguente alla riforma del Titolo V° realizzata dalla legge costituzionale n.3/2001; detta norma non riguarda le disposizioni in materia di autonomia finanziaria e la revisione del T.U. sulle autonomie locali.

Sono stati rilevati i rischi di trasferire sul piano della legislazione ordinaria quelle che lo stesso Parlamento aveva evidenziato come gravissime difficoltà interpretative del nuovo testo costituzionale.

Quanto sopra equivale ad affidare ad una fonte subordinata l’individuazione delle stesse materie e quindi l’interpretazione della riforma costituzionale con le conseguenze che ciò comporta sul piano della certezza del diritto.[47]

Uno degli aspetti cardine della riforma del Titolo V° è dato dal fatto che d’ora in poi la potestà legislativa dello Stato e quella delle regioni hanno gli stessi “limiti” che consistono nel rispetto della Costituzione e in quello dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali e dell’Ordinamento comunitario, come si evince dall’art.117, 1°comma Cost.

La legge La Loggia elenca questi vincoli, ma pur nel suo lodevole intento chiarificatore, essa pone il problema se sia legittimo che gli stessi, previsti nella Costituzione, vengano specificati da una legge ordinaria, quindi pari ordinata alle stesse leggi statali e regionali che devono adeguarsi a tali disposizioni.

Sembra infatti per certi aspetti, secondo una dottrina, che i canoni fondamentali dell’Ordinamento siano stati del tutto dimenticati, in quanto viene prevista una specie di “sanatoria” delle leggi e regolamenti emanati sia dallo Stato che dalle regioni, i quali, se già “vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge”  (omissis)  “continuano ad applicarsi fino all’entrata in vigore delle disposizioni” assunte dagli enti competenti, Stato o regioni, “fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte Costituzionale” (Legge La Loggia art.1, 2°comma).

La preoccupazione potrebbe essere quella che i provvedimenti illegittimi emanati dalle regioni o dal Governo, esorbitando dalle rispettive competenze, possano essere immediatamente annullati per vizio di incompetenza dal giudice amministrativo.

E’ stato posto il problema, altresì, se una legge come quella in questione, a carattere “omnibus”, possa o meno contenere disposizioni che si riferiscono, con l’esplicito proposito di attuarle, a norme costituzionali che non prevedono alcun rinvio alla legge per la loro attuazione. [48]

Per altro verso la legge n. 131/2003 appare chiara nella sua portata là dove dà interpretazioni; per esempio le norme di diritto internazionale rappresentano un parametro per qualsiasi questione di costituzionalità della legge sia statale che regionale, perché a loro volta sono tenute non tanto al rispetto di puntuali aspetti delle norme comunitarie, quindi ad un atteggiamento formale o formalistico, bensì alla sostanziale accettazione che gli organi e gli enti che le emanano appartengono all’Unione Europea.[49]

Altro aspetto problematico è dato dall’art.1, 4°comma, con il quale il Governo è delegato a fare una ricognizione dei principi fondamentali delle norme statali vigenti nelle materie in cui si esercita la potestà legislativa concorrente dello Stato e delle regioni le quali, in tal modo, avrebbero a disposizione elementi utili per poter legiferare con tranquillità in una certa materia fino all’emanazione, da parte del Parlamento di nuove leggi di principio.

L’art. 76 della Costituzione autorizza il Parlamento a delegare il Governo all’esercizio della funzione legislativa purché determini i tempi, i principi, i criteri direttivi e un oggetto definito sul quale deliberare.

Il ricorso allo strumento della delega ha registrato una particolare espansione dopo il blocco della reiterazione dei decreti legge non ratificati; nel citato art.1, 4°comma si prevede che il Legislatore può delegare il Governo a ricavare principi, tramite decreti legislativi meramente ricognitivi, che a loro volta, però sono fonte di altri principi, determinando una delega a “cascata” che in futuro potrebbe porre il problema sempre presente del “limite” di uno strumento legislativo e quindi del suo ambito di applicazione.

La legge n.131/03 introduce il principio della “reciproca cedevolezza” tra norme statali e regionali adeguandosi al disposto dell’art. 114 Cost. che pone Stato e regioni su un piano di parità.

Per quanto riguarda i Regolamenti, nell’originario testo della Costituzione la relativa potestà era sottratta alle regioni, ora, con l’art. 117, 6°comma lo Stato ha potestà regolamentare solo nelle materie di competenza esclusiva e anche su queste può delegare la relativa potestà alle regioni.

La normativa c.d. di dettaglio, in base all’art. 117, 3°comma non dovrebbe più appartenere allo Stato su materie spettanti alle regioni, ferma restando quella sui principi fondamentali egualmente invasiva nelle altrui competenze.

 

 

Esame di alcuni articoli della Legge La Loggia

 

b) Art.4: attuazione dell’art. 114, 2°comma Cost. e dell’art. 117, 6°comma Cost.in materia di potestà normativa degli enti locali

 

L’art. 4 rappresenta il nucleo della “costituzione amministrativa degli enti locali” che in base alle vigenti disposizioni non sono soltanto organi dello Stato ma soprattutto enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni.

L’art.117, 6°comma Cost. stabilisce, infatti, che: “I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.

Per quanto riguarda lo Statuto degli enti locali, la Costituzione pone tutti gli enti, compreso lo Stato, su un piano di parità, almeno in linea generale, attribuendo a ciascuno di essi una caratteristica originalità.

In merito ai Regolamenti, la dottrina tradizionale ha sempre sostenuto che non possono derogare né contrastare sia le norme costituzionali, ovviamente, che tutti gli atti legislativi che sono “fonti primarie”; i Regolamenti hanno infatti forza normativa, e in tal senso sono fonti di diritto, ma non hanno forza o valore di legge. Possono modificare leggi ordinarie solo se a sua volta una legge abbia delegificato una determinata materia autorizzando il potere esecutivo ad emanare norme al riguardo.

Altra sfera d’azione e diverso potere hanno i Regolamenti comunitari, questi hanno sempre portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi sia nei confronti degli Stati membri che verso i loro cittadini, sono direttamente applicabili, entrano cioè nella legislazione dei Partners comunitari, prevalgono sulle norme degli ordinamenti nazionali eventualmente confliggenti con essi.

Le regioni hanno anch’esse una potestà regolamentare ora attribuita dall’art.117, 6°comma della Costituzione in ogni altra materia che non rientri tra quelle di legislazione esclusiva dello Stato.

In passato non si poneva per tali enti un problema di potestà regolamentare in quanto la procedura da parte del Consiglio regionale per emanare tali atti era pari a quella per approvare una legge.  Con il nuovo art.121 Cost. i Regolamenti sono emanati dal Presidente della Giunta, di conseguenza ha ormai senso, per la diversa fonte di emanazione, la distinzione tra legge e regolamento, nonché di dare a tale atto amministrativo una sua autonoma consistenza e portata giuridica.

Vi è ormai un rovesciamento dei rapporti tra potere legislativo e regolamentare dello Stato, da una parte, e quello delle regioni, in quanto quest’ultimo è generale e residuale.

La “rivoluzione copernicana” introdotta dalla Legge costituzionale n.3/2001, infatti, è data dal fatto che ha posto come principio organizzatore dell’ordinamento repubblicano, (fermo il principio che la Repubblica è una e indivisibile ex art. 5 Cost), non più la sovranità, che instaura rapporti di sopra o sotto ordinazione, bensì l’autonomia che implica rapporti di pari ordinazione, nonché il criterio della competenza che è un indice di destrutturazione del sistema gerarchico delle fonti.  Di conseguenza la potestà normativa degli enti locali, così come esce dalla riforma, rappresenta la “fonte primaria”, ma nel senso che viene prima delle altre, e non nella portata gerarchica che ha nell’ordinamento nazionale.[50]

 


c) Art. 5:  Attuazione dell’art. 117, 5° comma Cost. sulla partecipazione delle regioni in materia comunitaria.

 

1° comma - L’originaria “indifferenza” delle Istituzioni comunitarie verso gli assetti ordinamentali degli stati membri, dovuta alle origini internazionalistiche della Comunità, si va attenuando sostituita da un’opposta tendenza di attenzione verso le realtà locali.

