La politica comune dei trasporti: il punto della situazione
di Dorotea
Scicolone, Dottore di ricerca in
Diritto Amministrativo presso l’Università degli Studi Roma TRE nonché
Tecnologo presso Ente di ricerca.
Sommario: 1) Premessa: la politica dei trasporti nel
diritto comunitario - 2) La politica comune dei trasporti nel Trattato di Roma
- 3) L’avvio della politica comune dei trasporti - 4) Le indicazioni
dell’Unione Europea contenute nei principali Libri Bianchi e Libri Verdi della
Commissione.
1.Premessa: la politica dei trasporti
nel diritto comunitario
L’approccio alla comprensione delle vicende e delle ragioni che,
da poco più di un decennio, hanno imposto il settore dei trasporti, ed in
specie quelli su rotaia, all’attenzione del legislatore nazionale, portandolo
con irruenza all’ordine del giorno nel dibattito socio - politico ed economico
del nostro Paese, non può prescindere dall’analisi dello scenario comunitario
di riferimento che costituisce un fattore di centralità sia sotto il profilo
giuridico - normativo, nonché soprattutto agli effetti dell’esigenza, ancorché
oggi forse non appieno sentita, di integrazione reale delle attività, dei
servizi e, quindi, del modello di vita nell’ambito dell’Unione Europea.
Ed invero, la Comunità Europea, sin dalla sua nascita, ha
intuitivamente percepito e riportato ai propri fini istituzionali la
essenzialità del trasporto, ed in specie quello su rotaia, già da ogni singolo
Paese sviluppato in funzione delle esigenze di mobilità dei cittadini e delle
merci, con attenzione comunque prioritaria ai fattori strategici di difesa dei
confini nazionali, che ne hanno peraltro condizionato e configurato a propria
misura lo sviluppo.
In tal senso, la Comunità dapprima, e l’Unione Europea oggi,
hanno concepito la politica dei trasporti in un duplice senso, come fine in se
stesso da perseguire, ma anche come strumento primario per realizzare lo scopo
ultimo dell’Unione, ovvero quello di creare uno spazio sovranazionale integrato
ove possano trovare piena e reale attuazione le libertà su cui si fonda
l’Unione medesima[1].
Il settore dei trasporti assumeva, quindi, ed assume oggi, nel
corpo dell’Unione, il ruolo di un sistema arterioso primario volto a
consentire, a facilitare ed a veicolare in maniera armonica, coerente ed
omogenea l’affermazione del mercato e delle libertà fondamentali del cittadino
europeo in uno spazio europeo allargato e realmente integrato. Senza poi
considerare la crescente sensibilizzazione, universalmente avvertita, in ordine
all’esigenza di tutela dell’ambiente e di riequilibrio, quindi, delle modalità
di trasporto, a favore di quelle meno inquinanti ed invasive per l’ambiente
circostante, costituite appunto dal trasporto su rotaia.
La Comunità Europea nasceva originariamente con l’obiettivo
dichiarato di creare un “mercato comune” diretto a realizzare gradualmente una
“unione economica e monetaria” tra gli Stati membri. Il perseguimento di tale
finalità si poneva come passaggio obbligato, o quanto meno necessario per la
realizzazione della specifica missione della Comunità, consistente, da un lato,
nella promozione del processo di espansione “continua ed equilibrata” e del
miglioramento del tenore di vita, dall’altro, nell’eliminazione delle disparità
regionali e settoriali nonché delle “restrizioni agli scambi internazionali”,
ed infine nel rafforzamento della difesa della pace e delle quattro libertà
fondamentali di circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei
capitali.
La creazione del mercato unico passava necessariamente
attraverso l’eliminazione di quegli ostacoli che, di fatto, impedivano la
libera circolazione degli elementi essenziali su cui si fonda lo stesso
mercato, e si sostanziava, in altre parole, nell’instaurazione di un regime di
libera concorrenza mediante l’eliminazione dei vari fattori di differenziazione
(dazi doganali, aiuti di Stato, ecc.) e la creazione di un sistema di regole
comuni a tutti gli Stati membri.
L’abbattimento delle frontiere interne alla Comunità ha indotto
un ripensamento del ruolo dei singoli Stati membri - e quindi delle istituzioni
e degli operatori economici - all’interno della Comunità allargata che si
veniva costituendo, sia nei rapporti reciproci tra Stati, sia nei confronti
della Comunità stessa, come nuova realtà istituzionale, sia infine, e soprattutto,
nei confronti dei cittadini.
L’accresciuta domanda di mobilità di merci e di persone, la
necessità degli Stati di operare in maniera armonica in un nuovo contesto di
internazionalizzazione delle comunicazioni e delle informazioni e di creare,
quindi, una base comune fondata sulla condivisione degli obiettivi e dei mezzi
per perseguirli, sono stati l’impulso per un ripensamento dell’intervento
pubblico nell’economia. Intervento pubblico che, nella nuova realtà
istituzionale, non poteva più essere spiegato all’interno dei ristretti confini
territoriali nazionali, ma doveva essere calato in un mercato e in una politica
economica comunitaria, ispirata e determinata a perseguire con tenacia
l’affermazione del mercato stesso e delle sue regole concorrenziali nel nuovo
orizzonte territoriale ormai allargato a livelli quasi continentali.
Si avverte, in questo momento storico, l’esigenza della presenza
di uno Stato in grado di operare a latere
e non più come diretto attore nella scena economica, soggetto, quindi, tale da
condizionare, attraverso propri ed unilaterali interventi correttivi o
modificativi, l’andamento dei mercati. Ma si avverte, pur sempre, l’esigenza di
uno Stato presente, capace di operare congiuntamente con gli altri Stati, al
fine di arrivare a definire quella comunanza di regole e di obiettivi che
dovrebbero costituire lo scenario di riferimento per lo sviluppo e
l’affermazione di una Unione Europea, che possa essere definita appieno tale.
Lo Stato, quindi, pur con tutti i condizionamenti ed i limiti
scaturenti da situazioni particolari, specifiche o generali - quali quelli
storici, politici, sociali o di sostegno di determinati settori dell’economia
in momenti di particolare crisi - dovrebbe trasformarsi da Stato imprenditore -
gestore in Stato regolatore[2].
A tale fine, la Comunità ha giocato un ruolo fondamentale,
giacché l’esigenza dalla stessa veicolata di elaborare un tessuto di regole
comuni aveva a sua volta comportato la necessità di avviare un processo di
drastica deregolamentazione della legislazione particolare e particolaristica
esistente nei vari Stati membri.
Tale processo di deregolamentazione avrebbe consentito, inoltre,
di liberare risorse che, finora destinate a beneficio esclusivo dei soggetti
regolati, potrebbero essere utilizzate, con specifico riferimento al settore
dei trasporti, al fine di intervenire sui traffici coerentemente con gli
obiettivi dichiarati di mobilità sostenibile e, quindi, nell’interesse della
collettività allargata.
In tale nuovo contesto comunitario, l’intervento pubblico
avrebbe dovuto assumere le vesti di una regolamentazione funzionalizzata al
perseguimento degli obiettivi economici, sociali ed ambientali connessi al
settore dei trasporti, operando al fine di internalizzare gli effetti esterni e
le imperfezioni del mercato in esame.
Tuttavia, il settore dei trasporti - giacché di mercato ancora
non si poteva e, forse, non si può appieno parlare - presentava, nei vari Stati
membri, connotati estremamente differenti, sia sotto il profilo strutturale -
organizzativo che dal punto di vista della relativa disciplina di settore, tali
da rendere ardua l’opera della Comunità di inquadramento del settore medesimo
nel contesto della politica comune indicata dal Trattato.
Tali motivi, ai quali si aggiungevano le forti resistenze degli
Stati membri alla cessione di proprie competenze in materia e le obiettive
difficoltà in cui la Comunità ha operato per molti anni, hanno fatto sì che la
politica dei trasporti, pur se già sufficientemente delineata nel Trattato di
Roma, abbia stentato inizialmente a decollare ed ad affermarsi tra gli
obiettivi primari della Comunità medesima.