La legge n. 131/2003 recepisce la costituzionalizzazione del diritto delle regioni a partecipare alla formazione degli atti normativi comunitari e, quindi, si occupa dei rapporti delle regioni con la U.E. sotto il profilo c.d. “esterno”, concernente ciò che viene a diretto contatto con gli Organi di Bruxelles.

Il versante “interno” di tale disciplina è invece demandato alla legge “La Pergola” n.86/1989 e successive variazioni ma soprattutto alla rinnovata stesura, che è ancora sotto forma di disegno di legge, mentre si sta scrivendo tale commento, più noto come DDL “Buttiglione” dal nome del Ministro per le politiche comunitarie, contrassegnato con il n.2386 del Senato.

L’effettivo riconoscimento dell’azione delle regioni a livello europeo, come già evidenziato, si è avuto con il Trattato di Maastricht del 1993 che ha previsto l’inserimento, tra gli Organi comunitari, del Comitato delle Regioni e che ha concesso la possibilità agli stati membri di essere rappresentati in seno al Consiglio dei Ministri anche da soggetti non componenti il Governo nazionale, purché gli stessi siano in una carica di “livello ministeriale”.

Per ora la norma avvantaggia i Paesi a struttura federale che possono vantare vere e proprie organizzazioni governative nell’ambito degli Stati ad essi federati.

Il ruolo del Comitato delle Regioni (CdR), nel passaggio da Maastricht (1993) ad Amsterdam (1997, in vigore dal 1°/5/1999), ha registrato una sua crescita in quanto gli è stato riconosciuto di esercitare le proprie funzioni, sempre di carattere consultivo/prepositivo, anche nei confronti del Parlamento europeo e non solo della Commissione o del Consiglio.

Il Trattato di Nizza del 2000 sulla materia ha stabilito che i componenti del CdR  debbono essere titolari di un mandato elettorale da parte di una collettività regionale o locale oppure essere politicamente responsabili dinnanzi ad una assemblea eletta con un mandato di 4 anni.

Da parte del nostro Paese si è proceduto ad una ridefinizione del ruolo della Conferenza Stato-Regioni per quanto riguarda l’elaborazione delle politiche e l’attuazione del diritto comunitario, con l’introduzione, tra l’altro, della “sessione comunitaria” ex L.281/97, e con una differenziazione dei rapporti c.d. internazionali da quelli comunitari, necessità già più volte evidenziata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, attraverso la L.n.146/94 art.60 di attuazione del DPR 31/3/94, in forza del quale i rapporti Regioni-U.E. non sono considerate relazioni estere, eliminando perciò l’obbligo della previa intesa con il Governo per le attività promozionali fuori dai confini nazionali.

Per quanto ovvio, si evidenzia che la partecipazione diretta da parte delle regioni ai lavori comunitari è ammessa solo se sono in discussione materie che coinvolgono la loro competenza.

La suddetta partecipazione riguarda le attività del Consiglio dei Ministri e della Commissione della U.E., non è consentita, invece, una rappresentanza diretta delle regioni presso il Parlamento; ciò ha una sua logica, in quanto tale Istituzione è espressione immediata, attraverso l’elezione a suffragio universale, della volontà popolare dei cittadini europei e, non, delle rappresentanze degli Stati membri come avviene per gli altri due organismi.


2° comma: Impossibilità degli enti locali di adire direttamente la Corte di Giustizia europea.

Le regioni, sulla base della giurisprudenza comunitaria e nel silenzio dei vari Trattati in proposito, sono considerate “ricorrenti non privilegiati” alla stregua delle persone fisiche o giuridiche, pertanto possono impugnare un atto comunitario solo se risultano danneggiate direttamente e individualmente e non come soggetti appartenenti ad una categoria.

La Corte di Giustizia aveva già precisato in una sentenza del 13/12/91, causa C-33/90, che solo gli Stati membri sono responsabili a livello europeo anche di eventuali inadempimenti che si realizzano al suo interno.

In una successiva sentenza del 4/7/2000, causa C-424/97, la suddetta Corte sembra assumere un diverso atteggiamento verso le regioni a cui riconosce una propria autonoma personalità giuridica di diritto comunitario.

La Legge La Loggia consente un ulteriore passo in avanti nell’articolo e comma in esame.  Nella prima parte viene precisato che il Governo può proporre ricorso anche su richiesta di una regione o provincia autonoma, la proposizione del ricorso rimane pertanto nella discrezionalità dell’Esecutivo italiano dato l’uso del verbo “potere”.

La seconda parte del paragrafo contiene un’importante affermazione per quanto in argomento e il suo tenore riproduce la postilla voluta e approvata dal Senato il 22/1/2003 che si cita testualmente: “Il Governo è tenuto a proporre tale ricorso qualora sia richiesto dalla Conferenza Stato-Regioni a maggioranza assoluta delle regioni e delle province autonome”.

L’Esecutivo, in tal caso, subordinatamente al raggiungimento di detta maggioranza assoluta, non ha un potere discrezionale in proposito, l’espressione usata “è tenuto” non dovrebbe generare dubbi e, quindi, deve proporre senz’altro il ricorso innanzi alla Corte di Giustizia.[51]

 

 

d) Art. 6:  Attuazione dell’art. 117, 5° e 9° comma Cost. sull’attività internazionale delle regioni.

 

Tratta dell’eventuale applicazione del diritto internazionale a soggetti diversi dagli Stati, che è una delle attuali frontiere con la quale deve confrontarsi la Comunità internazionale, frutto dell’inarrestabile processo di globalizzazione visto sotto i vari aspetti, sia politici o economici che sociali.

Il fenomeno in questione è infatti correlato ai grandi soggetti transnazionali non pubblici, quali le imprese multinazionali, le grandi Corporations, le organizzazioni non governative e le “reti” che le collegano.

L’ultimo comma dell’art.117 Cost. riconosce alle regioni, nell’ambito della loro competenza e nelle forme disciplinate da leggi nazionali, la possibilità di stipulare accordi (che sono per natura sempre conclusi con Stati) e intese (termine con il quale si indicano tecnicamente gli atti sottoscritti con Enti territoriali interni ad altro Stato).

Lo Stato, a sua volta, ha competenza limitata alla legislazione di principio, esclusa quella regolamentare, nell’ambito dei rapporti internazionali delle regioni.

La Regione, almeno ad una prima lettura del testo, può provvedere alla stipula di accordi e intese propri, nel significato sopra precisato, e partecipa all’esecuzione di accordi sottoscritti dallo Stato purché risultino ratificati.  La partecipazione dell’ente locale è comunque diretta, cioè interviene senza una preventiva autorizzazione da parte del potere centrale.[52]

La funzione propria dell’art.117,1°comma è quella di una norma che completa il sistema delle competenze tra Stato e regioni, potrebbe però, operando su detto delicato sistema, alterare il rango gerarchico delle norme di attuazione dei Trattati nell’ordinamento italiano, con effetto sull’organizzazione interna delle fonti.

Ammettendo infatti che le regioni hanno competenza a stipulare i Trattati internazionali, questi dovrebbero vincolare anche il legislatore nazionale restringendone le competenze.

La sentenza della Corte Costituzionale 18/10/96 n. 343 ha sostenuto l’esclusiva soggettività internazionale dello Stato e quindi non consente il frazionamento o la pluralità di titolari nella conduzione della politica estera.

La formulazione dell’art.117, ultimo comma, non sembra lasciare dubbi, invece, sulla titolarità delle regioni ad assumere in proprio nome obblighi internazionali e sul fatto che abbia voluto spezzare quella funzione unitaria del treaty-making power, o TMP, che rappresentava sull’argomento il principio cardine prima della novella costituzionale, ripartendo tale funzione tra Stato e regioni.  Rimane però fermo il principio che la regione deve operare “nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato.”

Al potere centrale rimane comunque il compito di stabilire le “regole” che è e rimane una funzione essenziale.

Per capire meglio tale apparente dicotomia nella gestione del TMP, bisogna rifarsi all’esperienza della Comunità/Unione europea, che ha dimostrato la possibilità di concepire l’esistenza di più enti titolari del treaty-making power nell’ambito di un riparto di competenze tra ente centrale e quelli periferici.

Il modello adottato dal Titolo V° Cost. evidenzia la scomparsa di quei meccanismi che consentivano una interferenza dello Stato rispetto all’attività normativa delle regioni finalizzata ad assicurare un “interesse nazionale” distinto da quello delle singole regioni, mentre sembra prevalere la tesi che la normativa statale sia competente per stabilire i principi, quella regionale debba limitarsi ai dettagli.

Il sistema italiano, come emerge dalle norme in essere, è caratterizzato, in conclusione, da un criterio di separazione sul piano interno e da un tendenziale concorso Centro-Periferia su quello esterno.

Se non si riconosce l’esigenza di una “regia unica” dello Stato come si evince dall’ultima parte del 9° e ultimo comma dell’art.117 Cost., si avrebbe la conseguenza che un Ente (Regione), che dispone del potere di assumere obblighi internazionali, potrebbe non avere competenza sul piano interno; tutto questo non mette in dubbio l’autonomia delle regioni ma non preclude la necessità di coordinamento da parte di un Ente superiore quale è lo Stato.

In una futura Unione europea federale tale compito di direzione potrebbe essere assunto direttamente dalle Istituzioni comunitarie a condizione della scomparsa progressiva oppure di un drastico ridimensionamento della figura e funzione dello Stato nazionale, nato almeno cinquecento anni fa’; tutto ciò di per sé non rappresenterà né un bene né un male purché l’Europa divenga veramente un Ente a sé pur nella sua obbligata complessità istituzionale.[53]

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Capitolo  VIII°   LE REGIONI ITALIANE NELLA PROSPETTIVA DELLA COSTITUZIONE EUROPEA

 

 

a) Nuovo ruolo e nuova governance delle regioni

 

 

1) La Convenzione europea, che ha predisposto la bozza della futura Costituzione, non sempre ha dato il massimo risalto al ruolo delle regioni nella U.E., specie in funzione della versione a 25 Paesi membri assunta dal 1° maggio 2004.

Rimane il problema della eterogeneità del concetto di regione nei vari Stati nazionali, ostacolo serio, nel breve-medio periodo, ma non insormontabile negli anni a venire, accentuato però ancora dalla diffusa considerazione che la questione sia considerata solo interna ai paesi membri, mentre appare sempre più di carattere ultra nazionale.  La futura Europa, infatti, non potrà che essere costruita su tre livelli, che coesistono e si coordinano tra loro, cioè l’Unione,  gli Stati e le Regioni.

Finora si è data prevalenza alla dicotomia Unione-Stati quando lo stesso Libro Bianco sulla Governance, pubblicato dalla Commissione europea nell’agosto 2001, aveva riconosciuto la necessità di una più stretta interazione tra i livelli di governo comunitario.

Lo stesso principio di sussidiarietà, che potrebbe dare un contributo consistente all’equilibrio generale del sistema, è stato sino ad ora inteso con riferimento al rapporto Comunità-Stati, mentre non è in grado di risolvere, per mancanza di una normativa specifica, i conflitti per violazione delle regole sulla competenza tra la stessa Comunità e le Regioni le quali dovrebbero avere un preciso potere per adire, in tali evenienze, la Corte di Giustizia europea.

Lo stesso Comitato delle Regioni, istituito dal Trattato di Maastricht, ha solo funzioni consultive: formula pareri su richiesta delle tre Istituzioni comunitarie o motu proprio, se lo ritiene utile.

Le richieste del citato Comitato, invece, riguardano alcuni temi di attualità quali: il riconoscimento dello status di Istituzione, la legittimazione attiva davanti alla Corte di giustizia, il diritto di veto solo sospensivo in alcuni casi di consultazione obbligatoria e, soprattutto, al di là dei tecnicismi formali facilmente aggirabili dalla pratica, una partecipazione proattiva alle procedure di codecisione presenti nell’ambito dell’apparato organizzativo-direttivo della U.E.

Gli stessi Statuti regionali, che nella versione aggiornata al Tit.V° della Costituzione hanno assunto o assumeranno sempre più in futuro non solo il carattere costitutivo loro proprio, ma anche quello di guidare le regioni verso nuove sfide che deriveranno da una Unione europea, da una parte allargata sotto il profilo dei partners, dall’altro tendente ad una centralizzazione dei poteri politici, non potranno certo da soli avere la capacità di influire sul sistema decisionale complessivo europeo. Potrebbero però rappresentare non solo un segnale di volontà ma un preciso impegno delle regioni italiane ad interagire al riguardo, nonché la base per poter avanzare opportune rivendicazioni sul loro diritto ad essere visibili e operative sulle materie di proprio interesse.

Il ruolo delle regioni nella futura Europa è cruciale affinché la stessa possa evolversi verso forme di democrazia sostanziale e riuscire a mostrare un dinamismo la cui mancanza è sempre stata rimproverata alla “burocrazia” di Bruxelles.

Tale nuovo ruolo degli enti locali è una applicazione pratica del “principio di prossimità”, enunciato sin dal Trattato  sull’Unione Europea del 1994, in base al quale le decisioni devono essere prese il più possibile vicino ai cittadini; in tal modo il principio stesso risulterebbe riempito  di contenuto effettivo uscendo dalla enunciazione di carattere generale, tipica di ogni tipologia di trattato, specie a forma costituente, che rimane spesso una bella cornice in attesa però di un quadro.

Quanto sopra deve prescindere, a giudizio degli operatori regionali, dalla portata certamente innovativa dell’art. 117, ultimo comma della Costituzione, sul “potere estero” riconosciuto alle regioni che ha uno scopo diverso.

Non si tratta infatti, nel caso di specie, di ribadire un “treaty making power” nei rapporti con altri Stati, peraltro già riconosciuto, ma di un modo nuovo, rivoluzionario (in senso copernicano) di intendere il movimento, incontro-contrapposizione, di tutti i soggetti politici europei ognuno con la propria unicità ma in particolare con la loro capacità innovativa e costruttiva in grado di creare sempre più articolati ma efficienti equilibri.[54]

 

2) La riforma del Tit. V° Cost. comporta la ridefinizione del “posto” delle regioni rispetto alla U.E. e la definitiva costituzionalizzazione del ruolo e del peso del legislatore regionale nel recepimento degli atti normativi comunitari.

Il tenore dei commi 1, 3 e 5 dell’art.117 della Costituzione rende superata la separazione tradizionale tra Ordinamento interno e quello europeo, che ha inspirato in passato il legislatore nazionale, ma anche buona parte della dottrina suggerisce di procedere in una logica di “integrazione” tra i vari Ordinamenti, pur nella loro necessaria, distinta esistenza e dialettica.

Le innovazioni introdotte nel Tit.V° hanno l’effetto di stabilire, per “Costituzione” che, rispetto alle fonti comunitarie, le leggi ed i legislatori regionali sono parificati a quelli statali.

La fonte normativa nazionale ha perso il suo “potere” di intervento generale e insindacabile su ogni materia, al contrario tende ad assumere una posizione di parità gerarchica con la produzione legislativa regionale nei limiti, però, e secondo i vincoli stabiliti dall’art. 117, 1° comma Cost.

Tutto questo non è messo in discussione dalla c.d. “competenza concorrente” ex art.117, 3°comma, anzi è espressamente stabilito che nelle materie che rientrano in tale competenza, la potestà legislativa spetta alle regioni, fatta salva la determinazione dei principi fondamentali.

Stesso impianto ha il 5° comma, dell’articolo in esame, concernente la partecipazione regionale alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari, anche in tal caso nel rispetto delle norme di procedura stabilite dallo Stato.

Il sistema italiano può definirsi un “ordinamento a regionalismo legislativo” come sostenuto da una dottrina.[55]

Ai fini di ricercare una definizione di “Governance” non influenzata da considerazioni localistiche, si può citare il rapporto Onu del 1995: “Our Global Neighbourhood” presentato dalla Commissione sulla Governance globale:

Governance is the sum of many ways individuals and institutions, public and private, manage their common affairs. It is a continuing process through which conflicting or diverse interests may be taken. It includes formal institutions and regimes empowered to enforce compliance, as well as informal arrangements that people and institutions either have agreed to or perceive to be in their interest.

Autorevole dottrina ritiene che il “sistema normativo italiano” è ormai “esploso” in una pluralità di soggetti articolati e policentrici perché ciò è apparso il rimedio necessario alla crisi di trasformazione del nostro Ordinamento costituzionale. Questo determina a sua volta la necessità di ridisegnare l’architettura delle forme tradizionali delle nostre istituzioni democratiche e degli strumenti che sinora hanno assicurato la governabilità del nostro Paese.