L’approccio della Comunità si è manifestato, quindi, in maniera
graduale, dapprima mediante l’enunciazione di principi comportamentali generali
e programmatici nei confronti degli Stati membri, passando poi alla successiva
progressiva liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati accompagnata
dalla contestuale armonizzazione delle legislazioni nazionali, al fine di
uniformare le condizioni operative dei vettori dei singoli Stati membri,
evitando in tal modo sia fenomeni di free
riding che forme di concorrenza al ribasso per avvantaggiare i vettori
nazionali a svantaggio di quelli degli altri Stati membri. D’altronde, non
sarebbe stato neanche immaginabile, in vista del compimento di una reale
politica comune dei trasporti, un processo di liberalizzazione indipendente da
una preventiva armonizzazione, poiché, diversamente, tale processo si sarebbe
tradotto in una assenza di politica comune[3].
Soltanto in seguito, una volta perseguiti gli obiettivi di
integrazione e di creazione di un mercato comune, l’azione comunitaria si è
manifestata in termini positivi e propositivi, orientata allo sviluppo di
politiche “europee” nel settore del trasporto, dirette, anche attraverso
interventi di riregolamentazione, a creare un tessuto comune in cui l’industria
del trasporto potesse operare in maniera uniforme, sia all’interno dell’Unione
Europea che nell’ambito dei rapporti con Stati terzi.
2. La politica comune dei trasporti
nel Trattato di Roma
Nell’impianto della neonata Comunità Europea il settore dei
trasporti rappresentava uno strumento necessario per la creazione di un mercato
comune ed unico, in quanto mezzo decisivo per la reale attuazione delle libertà
fondamentali di circolazione delle merci e delle persone.
Nel contempo, i trasporti, data la loro nodale importanza per un
sano sviluppo di un’economia comunitaria, erano considerati essi stessi oggetto
di un mercato da sviluppare in senso europeo.
In altri termini, il settore dei trasporti rappresentava lo
strumento per il raggiungimento del mercato comune e, allo stesso tempo,
oggetto del medesimo [4].
Tale concezione si percepisce anche dalla sistematica che il
Trattato di Roma conferisce all’ordinamento comunitario, tant’è vero che se da
un lato la politica dei trasporti viene posta tra le azioni della Comunità
dirette al perseguimento dei fini su cui la stessa si fonda, dall’altro lato i
trasporti occupano, all’interno del Trattato, un Titolo loro appositamente
dedicato e sono, quindi, considerati come uno dei settori produttivi che
meritano norme e procedure particolari[5].
Quanto al primo aspetto, giova ricordare che l’art. 3 lett. f)
del Trattato CE individua la politica comune dei trasporti come una delle
azioni della Comunità dirette al perseguimento dei fini enunciati dall’art. 2
del Trattato, ovvero come mezzo per promuovere la Comunità nel suo insieme
“mediante l’instaurazione di un mercato comune”, nonché per incentivare “uno
sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un
elevato livello di occupazione e di protezione sociale ... una crescita
sostenibile e non inflazionistica, un alto grado di competitività e di
convergenza dei risultati economici, un elevato livello di protezione
dell’ambiente ed il miglioramento della qualità di quest’ultimo, il
miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e
sociale e la solidarietà tra Stati membri”.
In tal modo, i trasporti vengono visti come lo strumento necessario
per realizzare “un mercato interno caratterizzato dall’eliminazione, fra gli
Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle
persone, dei servizi e dei capitali”, come prefigurato dall’art.3 lett. c) del
Trattato.
Dall’altro lato, poi, i trasporti rappresentano un settore di
mercato dotato di propria autonomia e di particolari strutture, oggetto esso
stesso del mercato. In quanto tale, la Comunità concepisce il trasporto come
oggetto di una delle politiche comuni e, date le sue peculiari caratteristiche,
introduce una serie di norme e di procedure specifiche, dedicando allo stesso
il Titolo V (ex Titolo IV) della
Parte III del Trattato, contenente sia norme precettive che di carattere
programmatico.
La Comunità, infatti, pur avendo fondato il suo impianto sul
principio fondamentale, di matrice neo-liberale, della libertà di concorrenza e
avendo, quindi, concepito lo stesso come fattore nevralgico per lo sviluppo
della Comunità medesima, ha immediatamente avvertito l’impossibilità di
estendere, sic et simpliciter, al
settore dei trasporti i principi di politica della concorrenza tradotti nel
Trattato. Ciò ha reso necessaria l’elaborazione di una disciplina ad hoc, che tenesse in debita
considerazione, e cercasse quindi di coniugare con l’ispirazione concorrenziale
della Comunità, le complesse ed articolate caratteristiche del settore del
trasporto, riscontrabili, principalmente, sia nella particolare tecnologia
produttiva, sia nella sua intrinseca e connaturale vocazione al sociale, sia
infine nella tradizionale configurazione industriale del settore di stampo
monopolistico, riconducibile, a sua volta, alle sue caratteristiche strutturali
ed alle quantomai costose tecnologie sottostanti[6].
I trasporti, quindi, vengono espressamente sottratti all’ambito
di applicazione della disciplina generale relativa ai servizi di cui al Capo
III del Titolo III, stante la disposizione dell’art. 51 (ex art. 61) che rinvia
al predetto Titolo V per quel che concerne la regolazione della libera circolazione
dei servizi in materia di trasporti.
Vi è da precisare, comunque, che la sottrazione del settore dei
trasporti alle regole del Trattato vale con esclusivo riferimento alla
disciplina dei servizi - almeno sino all’emanazione di apposite norme secondarie
di attuazione -, rimanendo invece pienamente applicabili al settore in esame le
altre norme, soprattutto quelle di portata generale, contenute nel Trattato
medesimo[7].
Il Titolo V riprende sostanzialmente, ribadendoli, i principi
fondamentali già espressi dal Trattato in linea generale, rielaborandoli sia in
ragione della differente regolamentazione esistente nei vari Stati membri, che
a causa delle supposte peculiarità esistenti nel settore in esame rispetto ad
altri settori economici, nel timore che i vari Stati potessero invocare,
proprio in ragione di tali peculiarità, un regime differenziato dei trasporti
rispetto ai principi generali del Trattato[8].
Vi è da precisare, in premessa, che la disciplina delineata nel
Titolo V è limitata, quanto ad ambito di applicazione, ai soli ai trasporti -
sia di persone che di cose, siano essi effettuati in proprio o per conto terzi
- ferroviari, su strada e per vie navigabili, potendo, peraltro, essere estesa,
previa delibera del Consiglio, anche ai trasporti marittimi ed aerei (cfr. art.
80, ex art. 84).
Entrando nel merito della politica comune dei trasporti, come
risultante dal menzionato Titolo V, è possibile ravvisare una duplicità di
obiettivi che la stessa intende perseguire: da un lato, essa tende a disciplinare
l’attività in sé considerata, al fine di creare una concorrenza reale nel
settore che assicuri la libera prestazione dei servizi di trasporto in
condizioni di parità per tutte le imprese europee e, dall’altro lato, mira ad
impedire che discriminazioni e disparità esistenti fra gli Stati membri
ostacolino la realizzazione ed il corretto funzionamento del mercato comune[9].
Il primo articolo del Titolo V, l’art. 70 (ex art. 74),
esordisce affermando che gli Stati membri perseguono gli obiettivi del Trattato
nel quadro di una politica comune dei trasporti.
A tal fine, il successivo articolo 71 (ex art. 75) prevede due
azioni specifiche della Comunità, consistenti, da un lato, nell’adozione di
norme comuni applicabili ai trasporti con carattere internazionale ed
interessanti il territorio comunitario - ovvero quelli aventi partenza o
destinazione nel territorio di uno Stato membro ovvero in transito nel
territorio di uno o più Stati membri - e, dall’altro, nella fissazione delle
condizioni per l’ammissione dei vettori non residenti ai trasporti a carattere
nazionale e delle misure necessarie per migliorare la sicurezza dei trasporti,
nonché di ogni altra disposizione utile[10].
Detta norma, di natura essenzialmente procedurale, prescrive le
modalità ed i quorum per
l’approvazione degli atti che il Consiglio, con ampio margine di libertà, è
chiamato ad adottare per l’emanazione delle necessarie “norme”, “condizioni”,
“misure” e “disposizioni” [11].