Senza lo sviluppo di forti e innovativi momenti di “governance”, il sistema italiano è destinato a chiudersi in una crisi di funzionalità che potrebbe minare nel tempo il suo stesso funzionamento democratico.[56]

Il Consiglio europeo di Laeken del 15/12/2001, a fronte di una situazione europea caratterizzata da un’effervescenza di progetti e di disposizioni, sembra suggerire una pausa di riflessione o comunque passi più meditati e coordinati.

Nei suoi lavori si trova infatti un accenno/riconoscimento al ruolo delle regioni nella parte che tratta la ripartizione delle competenze.  Le regioni, però, vengono citate dopo gli Stati membri quando si tratta di decentralizzare quei poteri dell’Unione europea che non comportino interferenze nella competenza esclusiva di altre autorità.

Si possono rilevare anche segnali incoraggianti, seppur deboli, a favore di una presenza regionale: il Consiglio di Laeken ha infatti invitato il Comitato delle Regioni a presenziare in veste di “osservatore attivo” i lavori della Convenzione incaricata di elaborare le riforme istituzionali.

Il Consiglio ha inoltre proposto la costituzione della categoria delle “Regioni partner dell’Unione”, dotate di uno Statuto particolare, al fine di consentire la loro partecipazione a carattere consultivo alla formazione degli atti normativi comunitari, l’accesso diretto alla Corte di Giustizia per questioni di competenza e la rappresentanza integrale nel C.d.R., creando però una discriminazione rispetto alle altre regioni non dotate dei particolari requisiti riconosciuti alle prime, legati soprattutto al potere legislativo autonomo di tali enti, non così presente nelle ripartizioni amministrative dei vari Stati membri.

La proposta è rimasta allo stadio embrionale e non ha incontrato finora facili entusiasmi.  Come osservato dalla dottrina, almeno quella italiana, l’idea delle “Regioni partner” si muove in direzione opposta a quella un tempo prevalente, specie nel decennio 1985/1995 della “Europa delle regioni”, anche se tale concetto è più antico e risale a Jean Monet, quindi non incide in senso modificativo, come auspicato dai rappresentanti regionali, sul principio di un’Unione europea costituita da Stati che dispongono autonomamente circa la loro articolazione interna.[57]

L’Italia, in ogni caso, sul collegamento Regioni-U.E. è andata avanti in via autonoma proprio alla fine degli anni ‘90. Si ricordano le leggi n.52/96 e n.128/98 e il DPR 271/98 che prevedono varie forme di presenza degli enti locali sulla scena comunitaria tra le quali l’apertura di Uffici di collegamento che hanno il compito di svolgere attività preparatorie di studio e di informazione, quindi non di partecipazione, alle decisioni comunitarie ma che possono avere anche ricadute positive sugli ordinamenti regionali.

Le regioni hanno inoltre la possibilità di designare propri esperti nella rappresentanza ufficiale dell’Italia presso l’Unione, si tratta di partecipazione indiretta in quanto facente comunque capo allo Stato nel suo complesso.[58]

La strada da percorrere per una “Europa organica” è indubbiamente ancora lunga ed è opportuno non lasciarsi trascinare da facili entusiasmi, si è di fronte alla costruzione di una “Entità” che dovrà comunque confrontarsi con i tempi e le modalità transattive della politica.

Va segnalata, per completezza, pur non formando oggetto della presente trattazione, anche una partecipazione regionale alla formazione del diritto dell’Unione Europea.

Le forme di collaborazione, secondo l’opinione dottrinale più diffusa, possono essere di natura procedimentale oppure organica.[59]

Nella prima gli organi di ciascuna regione, consultati dal Governo, possono evidenziare gli interessi delle singole comunità territoriali ma con scarso peso politico-istituzionale.

La seconda, organica, favorisce una vera negoziazione tra autorità statale e le rappresentanze regionali nel presupposto che queste, riuscendo ad operare congiuntamente, riescano ad indirizzare la posizione del Governo in ambito europeo.

Da un’iniziale preferenza per il modello delle “consultazioni separate” si è passati a quello “organico” con l’istituzione della “Conferenza dei Presidenti delle Regioni” e poi di un collegio misto incardinato presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri offerto dalla “Conferenza Stato-Regioni” che ha trovato fondamento legislativo con la L.n.400/88. L’art. 8 della Legge La Pergola n.86/89 ha poi previsto una “sessione comunitaria”, come già precisato, nei lavori del collegio con cadenza semestrale.

L’art.5, 2°comma del DPR n.281/97 ha infine introdotto il potere di designare i componenti regionali in seno alla rappresentanza permanente italiana presso l’U.E.

Anche in tal caso la Conferenza di cui sopra, tradendo un po’ le speranze iniziali, ha finito per diventare una cassa di risonanza delle decisioni del Governo piuttosto che un organo diretto a canalizzare le istanze elaborate a livello regionale; d’altra parte essendo costituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri la sua autonomia di giudizio non può che essere influenzata da tale situazione.[60]

Il Parlamento europeo, a sua volta, che a fatica sta cercando un suo spazio più caratterizzato, in termini di funzioni e di poteri, vorrebbe contare sempre più sul processo decisionale della U.E., forte del fatto che è un organo eletto ormai a suffragio universale.

Non essendo riuscito sinora ad avere un ruolo paritetico e attivo con le altre Istituzioni comunitarie, ha rivolto una particolare attenzione verso i poteri locali che non può prescindere da una posizione di legittimazione degli stessi data la sua natura e composizione. Sta prestando infatti interesse verso gli Uffici Regionali di Collegamento (URC), istituiti dalle regioni italiane ex L.n.52/1996, visti non come appendici esecutive delle amministrazioni locali ma come veri canali di accesso ai centri di elaborazione delle politiche europee.

Per le altre Istituzioni comunitarie tali Uffici rappresentano, comunque, dei “sensori” insostituibili per captare gli umori delle realtà territoriali ed ottenere, perciò, una percezione non mediata e soprattutto non distorta dell’impatto sulla base delle varie politiche decise a Bruxelles.[61]

 


b) Regioni e Unione europea nel nuovo assetto costituzionale

 

La legittimazione all’esistenza politica delle regioni si può individuare nell’art.114, 1°comma Cost. che afferma testualmente: “La Repubblica è costituita dai comuni , dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato”.

Risulta ampliato il ruolo strategico e centrale del Consiglio regionale al quale sono riconosciute competenze su materie che coinvolgono il rapporto autorità-libertà e la tutela dei diritti sociali.

Va ricordato sull’argomento il disposto dell’art. 117, 1°c. Cost.: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’Ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.”

Appare pertanto come un rapporto organico quello instaurato tra regioni e U.E., almeno nelle enunciazioni di principio, in attesa del consolidamento della pratica operativa, che è la parte più difficile da realizzarsi.

Parte della dottrina, infatti, [62] sostiene che dove nulla è previsto nella Costituzione italiana, il limite che la legge regionale incontra nella sua applicazione o, al contrario, il riconoscimento della sua forza cogente, sono dati dall’azione politico-legislativa posta in essere dalle regioni stesse che, a sua volta, trova origine nel diritto comunitario e in quello internazionale, senza una necessaria e, soprattutto, inderogabile mediazione statale.

L’art. 117, 3°comma, Cost. attribuisce alle regioni una potestà legislativa concorrente in merito ai rapporti con la U.E., con la conseguenza, confermata dal successivo 5° comma che, nelle materie di propria competenza, le regioni partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti comunitari, alla loro attuazione nel rispetto, però, del dettato costituzionale, delle norme di procedura stabilite dalle leggi nazionali che disciplinano le modalità di esercizio del potere sostitutivo dello Stato in caso di inadempienza delle regioni.

La dottrina, su questi aspetti, peraltro molto rilevanti, deve trovare ancora un indirizzo preciso e attendere una giurisprudenza di sostegno e coerente con le sue posizioni al fine di essere in grado di esprimere indirizzi a conforto di una posizione di rilievo degli enti locali in tale contesto.

Un ruolo attivo può svolgerlo in proposito, sempre secondo una parte della dottrina, la Conferenza Stato-regioni, in particolare la sua “sessione comunitaria”, prevista e disciplinata dall’art. 10 della legge “La Pergola” n.86/89 nella versione in vigore con gli aggiornamenti successivi.

La funzione della Conferenza, che in una fase di crescita dei vari protagonisti della costruzione europea, è da tenere in particolare conto, è quella di evitare azioni lobbistiche delle regioni più forti, che sono espressione di efficienti convergenze politico economiche, rispetto a quelle regioni più deboli su tale terreno, anche se l’esistenza di soggetti, in particolare le regioni del nord, con “poteri trainanti”, sempre in dette fasi iniziali, può rilevarsi insostituibile per infrangere burocrazie centralistiche consolidate.

Si può affermare che il rafforzamento delle regioni nell’Unione europea assumerà una valenza positiva se contribuirà ad una crescita economica equilibrata, nel senso di favorire uno sviluppo e una valorizzazione delle peculiarità locali in sintonia con i principi di eguaglianza e solidarietà.

Al contrario, il nuovo ruolo delle regioni in ambito comunitario può contribuire ad accentuare le differenziazioni territoriali incidendo negativamente sui principi della coesione economica e sociale.

La legittima valorizzazione del ruolo delle regioni, in ambito europeo, dovrà muoversi nel rispetto dei valori fondanti dell’Unione e della futura Costituzione europea, quali lo sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, la solidarietà, l’elevato livello dell’occupazione, la protezione dell’ambiente e della salute, un diffuso livello di istruzione pubblica.[63]

 

 

 

 

c) Ruolo dei Parlamenti regionali

 

La Conferenza Intergovernativa o Cig, del 2003/2004 proposta dalla Convenzione europea (Assemblea composta dai rappresentanti dei Parlamenti nazionali  ed europei, dei Governi nazionali, della Commissione europea e del C.d.R.) dovrà decidere le riforme per far funzionare l’U.E. dopo il suo allargamento.

Emerge quello che la dottrina e anche la politica, ormai definiscono lo “spazio giuridico europeo”, cioè l’ambiente nel quale dovranno necessariamente coesistere, in una funzione attiva di reciproca interazione, le potestà di produzione legislativa comunitarie, statali e regionali.

L’Unione, di converso sempre più estesa, dovrà restringere il proprio intervento a determinati obiettivi principali e introdurre nei vari Trattati costitutivi una gerarchia degli atti comunitari che dia certezze sia nella fase di elaborazione che in quella di esecuzione degli stessi.

In questo contesto appare urgente conferire un ruolo rilevante, non solo ai Parlamenti nazionali sempre più schiacciati, nella tendenza degli ultimi anni comune un po’ a tutti gli Stati dell’Europa occidentale, dai rispettivi Esecutivi, ma anche a quella dei Parlamenti regionali.

Per la precisione, tenuto conto delle Sentenze della Corte Costituzionale nn. 106 e 306 del 2002, il Consiglio regionale non può fregiarsi dell’appellativo di Parlamento, termine però che, per motivi di correntezza, per l’uso riscontrato in parte della dottrina e per un più immediato confronto con quello nazionale, potrà essere usato in seguito alternativamente con quello più corretto di Consiglio.

Quanto sopra enunciato si potrà ottenere attraverso una chiara procedura di consultazione dei citati Parlamenti regionali nelle materie di loro interesse specifico, istituzionalizzando, almeno per quanto riguarda quelli italiani, i loro contatti con il Parlamento europeo e il Comitato delle regioni.[64]

Sussiste ancora un deficit democratico nella lenta costruzione dell’Europa unita, che si sta svolgendo in modo non sempre lineare e per linee programmatiche.  I Parlamenti nazionali, per primi, possono colmare tale deficit attraverso un rafforzamento, anche a livello dei singoli Stati membri, del loro ruolo legislativo, data la loro funzione originaria, ma estendendo la loro influenza nel settore delicato e importantissimo per ogni democrazia, dei controlli dei poteri pubblici e delle garanzie dei cittadini.

La natura ibrida e, quindi, un po’ debole del Comitato delle Regioni, a causa della diversificata natura di tali enti nei paesi europei, è un problema che dovrebbe trovare un’urgente soluzione per ottenere un proficuo interscambio politico delle varie realtà locali sulle quali costruire una solida Europa unita.

I Parlamenti regionali, per loro natura, esistono e agiscono dove le regioni hanno conquistato forme di autonomia e potestà legislativa e saranno la pietra angolare sulla quale costruire e sostenere i progetti ambiziosi di progressiva democratizzazione che emergono dal Trattato costituzionale europeo presentato nel 2003.

Il ruolo dei Parlamenti regionali può estrinsecarsi su varie direttrici.  Una è quella di rappresentare un supporto per la collaborazione interattiva tra le omonime Istituzioni europee e quelle dei vari Stati; una seconda, molto più rilevante, è quella offerta dal coinvolgimento necessario, in senso generale, e utile nelle tante questioni particolari che formano l’unità dell’opinione pubblica europea nei dibattiti e nei lavori delle Istituzioni europee.

I popoli che costituiscono il nostro continente sono affetti un po’ tutti da un sotterraneo senso di isolamento che presenta in genere due aspetti, come insegna la nostra storia: paura del futuro e, nel contempo, rifugio sicuro e antidoto della paura stessa che però è anche un virus il quale, se non debellato, impedirà una crescita sana dell’Europa.

Appare essenziale, quindi, il già indicato coinvolgimento dei Parlamenti regionali nell’attività di quelli nazionali e di quello dell’Unione nel controllo (funzione propria) del rispetto delle politiche comunitarie e di calmieramento e contrasto costruttivo dell’azione dei Governi nazionali e dell’Esecutivo europeo.

Solo assemblee elette dal “popolo europeo” nei vari stadi regionale, statale e comunitario, potranno assicurare una democraticità delle decisioni che il potere esecutivo a sua volta potrà prima proporre e poi far proprie nella forma definitivamente deliberata e, infine applicare, sanzionandone l’eventuale mancato rispetto delle decisioni superiori.

Pensare a semplificazioni del processo decisionale-impositivo che assumano le caratteristiche di una scorciatoia, sull’onda emotiva di soddisfare una comprensibile esigenza di snellezza operativa, potrebbero condurre l’Europa molto indietro nella sua storia e far dimenticare il ruolo insostituibile, per la crescita democratica del nostro Continente, dei Parlamenti ai quali ora sembra quasi scontato attribuire ogni colpa per i ritardi e per la burocratizzazione del sistema politico.[65]

A supporto delle considerazioni svolte in materia, si cita sinteticamente e in modo riassuntivo, un contributo datato 14/5/2002 dell’Assemblea delle Regioni d’Europa preparato in occasione della consultazione presso la Convenzione europea che ha predisposto il testo del Trattato costituzionale.

Tali valutazioni sembrano quasi lontane nel tempo, pur essendo così vicine, data l’accelerazione subita di recente dai dibattiti sui progetti sulla nuova Europa, ma appaiono comunque meritevoli di riflessione:

- L’Unione europea è incentrata sui suoi cittadini e potrà continuare ad esistere solo se profondamente radicata nelle regioni e nei comuni presenti negli Stati membri;

- le regioni rappresentano un elemento di equilibrio ideale tra l’unità e la molteplicità proprie dell’Europa;

- il principio di sussidiarietà in base al quale i compiti sono affidabili ad un livello superiore solo se quello inferiore non è in grado di assolverli, rappresenta un punto basilare sin dal Trattato di Maastricht che lo ha sancito;

- la bozza di Trattato costituzionale, oltre al rispetto dell’identità nazionale degli Stati membri e del loro ordinamento interno, dovrebbe includere la funzione delle regioni e delle amministrazioni locali che nel testo ora diffuso da sottoporre all’approvazione dei vari Partners, appare ridotta nella sua rilevanza;

- il Comitato delle Regioni dovrebbe essere trasformato in un organo con diritto di presentare interrogazioni e dovrebbe essere informato regolarmente dalla Commissione europea in modo che i suoi pareri possano essere espressi tempestivamente ed essere di conseguenza presi in considerazione;

- ultima solo in ordine di elencazione, si ribadisce la possibilità di creare circoscrizioni elettorali regionali, omogenee non solo nel numero ma anche e soprattutto nella composizione e nel sentire comune dei cittadini che ne faranno parte.[66]

 

 

d) Cenni sui caratteri dei nuovi Statuti regionali

 

I nuovi Statuti sono ora regolati dall’art.123 Cost. e determinano la forma di governo ed i principi fondamentali di organizzazione e di funzionamento della Regione.