Fino all’adozione di tali misure, la Comunità, tramite la
clausola di stand still di cui
all’art.72 (ex art.76) - avente
efficacia immediata e diretta - vieta agli Stati di effettuare interventi di
qualsiasi natura protesi a proteggere i propri vettori nazionali, rendendo meno
favorevole il trattamento dei vettori degli altri Stati membri.
Tramite tale previsione, nella consapevolezza delle diversa
situazione normativa esistente a livello nazionale, si intendeva quantomeno
cristallizare le discriminazioni esistenti all’atto di instaurazione del
mercato comune, evitando che i singoli Stati membri, proseguendo nel
tradizionale atteggiamento protezionistico, potessero accentuare le diversità
esistenti ed ostacolare, quindi, quel processo di graduale ravvicinamento delle
legislazioni sia con riferimento alle condizioni tecniche di esercizio che
all’imposizione fiscale ed agli oneri legati ai costi delle infrastrutture
gravanti sull’industria trasportistica, nonché, infine, ai diversi obblighi di
servizio pubblico esistenti a livello nazionale [12].
Giova precisare, fin d’ora, che, essendo l’applicazione di tale
disposizione temporalmente limitata fino all’adozione delle “misure” di cui
all’art.71 c.1 del Trattato, la successiva emanazione di norme di diritto
comunitario secondario ha progressivamente ridotto il significato e la portata
della disposizione in questione.
Tale previsione, d’altronde, si coniugava perfettamente con la
consapevolezza per cui la persistenza, a livello nazionale, di norme o
disposizioni volte a mantenere o addirittura a consolidare il mercato interno
avrebbe seriamente condizionato la concreta realizzazione delle libertà
fondamentali di circolazione delle persone e delle merci. Il mercato del
trasporto veniva, quindi, considerato come settore economico ove conseguire
l’integrazione comunitaria, dando piena attuazione alla libertà di prestazione
dei servizi, al diritto di stabilimento, alla concorrenza ed alla parità di
trattamento perseguiti dalla Comunità.
In tal senso, nell’impianto del Trattato, i trasporti vengono in
rilievo quale strumento per l’attuazione dell’unione economica e del mercato
comune, come si evince chiaramente dalla disposizione dell’art.75 (ex art. 79) che affronta il problema della
possibile discriminazione nella circolazione delle merci realizzata dagli Stati
membri attraverso l’imposizione di prezzi e tariffe nel trasporto
infracomunitario delle merci. L’art. 75, infatti, contempla un’azione
comunitaria intesa ad abolire, nel traffico interno della Comunità, quelle
discriminazioni derivanti dall’applicazione da parte dei vettori di prezzi e condizioni
differenti a seconda del paese d’origine o di destinazione, che possano
comportare effetti distorsivi per la concorrenza.
In sostanza, la previsione dell’art.75, diretta sia agli Stati
membri che alle stesse imprese di trasporto, vuole evitare che, attraverso
l’imposizione di noli o tariffe discriminatorie, venga riprodotta quella
divisione dei mercati nazionali che si era inteso eliminare mediante
l’abolizione dei dazi doganali, delle restrizioni quantitative e delle misure
di effetto equivalente.
In tale prospettiva, vengono attribuiti, rispettivamente, al
Consiglio il potere normativo per l’adozione della regolamentazione a tal fine
necessaria, ed alla Commissione il potere di controllo ed il conseguente potere
di adottare decisioni in caso di pratiche discriminatorie[13].
Alla stessa stregua, deve essere letta la disposizione, di
applicazione diretta, contenuta nell’art.76 (ex art. 80) che vieta agli Stati
membri di prevedere, nell’ambito dei trasporti infracomunitari delle merci,
regimi tariffari o condizioni di trasporto che possano tradursi in elementi di
sostegno o di protezione a favore di una o più imprese o industrie particolari,
a meno che la Commissione, avuto riguardo alle necessità di regioni
sottosviluppate o che abbiano gravemente risentito di circostanze politiche e
valutata l’incidenza di tali prezzi e condizioni sulla concorrenza tra i modi
di trasporto, autorizzi gli Stati membri ad attuare trattamenti particolari[14].
Il divieto previsto dall’art.76 nei confronti delle cd. tariffe
di sostegno prescinde dalle forme o dalle modalità con cui le tariffe o altre
misure promozionali, su richiesta delle imprese di trasporto o per scelta
autonoma, vengano adottate dagli Stati. Quel che rileva è che le misure di
sostegno producano effetti sulla competitività tra le imprese, avvantaggiando
l’una nei confronti delle altre concorrenti[15].
Vi è da aggiungere, peraltro, che l’ultimo comma dell’art.76
introduce una deroga espressa al divieto degli Stati membri di prevedere un
regime tariffario di favore qualora quest’ultimo sia concorrenziale, ovvero
diretto a mantenere una situazione di concorrenza tra le varie modalità di
trasporto[16].
Anche l’art. 77 (ex art.81) manifesta una chiara ispirazione
concorrenziale prevedendo, al fine di evitare distorsioni imputabili
all’esistenza di oneri che incidono sulla formazione dei prezzi, che le tasse o
gli altri canoni percepiti dai vettori al passaggio delle frontiere non possono
superare un livello ragionevole, avuto riguardo alle spese reali effettivamente
determinate dal passaggio stesso, richiedendo cioè al vettore di commisurare il
ricarico rispetto ai costi effettivamente sopportati. L’art. 77, infine,
impegna gli Stati a ridurre progressivamente dette spese; ma già dal gennaio
del 1993, l’abolizione delle frontiere nazionali per la circolazione delle
merci ha reso detta norma priva di oggetto.
Il Trattato, però, non dimentica la connaturale tensione al
sociale del servizio di trasporto e delle forme di intervento pubblico che lo
stesso può richiedere a fini di interesse generale. Per tale motivo, l’articolo
73 (ex art. 77), derogando alla disciplina dettata dal successivo Titolo VI (ex
Titolo V) in materia di concorrenza, ammette la possibilità di quegli aiuti di
Stato che siano richiesti dalle necessità del coordinamento dei trasporti
ovvero corrispondenti al rimborso di talune servitù inerenti alla nozione di
pubblico servizio[17].
La necessità di coordinamento del trasporto, quindi, sembra
legittimare quegli interventi statali che, diretti ad annullare o quantomeno
limitare gli effetti prodotti da un regime di libera concorrenza, sono
finalizzati a consentire la sopravvivenza e la coesistenza, nel mercato, delle
diverse modalità di trasporto[18].
Allo stesso tempo, l’art. 73 lascia un certo margine di
autonomia agli Stati nel campo della politica dei trasporti, ammettendo la
possibilità di aiuti autorizzati in quanto volti a compensare quegli oneri di
servizio pubblico gravanti sulle imprese di trasporto, aventi inevitabili
ripercussioni sul piano della concorrenza[19].
Dalla lettura delle norme contenute nel Titolo V emerge
chiaramente l’intenzione della Comunità di vietare forme di protezionismo
ingiustificate e la preoccupazione, quindi, di evitare che l’esistenza di
discriminazioni, basate principalmente sulla nazionalità dei vettori e degli
utenti finali, potessero non soltanto costituire un ostacolo alla piena
realizzazione di una politica comune dei trasporti, ma che potessero
addirittura rallentarne il concreto avvio da parte della Comunità stessa[20].
L’esigenza di garantire il rispetto delle regole della
concorrenza emerge, inoltre, anche dalla disposizione, di carattere
evidentemente programmatico, dell’art. 74 (ex art. 78) del Trattato, a norma
del quale l’adozione di qualsiasi misura in materia di prezzi e di condizioni
di trasporto deve tenere conto della situazione economica dei vettori.
Tale previsione, riguardante indistintamente il trasporto di
cose o di persone, porta insito il divieto di fissare prezzi e condizioni di
trasporto avendo esclusivo riguardo agli interessi economici generali e degli
utenti finali, dovendosi invece tenere in debita considerazione anche la
redditività dell’industria del trasporto, non più considerata servente rispetto
agli altri settori della produzione ma dotata di una propria autonoma valenza
economica[21].