Lo Statuto è approvato e modificato dal Consiglio regionale con legge approvata a maggioranza assoluta dei suoi componenti con due deliberazioni successive adottate ad intervallo non inferiore a due mesi.

Per tale legge non è richiesta l’apposizione del visto da parte del Commissario del governo come in passato.

Lo Statuto ha una funzione genetica e non solo un carattere contenutistico, è il custode dell’autonomia e dell’identità regionali ed è fonte primaria del relativo ordinamento giuridico locale.

La rinnovata potestà legislativa regionale è ormai svincolata dalle strettoie della sola legislazione concorrente mentre la nuova potestà regolamentare è sciolta dai penetranti controlli statali.

Il custode naturale della “rigidità” degli Statuti regionali era e rimane tuttora la Carta Costituzionale, perde terreno invece ogni influenza “statale” salvo il diritto del Governo ad impugnare tale atto entro 60 giorni dalla sua pubblicazione.

Il riconoscimento allo Statuto del ruolo autonomo di fonte di diritto regionale deriva dalla valutazione che lo stesso può esistere ed ha potere perché è in rapporto armonico con la Costituzione la quale da una parte detta regole per disciplinare la sua formazione, dall’altro lo riconosce nei suoi poteri; tutto ciò farà sì che il Governo nazionale si asterrà da interventi troppo stringenti e sindacatori riconoscendo di fatto, oltre che in diritto, la sua autonomia.

Per far sì che lo Statuto assuma la posizione di garante neutro ed autorevole dell’esercizio delle funzioni politiche e normative della regione e quindi, di una vera e propria Costituzione dell’Ente locale, in molti di essi, o almeno nelle bozze disponibili, vi è la previsione della creazione di un organo ad hoc al quale riconoscere varie funzioni. (v. Regione Lazio o altre)

Quest’organo o Collegio di garanzia, dovrebbe mantenere caratteri di terzietà rispetto ai vari centri decisionali della politica regionale, di conseguenza non solo tutelare in modo vigile il rispetto delle norme statutarie ma anche dirimere ogni eventuale contrasto nell’ambito dei vari “poteri” regionali.

E’ emersa la tendenza di limitare il numero dei membri del Collegio in modo da assicurare efficienza nonché speditezza nelle loro decisioni; tali membri dovrebbero avere almeno le prerogative dei Consiglieri regionali e la loro carica essere incompatibile con altri incarichi.

Tra le loro funzioni potrebbe essere prevista quella di controllo di legittimità statutaria delle fonti regionali con possibilità di “cassare” leggi e regolamenti emanati in contrasto con lo Statuto.

Quanto sopra indicato è de iure condendo, e non si può prevedere la possibile evoluzione di tale ipotesi di lavoro e soprattutto la tenuta nel tempo delle varie soluzioni una volta adottate.

Appare probabile che il principio dell’unità della giurisdizione costituzionale stabilito dalla Suprema Corte fin dal 1970, [67] continui a non tollerare eccezioni.  Di conseguenza l’eventuale Collegio di garanzia, una volta costituito, su tale ultima materia, dovrebbe limitarsi ad un controllo nella formazione della legge regionale, sempre anteriore alla sua pubblicazione, momento dal quale scattano i sistemi di garanzia generale previsti dal nostro Ordinamento.[68]

 

 

e) Lo Statuto della Regione Lazio deliberato nella seduta del 27/10/2003

 

La Regione esprime la sua autonomia attraverso l’esercizio della potestà legislativa, regolamentare e amministrativa, nonché nella determinazione della forma di governo (art.12)

Esercita la potestà legislativa in ogni materia non espressamente riservata alla legislazione esclusiva dello Stato, nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’Ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Nelle materie di legislazione concorrente, la potestà legislativa è esercitata anche nel rispetto dei principi fondamentali determinati dalla legge dello Stato (art.13).

Lo Statuto in poche e chiare parole riassume la posizione della regione verso gli Enti sopraordinati, lo Stato, ovviamente, ma elemento nuovo, e posto in rilievo, l’Ordinamento comunitario in modo che l’azione dell’Unione Europea non riguardi più soltanto gli Stati membri, nel caso particolare l’Italia, e gli obblighi internazionali, pur sempre nel rispetto della natura esclusiva o concorrente delle materie.

La potestà regolamentare si esprime invece là dove esista un campo di legislazione concorrente oppure esclusiva (in tal caso della regione), nonché, su delega dello Stato, nelle materie esclusive di quest’ultimo.  Viene sancito il rispetto dell’analoga potestà delle province e dei comuni sull’organizzazione e sullo svolgimento delle funzioni degli enti locali, (art.14).  Il rispetto sostanziale della propria autonomia che la regione ha conquistato verso lo Stato, viene trasfuso nei suoi rapporti con gli enti ad essa sottoordinati.

Le funzioni amministrative sono in genere attribuite ai comuni o salvo casi particolari alle province oppure restano riservate alla regione stessa quando prevale la necessità di un esercizio unitario per una tutela efficace degli interessi della collettività “in applicazione dei principi costituzionali di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza” indicati all’art.15.

Le funzioni amministrative esclusive dello Stato, quando sono espressamente conferite alla regione, sono dalla stessa esercitate in proprio in ossequio al principio che non si può delegare a sua volta ciò che è stato delegato in modo espresso e puntuale.

Viene in ogni caso favorito l’esercizio associato delle funzioni dei comuni, valorizzato il ruolo delle Camere di Commercio (C.I.A.A.), importantissimo collegamento tra i vari livelli funzionali anche europei come dalle stesse è stato evidenziato e riportato in altra parte della presente trattazione.

L’art.9 contiene una sintesi dei rapporti internazionali e con l’Unione europea che hanno formato oggetto nel corso degli anni di tanti studi della dottrina e di interventi giurisprudenziali che sono diventati finalmente una realtà codificata in uno Statuto.

La regione infatti conclude accordi con gli Stati e le intese con gli enti territoriali interni ad altro Stato (viene rispettata la differenziazione tra accordi e intese già evidenziata), ispirandosi ai principi di solidarietà e di collaborazione reciproca nei limiti stabiliti dalla Costituzione che si traducono in alcuni punti fermi.

La regione attua ed esegue, nelle materie di propria competenza, gli accordi internazionali conclusi dallo Stato; partecipa con propri rappresentanti agli organismi internazionali e della U.E. e collabora al processo di integrazione europeo promuovendo un ruolo sempre più attivo delle autonomie regionali; concorre altresì, insieme allo Stato e alle altre regioni alla formazione della normativa comunitaria dandone immediata attuazione realizzando a tal fine opportune forme di collegamento con i relativi organi legislativi.

La regione adegua il proprio ordinamento a quello comunitario, a tale scopo introduce lo strumento della legge comunitaria regionale per le materie di propria competenza come previsto all’art.10.

Partecipa altresì ai processi decisionali statali di interesse regionale nelle apposite sedi di concertazione e, soprattutto, stipula intese con le altre regioni con particolare riferimento ai “bacini territoriali” aventi caratteristiche omogenee, tipologia di azione, questa, che se troverà analoga risposta da parte degli altri enti, potrà risolvere dal basso, ma con la massima efficacia perché compresa dai cittadini, i problemi concreti del territorio sotto il profilo economico, ambientale ma anche della vita degli abitanti (in merito v.art 11).

Viene istituito un Comitato di garanzia statutaria, sulla cui necessità la dottrina prevalente si è già espressa in modo positivo, tra le cui funzioni si citano la pronuncia sulla conformità allo Statuto delle leggi regionali approvate dal Consiglio prima della sua promulgazione, oppure in ordine alla produzione dei ricorsi dinnanzi alla Corte Costituzionale per gli atti normativi statali o di altre regioni che si presume interferiscano con la competenza della Regione Lazio.

Altro elemento importante è dato dal fatto che il suddetto Comitato è il vero garante  e interprete dello Statuto, e pertanto si pronuncia sui conflitti di competenza tra i vari organi interessati.