A conferma dell’interesse comunitario per il settore in esame
nonché della complessità del relativo panorama normativo a livello nazionale
nei vari Stati membri, l’art. 79 (ex art.83)
del Trattato, infine, ha previsto la creazione di uno speciale organo
consultivo della Commissione europea in materia di trasporti con il compito di
assisterla nell’elaborazione delle relativa regolamentazione[22].
3. L’avvio della politica comune dei
trasporti.
La neonata Comunità europea, nonostante avvertisse chiaramente
il ruolo centrale del settore trasportistico per l’affermazione dei principi
sui quali la stessa si fondava, si trovò tuttavia a dover coniugare la propria
politica dei trasporti - già sufficientemente delineata nel Trattato mediante la
previsione di principi generali di comportamento diretti tanto agli Stati
membri quanto alle diverse istituzioni comunitarie - con le varie realtà
nazionali che, risentendo spesso del peso di fattori contingenti, si erano
sviluppate in maniera antitetica rispetto ai principi del nascituro mercato
comune[23].
Storicamente, infatti, il settore dei trasporti è stato
caratterizzato da politiche nazionali orientate a favorire, se non addirittura
a proteggere, gli operatori locali - nazionali, a prescindere da considerazioni
in merito alla loro efficienza, competitività o capacità commerciale.
D’altronde, l’attuazione della politica comune dei trasporti
richiedeva l’assunzione da parte della Comunità di norme di diritto secondario
per l’attuazione dei principi del Trattato, sottraendo in tal modo agli Stati
membri le proprie potestà normative in materia[24].
Tale motivo ha, quindi, costituito un non indifferente fattore di rallentamento
opposto dai Paesi comunitari all’avvio della politica comune dei trasporti.
Inoltre, l’esistenza di barriere all’entrata di tipo normativo,
con conseguente alterazione delle condizioni concorrenziali esistenti nei vari
Stati membri, nonché le obiettive disomogeneità esistenti tra i differenti
mercati nazionali[25],
costituivano di fatto degli ostacoli per la creazione di un mercato comune
fondato sulla libera circolazione delle merci, delle persone e dei servizi, ove
i diversi vettori potessero operare, in uno spazio realmente integrato, alle
medesime condizioni.
A ciò si aggiunga che il settore dei trasporti manifestava,
rispetto ad altri settori economici, profili caratteristici tali da
legittimarne una disciplina ed un trattamento particolare, con specifico
riguardo all’applicazione delle regole comunitarie in materia di concorrenza.
Tali fattori di specialità erano dovuti alla consistenza degli
investimenti e delle spese di gestione dell’infrastruttura, peraltro variabili
a seconda della modalità di trasporto; alla agevole fungibilità delle diverse
modalità di trasporto; alla coesistenza, all’interno del mercato dei trasporti,
di imprese con organizzazione e dimensioni difficilmente paragonabili e
variabili a seconda del modo di trasporto, con una forte frammentazione delle
imprese operanti su gomma e una concentrazione, sotto la veste pubblicistica
dell’ente pubblico - azienda di stato, del trasporto su ferro.
L’industria nazionale del trasporto è stata inoltre condizionata
dal diverso atteggiarsi, nei diversi paesi membri, dell’intervento statale sia
per quel che concerne la politica e la conseguente pressione fiscale gravante
sul settore, sia in relazione all’imposizione di differenti standard di
sicurezza del traffico, di tutela dell’ambiente e di protezione dei lavoratori
addetti.
Per poi considerare, non da ultimo, l’imposizione di obblighi di
servizio pubblico gravanti su talune imprese di trasporto al fine di mantenere
determinate linee di traffico per il collegamento delle varie parti del
territorio nazionale, anche in funzione di sostegno di aree socialmente ed
economicamente più svantaggiate, i quali producevano inevitabili effetti
distorsivi per la concorrenza, sia per quanto concerneva le scelte degli
investimenti che sul versante del regime tariffario[26].
Alla luce di tutte le predette considerazioni, si possono
comprendere le ragioni per cui la Comunità, nonostante avesse già
normativamente delineato nel Titolo V i tratti essenziali di una politica
comune dei trasporti, non sia riuscita a definire in maniera certa le tappe
fondamentali per la sua realizzazione, lasciando alle istituzioni comunitarie,
ed al Consiglio in particolare, il compito di avviare ed individuare gli
strumenti da adottare per la sua attuazione[27].
Tale situazione di stallo nell’avvio della politica comune dei
trasporti, alla quale aveva contribuito non poco l’atteggiamento di retrosia
degli Stati membri a cedere alla Comunità ampie fette della propria competenza
normativa in materia, era stata più volte denunciata dal Parlamento che, in
talune risoluzioni, aveva evidenziato che un qualsiasi progresso verso l’integrazione
economica sarebbe risultato vanificato dalla mancanza di una politica comune
nel settore dei trasporti[28].
Nella prospettiva della realizzazione del mercato comune era,
quindi, necessario che si procedesse all’integrazione dei comparti nazionali,
eliminando, attraverso misure di armonizzazione e di liberalizzazione, quelle
barriere, sia di carattere normativo che soggettive, all’accesso nei mercati
degli Stati membri[29].
In realtà, già nei primi anni Sessanta, era stato predisposto un
programma di attuazione dei principi dettati dal Titolo V del Trattato ed era
stato elaborato un sistema di monitoraggio e di valutazione preventiva sulle
disposizioni - legislative, regolamentari o amministrative - adottate a livello
nazionale in materia di trasporti, al fine di evitare che gli Stati membri
potessero introdurre norme in contrasto con i principi e la politica
comunitaria[30].
La Commissione aveva inoltre tratteggiato, in un Memorandum del 1961 ed in un successivo Programma d’azione del 1962 [31],
le prime tappe della politica dei trasporti, tendenti ad introdurre la pari
opportunità dei vari modi di trasporto, l’armonizzazione delle condizioni
sociali, fiscali e di concorrenza, l’assenza di aiuti statali alle imprese,
salvo per quanto concerneva l’adempimento degli obblighi di servizio pubblico.
Tale politica ruotava attorno all’introduzione di un sistema di tariffazione
dell’uso dell’infrastruttura basato sul “costo marginale sociale” che avrebbe
permesso di attribuire alle singole tipologie di trasporto i costi dalle stesse
generati[32].
In questa prima fase, la Comunità si era orientata nel senso di
predisporre condizioni comuni per gli operatori del mercato comune, eliminando
gli interventi statali che potessero costituire ostacolo alla libera
circolazione dei servizi.
La Commissione, tuttavia, preso atto del sostanziale insuccesso
della politica da essa propugnata, avviava una seconda fase di rilancio della
politica dei trasporti, imprimendogli un nuovo orientamento, diretto
sostanzialmente a smantellare l’assetto dei trasporti concepito nella prima
fase, in quanto attenuava in concreto l’opera di eliminazione delle distorsioni
alla concorrenza, subordinando gli interessi dei trasportatori a quelli degli
utenti[33].
Con una Comunicazione al
Consiglio sullo sviluppo della politica
comune dei trasporti del 1973 e con il relativo Programma di azione del 1974 - 1976[34],
la Commissione reimpostava in maniera globale gli obiettivi della politica dei
trasporti ed i relativi strumenti d’azione, ponendo l’accento sulla necessità
di costituire per tale settore un vero e proprio mercato comunitario,
attraverso la predisposizione di infrastrutture comuni e l’adozione di misure
di accompagnamento[35].
Ma è soltanto a partire dagli anni Ottanta, a seguito delle
ripetute crisi petrolifere ed a quella storica del 1983, che gli Stati membri
decisero di valorizzare e rilanciare la politica comune dei trasporti come
strumento di coesione economica e politica dell’area europea per la creazione
del mercato comune.
A tal fine, con l’Atto Unico Europeo del 1985, di modifica del
Trattato di Roma, veniva avviato il processo di definitiva ed effettiva
abolizione, a partire dal primo gennaio 1993, di tutte le barriere fisiche,
tecniche e fiscali esistenti nel mercato europeo, ponendo quindi le basi per il
completamento del mercato interno[36].