Tali pronunce sono espresse dal Comitato su “richiesta del Presidente della regione o di quello del Consiglio regionale oppure di un terzo dei Consiglieri, nonché su richiesta del Presidente del Consiglio delle autonomie locali a seguito di deliberazione assunta a maggioranza dei suoi componenti” (art.63); quest’ultimo organo, ai sensi dell’art. 61, è istituito presso il Consiglio regionale e la sua funzione fondamentale è quella di essere l’organo rappresentativo degli enti locali e di consultazione ai fini della concertazione tra gli stessi e la regione. E’ composto di membri elettivi e di diritto, questi ultimi sono il Sindaco di Roma e i Presidenti delle Province.

 

Lo Statuto esaminato comprende il risultato di tutti i dibattiti politici, delle leggi, della dottrina in merito alla lenta ma progressiva emersione del ruolo delle regioni nell’Europa presente ormai allargata a 25 membri, ruolo delle regioni che si presume assumerà sempre più importanza per superare, si spera una volta per tutte, gli egoismi nazionali, naturali ma frequenti e spesso auto generantesi, affinché l’Europa non rimanga più solo un’idea o un organismo a carattere organizzativo di norme comuni ma finalmente una realtà per il nuovo, ancora futuro, ma prossimo “cittadino europeo”.


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INDICE

LE REGIONI ITALIANE E L’UNIONE EUROPEA

Capitolo I°:  PREMESSA STORICA.                         pag. 1

a) Scelta del 1861 di costituire uno Stato unitario.         pag. 1

b) Scelta della Costituzione del 1948.                           pag. 3

c) Regioni a Statuto ordinario e speciale.                     pag. 6

d) Natura della Costituzione italiana del 1948.               pag. 7

 

Capitolo II°: FASI DI EVOLUZIONE DI UNA POLITICA REGIONALE COMUNITARIA.                             pag. 11

a) Influenza dei Fondi Strutturali e il principio

    del Partenariato.                                                      pag 11

b) Prime forme di collaborazione tra regioni europee.                                                                                                 pag. 15

c) Emersione del regionalismo nell’esperienza

    comunitaria.                                                            pag. 18

d) Assemblea delle Regioni d’Europa.                         pag. 21

e) Il Comitato delle Regioni.                                        pag. 22

f) Progressivo passaggio dal sistema

  “government” a quello “governance.”                        pag. 28

g) Sintesi del progressivo riconoscimento delle

    autonomie territoriali nell’ambito della

    Comunità e dell’Unione europea.                             pag. 30

h) Principio di sussidiarietà in particolare.                    pag. 33

 

Capitolo III°: IL “POTERE ESTERO” DELLE REGIONI ITALIANE, SUA EVOLUZIONE STORICA, GIURISPRUDENZIALE E LEGISLATIVA.           pag. 38

a)Definizione generale.                                       pag. 38

b) Prima della riforma del Titolo V°.                            pag. 39

c) Prassi emergente e primi riconoscimenti

    legislativi e giurisprudenziali.                                    pag. 43

d) Primo riconoscimento giurisprudenziale del potere

    estero delle regioni: Sentenza della Corte Costitu-

    zionale n. 179 del 1987                                            pag. 48

e) DPR 24 luglio 1977 n.616.                                       pag. 55

f) Dal DPR n.616/77 alla L. n.86/1989

   “ La Pergola” - Evoluzione legislativa.                       pag. 58

  1) Ruolo delle Regioni.                                             pag. 58

  2) La Legge La Pergola.                                            pag. 61

g) Il potere estero delle regioni allo stato attuale. pag. 65

 

Capitolo  IV°  IL LIBRO BIANCO SULLA GOVERNANCE                                                                                   pag. 72

a) Esame del testo ufficiale pubblicato.                        pag. 72

  1) Cambiamenti proposti: maggiore partecipazione

       ed apertura.                                                         pag. 73

  2) Definizione ufficiale di Governance.                       pag. 75

  3) Una “Glasnost” per l’Europa.                               pag. 76

  4) Diritto comunitario.                                               pag. 78

b) Brevi note di dottrina sul Libro Bianco sulla

    Governance.                                                           pag. 80

 

Capitolo V°:  LOGICA DI ELABORAZIONE DELL’ATTUALE TITOLO V° DELLA COSTITUZIONE.                                                                                          pag. 87

a) Brevi note sui principi guida del nuovo

    Titolo V della Costituzione.                                     pag. 87

b) Competenza esclusiva dello Stato in materie

    enumerate.                                                              pag. 89

c) La competenza concorrente.                                   pag. 95

 

Capitolo   VI°    RIVISITAZIONE DEI PRINCIPI DEL TITOLO V° DELLA COSTITUZIONE: DDL BUTTIGLIONE DI MODIFICA DELLA LEGGE  “LA PERGOLA”n.86/1989.                                                                                       pag. 100

a) Riflessioni generali sul ruolo delle regioni.                pag. 100

b) Finalità della normativa.                                           pag. 102

c) La fase ascendente, partecipazione regionale

    alle decisioni comunitarie.                                        pag. 109

d) La fase discendente o dell’esecuzione delle

    disposizioni dell’Unione Europea.                           pag. 112

e) Cooperazione bilaterale tra regioni in Europa.  pag. 116

 

Capitolo  VII°  LE REGIONI ITALIANE E LA L. 5/6/2003 n.131, (La Loggia): DISPOSIZIONI PER L’ADEGUAMENTO DELL’ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA ALLA LEGGE COSTITUZIONALE 18/10/2001 N.3.                          pag. 121

a) Caratteri generali.                                                    pag. 121

 

 

 

Esame di alcuni articoli della Legge La Loggia.             pag. 125

b) Art.4: attuazione dell’art. 114, 2°comma Cost. e

    dell’art. 117, 6°comma Cost.in materia di potestà

     normativa degli enti locali.                             pag. 125

c) Art. 5: Attuazione dell’art. 117, 5° comma

    Cost. sulla partecipazione delle regioni in materia

    comunitaria.                                                            pag. 128

  1° comma.                                                               pag. 128

  2° comma: Impossibilità degli enti locali di adire

   direttamente la Corte di Giustizia europea.                 Pag. 131

d) Art. 6:  Attuazione dell’art. 117, 5° e 9° comma

    Cost. sull’attività internazionale delle regioni.            pag. 132

 

Capitolo  VIII°   LE REGIONI ITALIANE NELLA PROSPETTIVA DELLA COSTITUZIONE EUROPEA.          .                                                                                   pag. 137

a) Nuovo ruolo e nuova governance delle regioni.         pag. 137

b) Regioni e Unione europea nel nuovo assetto

    costituzionale.                                                         pag. 148

c) Ruolo dei Parlamenti regionali.                                pag. 151

d) Cenni sui caratteri dei nuovi Statuti regionali.  pag. 156

e) Lo Statuto della Regione Lazio deliberato nella

seduta del 27/10/2003.                                                 pag. 159

 

 

BIBLIOGRAFIA                                               pagg. A,B,C,D.

 



[1] Z.Ciuffoletti, Il nodo del federalismo in Le Regioni 2001,4-6, p.1197

[2] D.Novacco, L’officina della Costituzione Italiana- Feltrinelli UE aprile 2000 p.103

[3] D.Novacco, L’officina della Costituzione, op.cit.

[4] M.Caciagli, Regioni d’Europa, Il Mulino UPB 2003, in nota 2 a cura dell’autore, pagg. 41/42.

[5] Sull’origine e i poteri delle regioni italiane vedi:

  G.Falcon, “La cittadinanza europea”- in Le Regioni 2001p.327

  A.D’Atena, “Il doppio intreccio federale: Le regioni dell’Unione Europea” in Le Regioni 1998 p.1401

  G.Sirianni, “La partecipazione delle regioni alle scelte comunitarie”- Quaderni Luiss G.Carli/Centro V.Bachelet n.9- Giuffré 1997

[6] F.Pizzetti, in Le Regioni 2003, 4 p. 599

[7]. G.Sirianni, “la Partecipazione delle regioni” op.cit.

.[8] M.Caciagli, Le regioni d’Europa op.cit.

.[9] M.Caciagli, Le regioni d’Europa, pp.73/75, op.cit.

[10] M.Caciagli, Le regioni d’Europa, p.111, op.cit.

[11] F.Marcelli, Le Regioni nell’Ordinamento europeo e internazionale, Giuffrè 1998, pp.46 e seg.

[12] F.Marcelli, in Le Regioni, p.68 op.cit.

[13] A. Rinella , Il principio di sussidiarietà: definizioni, comparazioni e modello di analisi, Cedam 1999, p.8.