L’impulso effettivo al concreto avvio della politica comune
provenne dal Consiglio Europeo tenutosi a Milano nel giugno del 1985, dalla
predisposizione di un nuovo Memorandum
della Commissione sulla evoluzione verso
una politica comune dei trasporti e dal successivo Libro Bianco sul completamento del mercato interno[37].
A ciò si aggiunse l’attività della Corte di Giustizia che, con
le sentenze Parlamento c. Consiglio del
1985 e Nouvelles Frontières del 1986[38],
aveva impresso una forte accelerazione all’adozione di regole attuative della
politica comune dei trasporti, avviando in tal modo quella che viene
considerata la terza fase di tale politica.
La Corte, infatti, con la prima sentenza, emessa a seguito del
ricorso in carenza proposto dal Parlamento ai sensi dell’art.232 (ex art.175)
del Trattato, aveva affermato che il Consiglio era tenuto ad estendere la
libertà di prestazione dei servizi al settore dei trasporti internazionali
nonché a stabilire, nell’ambito della liberalizzazione delle prestazioni di
servizi in detto settore, le condizioni per l’ammissione di vettori non
residenti ai trasporti nazionali in uno stato membro.
In tal modo, veniva rimosso quel parallelismo tra misure di
liberalizzazione e misure di armonizzazione al quale gli Stati membri e lo
stesso Consiglio si erano appellate per rallentare l’introduzione delle misure
finalizzate a garantire la libera prestazione dei servizi nel settore dei
trasporti. In altri termini, il Consiglio non avrebbe più potuto invocare le
eventuali difficoltà nell’opera di armonizzazione dei mercati nazionali per
giustificare la mancata adozione delle necessarie misure di liberalizzazione,
richieste dal Trattato per garantire la libera prestazione dei servizi anche
nel mercato dei trasporti[39].
La Corte, inoltre, con la sentenza Nouvelles Frontières, si era rivolta agli Stati membri, affermando
la contrarietà agli obblighi imposti dal Trattato, sia pur in assenza
dell’adozione di norme attuative da parte del Consiglio, dell’omologazione
delle tariffe di trasporto qualora dette tariffe fossero il risultato di un
accordo, di una decisione di un’associazione di imprese ovvero di una pratica
concordata.
La mancata adozione di norme secondarie attuative della politica
dei trasporti, pertanto, non ostava alla piena applicazione al settore delle
previsioni del Trattato in tema di concorrenza, con ciò risolvendosi la
questione se l’attuazione della politica comune dei trasporti dovesse assumere
o meno connotati di tipo liberistico e concorrenziale e dovesse, quindi, essere
caratterizzata da politiche di deregolamentazione dei relativi comparti[40].
La giurisprudenza della Corte, quindi, aveva dato il la per
l’avvio di un’opera di liberalizzazione e di deregolamentazione del settore dei
trasporti da ultimare entro il 31 dicembre 1992, termine indicato dall’art. 14
del Trattato (ex art. 7 A) per il completamento del mercato interno.
Detto termine è stato sostanzialmente rispettato quanto alla
liberalizzazione dei mercati, laddove non si è ancora realizzata in maniera
compiuta l’opera di armonizzazione del settore. L’esistenza di un mercato
liberalizzato, comunque, costituisce un fattore di forte stimolo all’adozione
di norme e meccanismi comuni per il ravvicinamento delle legislazioni
nazionali, al fine di creare un corretto level
playing field, ovvero condizioni di concorrenza omogenee tra le imprese di
trasporto europee[41].
L’abolizione delle barriere di ingresso ai diversi mercati
nazionali non ha, peraltro, significato la creazione di un mercato unificato
dei trasporti, essendo ancora previste temporanee limitazioni all’accesso ai
trasporti di cabotaggio ed alla libera prestazione dei servizi di trasporto di
cabotaggio. D’altronde, era lo stesso Trattato di Roma che, all’art. 71,
legittimava l’apposizione di condizioni all’accesso al traffico di cabotaggio a
carico delle imprese di trasporto stabilite in altri Stati membri, senza
peraltro che dette condizioni potessero dar luogo a discriminazioni tra imprese
a seconda della loro nazionalità o stabilimento[42].
In ogni caso, avviato il processo di liberalizzazione dei
mercati, quantomeno del trasporto internazionale, si rendeva necessaria una
effettiva opera di armonizzazione delle legislazioni nazionali al fine di
evitare che, proprio in forza del processo di liberalizzazione, si potessero
verificare forme di concorrenza al ribasso tra le imprese appartenenti ai
diversi Stati membri, avvantaggiati dall’esistenza di normative di settore meno
rigorose e stringenti che ponevano a carico dei vettori nazionali costi
operativi di gestione inferiori rispetto ai vettori stranieri.
Si è così avviato, ed è tuttora in atto, un processo di
armonizzazione non soltanto in termini di integrazione dei mercati a condizioni
di competitività omogenee, ma soprattutto in chiave di elaborazione di norme,
procedure, livelli e standard operativi e qualitativi comuni. Ciò che
costituisce un passaggio fondamentale e, quantomeno, prodromico per la
realizzazione di una politica europea dei trasporti in senso allargato, non
solo all’interno del territorio dell’Unione, ma anche nei rapporti con gli
Stati terzi.
4. Le
indicazioni dell’Unione Europea contenute nei principali Libri Bianchi e Libri
Verdi della Commissione.
Il quadro normativo delineato a livello comunitario prefigurava
un radicale mutamento nell’assetto organizzativo ed operativo del mondo
trasportistico.
Il processo di ristrutturazione del comparto dei trasporti
ferroviari rappresentava una tappa essenziale nel programma di “sviluppo della
politica comune dei trasporti” della Comunità. La Commissione, infatti, nel
relativo Libro bianco del 1992[43],
aveva tracciato le linee globali di sviluppo del settore che miravano, in
sostanza, a ridurre gli squilibri esistenti tra i vari modi di trasporto e ad
introdurre, attraverso una politica di ripartizione dei costi, una situazione
di concorrenza reale tra le varie modalità nonché tra i diversi operatori dello
stesso tipo di trasporto (su ferro, gomma e per vie navigabili).
Il perseguimento di tali obiettivi rappresentava un’occasione importante
per il superamento delle frontiere esistenti e degli ostacoli che si
frapponevano all’instaurazione di un mercato unico concorrenziale. Era, quindi,
necessario assumere un nuovo approccio rivolto ad eliminare le distorsioni
esistenti nello stesso mercato e ad ottimizzare il sistema comunitario dei
trasporti.
Le principali azioni da intraprendere miravano alla promozione
di un sistema coerente di reti di comunicazione accompagnata dalla
realizzazione di nuovi programmi di ricerca volti, da un lato, a migliorare le
prestazioni e la sicurezza del trasporto e, dall’altro lato, a garantire un
maggior rispetto delle condizioni sociali ed ambientali[44].
La Commissione ha indicato una serie di provvedimenti da adottare, tendenti a
stimolare un costante potenziamento ed un corretto funzionamento del mercato
interno che favorisse, peraltro, la libera circolazione delle merci e delle
persone in tutto il territorio comunitario. Era, poi, necessaria l’adozione di
politiche ben calibrate che favorissero lo sviluppo di sistemi di trasporto
sicuri, coerenti, integrati e rispettosi del contesto ambientale circostante.
Inoltre, veniva evidenziato il possibile ruolo delle infrastrutture di
trasporto quale fattore di coesione economico - sociale capace di superare le
disparità esistenti a livello regionale e quale ossatura di base per
intrecciare relazioni più efficaci con i paesi terzi[45].
Provvedimenti tutti che, tra l’altro, avrebbero dovuto contribuire a ridurre
complessivamente i costi del sistema comunitario dei trasporti.
La Commissione, inoltre, preso atto delle diversità esistenti
nei singoli Stati membri e della sostanziale assenza di forme di integrazione
reale sia delle infrastrutture e che delle varie modalità di trasporto, ha
ravvisato l’esigenza di un intervento centralizzato più incisivo, proteso ad
un’azione di armonizzazione, al fine di eliminare, o quantomeno ridurre, le
disparità esistenti tra i vari Stati membri. Il conseguimento di un regime di
sana concorrenza e di maggiore integrazione intra ed intermodale richiedevano,
innanzitutto, che i costi imputabili all’utilizzo delle infrastrutture, ivi
comprese le esternalità, fossero messi a carico degli stessi utilizzatori[46].
Era, inoltre, necessario procedere ad una armonizzazione tecnica e fiscale dei
vari modi di trasporto al fine di facilitare la loro integrazione e lo sviluppo
dell’intermodalità. In vista, poi, della creazione di una rete transeuropea dei
trasporti realmente integrata ed interoperabile, si riteneva di doverne
agevolare la realizzazione dando impulso al finanziamento per la creazione di
nuove infrastrutture, anche attraverso il coinvolgimento anche del capitale
privato.
La carenza di infrastrutture, d’altronde, costituiva un forte
ostacolo alla competitività ed alla creazione di nuovi mercati nonché
all’incremento dei livelli di occupazione. In questo momento, in vista
dell’internazionalizzazione dei mercati e per effetto dell’accresciuta domanda
di mobilità dei capitali e delle richieste di investimenti nonché dello
sviluppo di nuove tecnologie, occorreva investire sullo sviluppo di reti
transeuropee come strumento per accrescere la competitività europea a livello
mondiale[47].
In tale contesto, la Comunità si proponeva di evitare
distorsioni nel mercato e di offrire ai partecipanti condizioni eque di
concorrenza, in modo tale da fornire, poi, agli utenti finali del servizio i
benefici derivanti dall’esistenza di organizzazioni industriali competitive[48]
La ristrutturazione del comparto, peraltro, richiedeva,
preliminarmente, che fosse dedicata particolare attenzione alla problematica
relativa all’utilizzo dell’infrastruttura e alla definizione dei criteri per il
calcolo della relativa tariffazione.
La Commissione, già nel Libro Verde sulla determinazione dei
prezzi nel settore dei trasporti[49],
aveva affermato il principio per cui le tariffe di accesso ai servizi di
trasporto debbono coprire i costi marginali diretti ed indiretti e, quindi,
anche le esternalità generate dall’uso del sistema da parte del singolo
operatore.
Successivamente, la Comunità interveniva nuovamente sulla
questione proponendo, nel Libro Bianco sul costo d’uso dell’infrastruttura[50],
l’applicazione di un sistema di tariffazione basata sui costi marginali sociali[51]
che, assicurando il rispetto dei principi per cui “chi utilizza paga” e “chi
inquina paga”, dovrebbe stimolare l’utilizzo dei mezzi di trasporto di minor
impatto per l’ambiente ed indurre, inoltre, una migliore allocazione della
capacità infrastrutturale.
Nel 2001, l’Unione ha fatto il punto della situazione sulla
complessiva situazione del settore dettando, nel “Libro Bianco sulla politica
europea dei trasporti fino al 2010”[52],
le linee guida che dovrebbero ispirare l’azione futura dell’Unione medesima e
dei singoli Stati.
La Commissione ha preso atto della sostanziale insufficienza
delle misure sino ad ora attuate e del permanere di forti criticità del settore
consistenti, essenzialmente, nella congestione del traffico, nell’inquinamento
e nel disequilibrio modale causato, a sua volta, dalla mancata
internalizzazione dei costi esterni di alcuni modi di trasporto.
Gli obiettivi principali assegnati dal programma di azione
disegnato dal Libro Bianco è il perseguimento dell’equilibrio modale e
l’elaborazione di una efficace politica di tariffazione delle infrastrutture.
A tale proposito, il Libro Bianco pone l’attenzione sul
trasporto delle merci, considerato elemento strategico per una politica volta
al riequilibrio modale e per la soluzione dei problemi connessi con la
congestione della rete europea nel rispetto dei vincoli ambientali.
Per quel concerne, invece, il regime tariffario dei trasporti,
il Libro Bianco del 2001 parte dalla constatazione del disequilibrio esistente
tra le tariffazioni relative ai diversi modi di trasporto e del fatto che il
prezzo pagato dagli utenti finali non copre adeguatamente i costi complessivi
del trasporto, impedendo, quindi, il buon funzionamento del mercato e
rischiando di falsare la concorrenza nel sistema di trasporto. Vengono, quindi,
riproposti i principi per cui “chi inquina paga” e che il prezzo di accesso
alle infrastrutture debba coprire non solo i costi diretti ma anche quelli
“esterni” prodotti da incidenti, dal congestionamento, dall’inquinamento
acustico ed atmosferico.
A tale effetto, il Libro bianco prefigura un sistema normativo armonizzato
che permetta agli Stati membri di integrare i costi interni ed esterni affinché
il prezzo del servizio di trasporto possa riflettere i costi sopportati dalla
collettività.
Infine, in vista dell’ingresso - ormai attuato - di nuovi Stati
nell’Unione, venivano affrontati i problemi derivanti dal previsto
allargamento, considerato che le infrastrutture di trasporto dovranno far
fronte ad una vera e propria esplosione degli scambi delle merci e delle
persone[53].
In tale prospettiva, vista la scarsezza delle risorse comunitarie da destinare
allo sviluppo della rete infrastrutturale, viene auspicato l’intervento di
finanze private per la modernizzazione della rete e per la soluzione dei
problemi derivanti dalle strozzature esistenti ai confini.
[1] In tal senso, si vedano, tra
i tanti, V. Guizzi, Manuale di diritto e politica dell’Unione
Europea, Ed. Scientifica, 1995, 399 e 707 e ss.; F. Munari, Il diritto
comunitario dei trasporti, Giuffré, 1996, 12; nonché G. Conetti, Politiche comunitarie - Politica dei Trasporti, (voce) in Enc. Giur. Treccani, vol. XXIII, 1. La
politica dei trasporti come mezzo per il pieno conseguimento del mercato comune
si esplica, oltre che attraverso le previsioni di cui agli artt. 2 e 3 del
Trattato, che collocano i trasporti tra le politiche ed azioni comuni della
Comunità, attraverso la disposizione dell’art. 79 del Trattato che contempla
un’azione comunitaria intesa ad abolire, entro la seconda fase di attuazione
del Trattato, quelle discriminazioni, derivanti dall’applicazione da parte dei
vettori di prezzi e condizioni differenti a seconda del paese d’origine o di
destinazione, che possano comportare effetti distorsivi per la concorrenza. La
considerazione della politica dei trasporti in sé stessa, come settore economico
ove conseguire l’integrazione comunitaria, mediante la piena attuazione della
libertà di prestazione dei servizi, del diritto di stabilimento, della
concorrenza e della parità di trattamento,
deriva poi dall’art.76 del Trattato che prevede una clausola di stand still ad efficacia immediata e
diretta, al fine di vincolare gli Stati a non aggravare la situazione di
partenza della politica comune dei trasporti, rendendo meno favorevole,
all’atto di entrata in vigore del Trattato, il trattamento dei vettori degli
altri Stati membri.
[2] La bibliografia in materia è
assai vasta; tra i tanti, si vedano A.
La Spina - G. Majone, Lo Stato
Regolatore, Il Mulino, 2000; 15 ss.; S.
Cassese, La nuova Costituzione
economica, Laterza, 2000, 286; F.
Bonelli, La privatizzazione delle imprese pubbliche, Giuffré, 1996, 70 e
ss.; R. Fazioli, Dalla proprietà alle regole. L’evoluzione
dell’intervento pubblico nell’era delle privatizzazioni, Franco Angeli Ed.,
1994; F.Reviglio, Meno Stato più mercato: come ridurre lo
Stato per risanare il paese, Arnoldo Mondadori Editori, 1994, 188 e ss; R. Zucchetti - M. RAvasio, Trasporti e concorrenza, Egea, 2001, 24.