[14] A.Rinella, Il principio di sussidiarietà, p.3,op.cit.

[15] A. Di Stefano, In “Politica comunitaria di coesione economica e sociale” a cura di Rosario Sapienza, edizioni Giuffré 2003

[16] F.Palermo, in Riv. Istituzioni del federalismo, 2002 n.2, pp 709 e 713

[17] Sentenze della Corte Costituzionale n.179/1987 e n. 829/1988

[18] F.Palermo, Il potere estero delle regioni, Cedam 1999, pp.58 e 60.

[19] F.Palermo, Il potere estero, op.cit., p.60

[20] C.Morviducci, Le attività di rilievo internazionale delle regioni e l’interpretazione governativa del DPR 616/77, in Le Regioni 1980 p.983

[21] M.Pedetta, Le attività delle regioni all’estero nella giurisprudenza più recente della Corte Costituzionale, in Giurisp. costit.1993, p.2993 e C. de Fiores, Riserva allo Stato dei rapporti internazionali e ruolo delle regioni- Le nuove prospettive del potere estero, Sent. C.Cost. 18/10/96 n.343, in Giurisp. Costit. 1996 p.3010

[22] Nota a Sentenza n.26/94 di F.Dimora, Conflitti di attribuzione in materia di attività “promozionali” all’estero degli enti locali ed eventualità di un controllo di ragionevolezza, in Le Regioni 1995, pp. 135 e 138.

[23] Sent. C.Cost. 24/11/1992 n. 472- Attività di mero rilievo internazionale, promozionale e di rilievo comunitario- Reg. Umbria. in Le Regioni 1993 p.1321.

[24] Sent. C.Cost. 29/4/1993 n.204 e commento di P.Caretti: Verso un superamento della distinzione tra attività promozionali all’estero e attività di mero rilievo internazionale delle regioni in applicazione del principio di leale collaborazione, in Giurisprudenza Costituzionale 1993 pp. 1386 e 1394.

[25] C. Morviducci, Attività di rilievo internazionale. op.cit. in Le Regioni, 1980 p.983.

[26] E.Gizzi, La collaborazione interregionale e l’integrazione europea, in Quaderni Regionali 1987 p.979.

[27] S. Mangiameli, La Riforma del regionalismo italiano, Giappichelli 2002, p.113.

[28] J.Woelk, Finalità e contenuti generali del Libro Bianco- v.www.provincia.tn.it.europa/cde/pdf/qcde_17.pdf

[29] A.Santini, I processi decisionali e il ruolo delle regioni nella Governance europea- v. indirizzo nota 41.

[30] S.Gozi, membro del Gabinetto Prodi- v. http://www.euro-pa.it/atti 2003/saba/relazioni/gozi.htm

[31] Proposta a firma del Presidente Unioncamere della Toscana, P.Pacini, presentata a Firenze l’11/3/2002.

[32] R.Bifulco, Le Regioni, Il Mulino 2003 pp. 26 e ss.

[33] Di tale seconda interpretazione fa menzione S.Mangiameli, La riforma del regionalismo pp.114 e 115,op.cit. 

[34] Di tale seconda interpretazione fa menzione S.Mangiameli, Riforma del regionalismo pp.114 e 115, op.cit.

[35] S.Mangiameli, La riforma del regionalismo p.137 op.cit.

[36] S.Mangiameli, La riforma del regionalismo p. 139 op. cit.

[37] S.Mangiameli, La riforma del regionalismo p. 142 op. cit.

[38] Argomento trattato ampiamente da S.Mangiameli, La riforma del regionalismo pagine 158/166 op.cit.

[39] R.Buttiglione, Tra Rousseau e Locke, una scelta filosofica per la costruzione europea e quella italiana, in Riv. Parlamenti Regionali 2002, n.4. p.21

[40] G.Fantozzi, Consiglio regionale Emilia Romagna- Osservatorio legislativo interregionale Bologna 10 e 11 aprile 2003

[41] C.De Simone, AIC del 25/7/2003, sito: http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/cronache/file/leggebuttiglione.html

[42] Documento approvato il 13/11/2003 dal CIACE- v.http://www.regioni.it/fascicoli_conferen/Presidenti/2003/

novembre/13_11_2003/italia_ol.

[43] P.Gambale, Prima lettura del Parlamento per le modifiche alla L.La Pergola in Riv. elettronica Amministrazione in cammino,Luiss G.Carli,Centro V.Bachelet.

[44] T.Groppi e M.Olivetti in la Repubblica delle autonomie, Giappichelli 2003, p.135.

[45] C. De Simone, intervento all’AIC del 25/7/2003, p.4, op.cit.

[46] S.Paternò del Toscano, Internazionalizzazione in Italia, il nuovo ruolo delle regioni.-in Amministrazione in cammino, 2003, Rivista citata.

[47] A.Sandulli, Introduzione a: Il nuovo Ordinamento della Repubblica,L.5/6/03 n.131,Giuffré 2003

[48] F.G.Pizzetti, Il Nuovo Ordinamento della Repubblica, commento p.13, op.cit.

[49] M.D’Amico, Il regionalismo italiano alla luce della riforma del Tit.V° della Costituzione. Convegno di Como del 22/11/2002- v.sito http://www.giurisprudenza.uninsubria_it/convegno 22-23.11.2002/D’Amico.htm

[50] V.Italia, Il nuovo ordinamento della Repubblica, op. cit. pp.231 e ss.

[51] A.Marzanati, Il Nuovo Ordinamento della Repubblica op.cit.

[52] F.G.Pizzetti, Il Nuovo Ordinamento della Repubblica op.cit.

[53] G.Cannizzaro, Gli effetti degli obblighi internazionali e le competenze estere di Stato e regioni-AIC Genova 23/3/2002- v.sito:http://associazionedeicostituzionalisti.it/materiali

/convegni/genova020323/cannizzaro

[54] M.Mancini, Le Regioni italiane nella prospettiva della Costituzione Europea-Convegno di Alghero del 4,5/10/2002-v.sito http://consiglio.regione.emilia-romagna.it/europa/MonitorEuropa/2003/Monitor 1/Regioni/Convegno_IAL_regioni_italiane_nella_costituzione_europea.pdf

[55] F.Pizzetti, “Governance” in Riv. di Studi parlamentari e di politica costituzionale, n.134, 4° trimestre 2001.

[56] F.Pizzetti, “Governance” op.cit.

[57] A.Anzon, Esperienza italiana in: L’Europa delle autonomie, le Regioni e la U.E. a cura di A.D’Atena-Giuffré 2003 pp.152,153.

[58] L’Europa delle autonomie,op.cit., A.Anzon p.155.

[59] A.D’Atena, Tra decentramento regionale e integrazione sovranazionale, in Giurisp.Costituz. 1985,I pp.789 e ss.

[60] F.S.Marini, La partecipazione regionale alla formazione del diritto della U.E., in L’Europa delle Autonomie, Giuffrè 2003, pp157 e ss., op.cit.

[61] L.Domenichelli, Le Regioni nel dibattito sull’avvenire dell’Europa in Riv. Le Regioni 2002 n. 6 pp.1239 e ss.

[62] T.Groppi, La Repubblica delle autonomie,Giappichelli 2003,op.cit.

[63] A.Lucarelli, Conclusioni al Convegno AIC 2003 su: Regioni e U.E. nel nuovo assetto costituzionale in sito http://www.associazionedeicostituzionalisti.it.materiali/convegni/200330410_/lucarelli.htm

[64] R.Nencini, in Riv. Parlamenti Regionali 2003-Quadrante Internazionale/1.

[65] L.Fedele, in Riv. Parlamenti Regionali 2003-Quadrante Intern/3.

[66] Contributo dell’Assemblea delle Regioni d’Europa in vista della consultazione presso la Convenzione europea datato 14/5/2002- v.sito secretariat-@-are-regions-europe.org.

[67] Sent. C.Cost. n.6/70 in Giurisprudenza Costituzionale 1970 pp.59 e ss.

[68] T.Groppi, Quale garante per lo Statuto regionale, in Le Regioni 2000 n.5 p.841. vedi anche L.Panzeri, intervento al Convegno di Como del 22/11/2002 su “Gli Organi di garanzia nei primi progetti statutari- v.sito

http://www.giurisprudenza uninsubria.it/convegno 22-23.11.2002/LinoPanzeri.htm