[3] In tal senso si esprime F. Munari, op. cit., 5 e ss., il quale osserva che solo attraverso una
liberalizzazione accompagnata dalla armonizzazione delle legislazioni nazionali
è possibile un’effettiva attuazione della libera prestazione dei servizi e
delle libertà di stabilimento dei vettori comunitari, senza che ad essa si
accompagnino distorsioni della concorrenza. Distorsione che, viceversa, si
potrebbero verificare qualora alla liberalizzazione non si affianchi un’idonea
armonizzazione, la cui mancanza finisce per avvantaggiare le imprese di
trasporto gravate di norme nazionali che determinano a loro carico minori costi
operativi. L’autore precisa, peraltro, che, considerate le obiettive difficoltà
che incontra il processo di riavvicinamento delle normative nazionali nonché i
tempi che detto processo necessariamente richiede, l’azione della Comunità è
stata meno incisiva sul piano dell’armonizzazione che su quello della
liberalizzazione, escludendo che quest’ultima potesse essere pregiudicata o
quantomeno ritardata dal persistere di differenziazioni tra le discipline degli
Stati membri (cfr. Corte di Giustizia, 22 maggio 1985, n.13/83, Parlamento c. Consiglio in Raccolta 1985, 1513).
[4] G. Conetti, Manuale di
diritto comunitario, a cura di E.
Pennacchini, R. Monaco, L. Ferrari Bravo, S, Puglisi, Giappichelli,
1984, vol. II, 305; D. U. Galetta,
La politica comunitaria dei trasporti,
in Riv. Giur. Circ. Trasp., Quad.
n.35, 2002, 7; V. Guizzi, op. cit., 399 e 707 e ss.; F. Munari, op. cit., 12; Giavazzi M., Una politica quadro per i trasporti
ferroviari, su strada e per vie navigabili interne, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 1991, 735 ss.; nonché G.
Conetti, Politiche comunitarie -
Politica dei Trasporti, cit., 1
[5] Alla stessa stregua viene
trattato soltanto il settore dell’agricoltura, cui è dedicato il Titolo II
della Parte III del Trattato CE.
[6] Cfr. R. Zucchetti - M. RAvasio, op. cit., 27 e ss.
[7] In tal senso, N. Bellieni, Commentario al Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea,
a cura di R. Quadri, R. Monaco, A.
trabucchi, Giuffré, 1965, I, 551; in giurisprudenza, dopo un primo
periodo di incertezze, detta posizione, assunta dalla Commissione, è stata
fatta propria dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 4 aprile 1974,
C.167/73, Commissione c. Repubblica
Francese (Marinai Francesi), in Raccolta,
1974, 359, in tema di navigazione marittima. In particolare, la Corte rilevava
che l’attuale art. 70 rinvia agli artt. 2 e 3, relativi allo sviluppo armonico
delle attività economiche della Comunità, i cui principi generali, lungi
dall’essere derogati dalla disciplina speciale del Titolo V, vengono da
quest’ultima attuati e completati. Tale orientamento è stato ulteriormente
ribadito nella sentenza del 28 novembre 1978, C. 97/78, ibidem, 1978, 2311, nonché dalle successive pronunce del 30 aprile
1986, C.209-1213/84, Asies e a.
(Nouvelles Frontières), ibidem,
1986, 1425; 13 luglio 1989, C.4/88, Lambregts
Transportbedrijf c. Belgio, ibidem,
1989, 2609; 13 dicembre 1989, C.49/89, Corsica
Ferries-Dogane francesi, ibidem,
1989, 4441. Anche in dottrina, dopo un lungo dibattito tra i sostenitori di
un’applicazione generalizzata ai trasporti delle norme del Trattato e quelli
che propugnavano la specialità della disciplina dei trasporti, si è affermata
la tesi per cui le regole generali contenute nel Trattato trovano applicazione
nella misura in cui quelle speciali, rinvenibili nel Titolo V e nell’art.51,
non dispongano diversamente. Per un’accurata ricostruzione del dibattito in
materia, si rinvia a M. L. Tufano, op. cit., 48 e ss. e L.Daniele, Il diritto materiale della Comunità europea: introduzione allo studio
del mercato interno e delle politiche comunitarie, Milano, 2000, 96. Viene
a sostegno di tale tesi, d’altronde, oltre alla considerazione per cui la
politica comune dei trasporti costituisce una delle azioni della Comunità per
il perseguimento dei suoi fini generali indicati dall’art.2, anche il fatto che
l’art. 70 (ex art. 74) - ovvero il
primo articolo del Titolo V sui trasporti - rinvia agli obiettivi del Trattato
che gli Stati membri devono perseguire nel quadro della politica comune del
settore. Inoltre, come rileva V. Guizzi,
op.cit., 712, tale tesi è
supportata anche da una interpretazione sistematica degli artt. 51 e 73 del
Trattato: infatti, se l’art. 51 non avesse espressamente rinviato al Titolo V
per la disciplina dei servizi in materia di trasporto, ne sarebbe derivato che
il Capo relativo ai servizi avrebbe trovato applicazione anche in tale settore;
ed infine, laddove le regole generali della concorrenza non fossero state
applicabili al titolo V, allora sarebbe risultata inutile la previsione
dell’art. 73, che introduce una deroga espressa al divieto di aiuti statali
alle imprese.
[8] Cfr. F. Munari, op. cit.,
14.
[9] Cfr. V. Guizzi, op. cit.,
710.
[10] Per quanto concerne le
materie coperte dall’art. 71, vengono sostanzialmente toccati tutti gli aspetti
e le problematiche necessarie per l’attuazione della politica comune dei
trasporti, in un’ottica di abbattimento delle frontiere dei mercati nazionali e
di piena attuazione della libera prestazione dei servizi nel settore in esame.
In tal senso, vengono in rilievo l’abolizione delle restrizioni soggettive ed
oggettive all’accesso al mercato dei trasporti, la liberalizzazione dei prezzi
e delle tariffe, l’attuazione di standard tecnici uniformi. Soltanto a seguito
delle modifiche di Maastricht, viene espressamente inserita nell’art.71 la
tematica della sicurezza nei trasporti. I trasporti presi in considerazione
dall’articolo in parola sono i trasporti internazionali di persone e di cose,
consistenti nel cd. traffico infracomunitario, ovvero quello tra Stati membri
dell’Unione, nel traffico tra Stati membri e paesi terzi, in quello interno di
uno o più stati membri ma con transito sul territorio di altro Stato membro ed,
infine, nel traffico tra Paesi terzi in transito nel territorio di uno Stato
membro. Pertanto, ai fini dell’applicazione di tale norma e del diritto
comunitario secondario che ne consegue, non rileva il luogo di partenza o di
destinazione del trasporto, a condizione che tale trasporto tocchi il
territorio di uno Stato membro e vi sia almeno un attraversamento di frontiera.
[11] Quanto agli aspetti
procedurali, l’art.71 dispone che il Consiglio, tenuto conto degli aspetti
peculiari dei trasporti, delibera, previa consultazione del Comitato Economico
e Sociale e del Comitato delle Regioni, secondo la procedura di codecisione di
cui all’articolo 251. Il secondo comma del citato articolo, peraltro, introduce
una deroga espressa, prevedendo che le disposizioni riguardanti i principi del
regime dei trasporti e la cui applicazione potrebbe gravemente pregiudicare il
tenore di vita e l’occupazione in talune regioni, come pure l’uso delle
attrezzature relative ai trasporti, sono stabilite dal Consiglio, che delibera
all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del
Parlamento europeo e del Comitato economico e sociale, avuto riguardo alla
necessità di un adattamento allo sviluppo economico determinato
dall’instaurazione del mercato comune.
[12] L’obbligo di stand still investiva qualsiasi misura
statale idonea, direttamente o indirettamente, a causare discriminazioni avendo
riguardo non tanto ai contenuti della misura stessa, sia che la stessa fosse
prevista da norme legislative che da provvedimenti amministrativi (cfr. Corte
di Giustizia, 31 marzo 1993, C-184 e 221/91, Oorburg e Van Messem, in Raccolta,
1993, I, 1633), quanto piuttosto agli
effetti concreti nei confronti dei vettori degli altri Stati membri. A tale proposito, F. Munari, op. cit., 21 ss., sostiene che la violazione dell’obbligo di stand still, essendo questo contenuto in
una norma di diretta applicazione, poteva essere invocata anche da privati di
fronte ai giudici nazionali. Tale norma, poi, operava a protezione dei vettori
comunitari, non potendo essere, invece, invocata né da imprese di trasporto
aventi la nazionalità di paesi non comunitari, ancorché stabilite nell’Unione,
né tantomeno da vettori terzi stabiliti al di fuori dell’Unione. L’Autore
rileva infine che l’obbligo di stand
still, ricollegandosi al generale principio di cooperazione da parte dei
Paesi membri alla realizzazione degli obiettivi del Trattato, avrebbe
riguardato soltanto le norme statali successive al Trattato. In ogni caso, il
divieto di introdurre misure discriminatorie atte a sfavorire i vettori di
altri Paesi membri non doveva essere letto in senso assoluto, ma doveva essere
rapportato rispetto a quanto veniva previsto nei confronti di quelli nazionali.
In tal senso, cfr. Corte di Giustizia, 19 maggio 1992, C-195/90 (Commissione c. Germania), in Raccolta, 1990, I, 3141 che precisa, tra
l’altro - assegnando quindi una valenza eccessiva alla norma in esame, quasi
paralizzante per l’attività degli Stati membri - che il divieto in parola
operava anche qualora il provvedimento dello Stato fosse rivolto al
perseguimento di obiettivi di interesse generale, per esempio, tendenti al
riequilibrio dei costi dell’utilizzo dell’infrastruttura stradale al fine di
indirizzare volumi di traffico verso altri modi di trasporto di minor impatto
ambientale. Sempre F. Munari, op. cit., 23 ss., osserva che il divieto
di introdurre misure discriminatorie nei confronti dei vettori di altri Paesi
membri avrebbe dovuto operare soltanto nel momento in cui l’intervento dello
Stato fosse tale da porre le imprese non stabilite in una posizione di
svantaggio rispetto a quelle stabilite. Pertanto, gli Stati non sarebbero
incorse in alcuna violazione qualora si fossero limitate ad eliminare privilegi
a favore delle imprese non stabilite, fino a quando la loro situazione non
fosse divenuta più sfavorevole rispetto a quella delle imprese stabilite
[13] Questa materia è stata, nel
settore dei trasporti, la prima ad essere oggetto di un rilevante intervento
regolamentare da parte del Consiglio mediante l’adozione del Regolamento del 27
giugno 1960 n.11, in G.U.C.E., 52, 16
agosto 1960, 221, il quale, confermando il divieto di pratiche discriminatorie
di cui all’art.75 co.1 del Trattato, prevede, rispettivamente, l’obbligo degli
Stati membri di segnalare alla Commissione tariffe e accordi sui prezzi e le
condizioni di trasporto che comportino differenze di trattamento, e l’obbligo
per le imprese di trasporto di fornire alle amministrazioni statali le relative
notizie. Dal canto suo, la Commissione accerta, anche d’ufficio, eventuali
violazioni al regime regolamentare, potendo infliggere sanzioni pecuniarie per
l’omessa, insufficiente o errata trasmissione dei predetti dati nonché per
sanzionare eventuali pratiche distorsive.
[14] A tal proposito, la Corte di
Giustizia, con la sentenza 9 luglio 1969, C1/69 (Italia c. Commissione), in Raccolta, 1969, 277, ha reso una interpretazione
della norma in questione per cui la Commissione, dotata di un ampio potere
valutativo in ordine alle tariffe da autorizzare, può prendere in
considerazione elementi ulteriori rispetto a quelli espressamente menzionati
dall’art. 76, potendo altresì subordinare l’autorizzazione a determinate
condizioni nonché limitarla nel tempo. Correlativamente, il venir meno di tali
condizioni, non obbliga la Commissione a ritirare automaticamente
l’autorizzazione.
[15] Si è discusso, poi, sulla
legittimità delle tariffe cd potenziali, ovvero quelle con le quali si
abbassano i prezzi di una determinata impresa di trasporto al fine di prevenire
l’entrata di nuovi concorrenti sulla stessa linea di traffico (ad es.
sovvenzioni alla ferrovia per impedire la costruzione di un’autostrada). La
Corte di Giustizia ha tuttavia ritenuto legittime dette tariffe nella misura in
cui i costi della creazione del servizio di trasporto concorrente siano a
carico dello stesso Stato che sovvenziona l’impresa di trasporto già esistente
(cfr. 15 luglio 1960 n.24 e 34/58, Chambre
Syndicale de la Sidérurgie de l’Est de la France c. Alta Autorità, in Raccolta, 1960, 557).
[16] In tal senso G. Conetti, Politiche comunitarie - Politica dei Trasporti, cit., 2; F. Munari, op.cit.,
36. Una prima applicazione della deroga contemplata dall’art.76 co.3 sembra
potersi ravvisare già nella previsione del successivo art. 78 (ex art. 82) che, avuto riguardo
all’economia di talune regioni della Germania federale che potevano risentire
degli svantaggi derivanti dalla divisione territoriale della Germania (in
particolare, il Land di Berlino), consente, o meglio, consentiva l’adozione
delle misure ritenute necessarie per compensare detti svantaggi economici. Va,
peraltro, aggiunto che la norma ha perso qualsiasi valore a seguito della
riunificazione tedesca né, d’altronde, ne è stato fatto un grande uso da parte
della stessa Germania.
[17] Tale norma ha ingenerato,
com’era naturale, un dibattito - legato a sua volta alla tematica
dell’autonomia della disciplina comunitaria dei trasporti rispetto alle norme
generali del Trattato - in merito alla specialità o meno della disposizione in
questione, dibattito conclusosi nel senso per cui anche gli eventuali aiuti
all’industria del trasporto dovessero essere sottoposti ai principi, alle
condizioni ed alle procedure di carattere generale. In tal senso, Corte di
Giustizia, 12 ottobre 1978, C-156/78 (Commissione c. Belgio, in Raccolta, 1978, 1881). La concorrenza in
materia di trasporti, peraltro, è stato oggetto di apposita disciplina,
contenuta nel Regolamento 19 luglio 1968 n.1017, in G.U.C.E., L.175, 23 luglio 1968, 1, integrato, quanto alle modalità
di applicazione, dai regolamenti 8 agosto 1969 n.1629 e 1630, in G.U.C.E., L.209, 21 agosto 1969, 1, 11.
Infatti, la Comunità ha reputato che, date le peculiarità dei trasporti, fosse
necessario un trattamento più favorevole per le intese e gli accordi
finalizzati a migliorare le strutture e la produttività del settore. Lo stesso
dicasi per il trattamento dell’intervento pubblico a compensazione degli oneri
di servizio pubblico gravanti sul settore, appositamente disciplinato dal
Regolamento 26 giugno 1969 n.1191, in G.U.C.E.,
L.156, 28 giugno 1969, 1; detto regolamento, infatti, pur prevedendo la
graduale soppressione degli obblighi di servizio pubblico a carico delle
imprese di trasporto, comportanti a loro volta condizioni di trasporto e regimi
tariffari particolari, consente la loro vigenza a determinate condizioni,
fissando criteri comuni al riguardo.
[18] In tal senso, G. Greco - D. U. Galetta, op. cit., 1246, che individuano diversi
tipi di intervento, che possono consistere nella ripartizione autoritaria del
traffico tra i vari modi di trasporto ovvero, con provvedimenti di carattere
meramente provvisorio, in semplici correttivi atti a garantire, in una
situazione di libera concorrenza, una posizione di uguaglianza nelle condizioni
di partenza tra i diversi modi di trasporto.
[19] Sotto il profilo
procedurale, è da notare che detti aiuti non necessitano della preventiva
autorizzazione, normalmente necessaria ex
art. 88 n.2 (ex art. 93 n.2) del
Trattato. Pertanto, la violazione dell’art. 87 (ex art.92) rileva, ed è quindi perseguibile, solo in quanto la
concessione di aiuti possa compromettere il normale svolgimento degli scambi
comunitari, intervenendo a turbare la concorrenza fra le imprese dei vari Stati
membri ed a neutralizzare, in tal modo, gli effetti dell’abbattimento delle
barriere doganali fra gli stessi. In tal senso, cfr. G. Greco - D. U. Galetta, op.
cit., 1247, secondo i quali il divieto implicitamente desumibile dall’art.
73 riguarderebbe non tanto, o non soltanto, la concorrenza internazionale tra
imprese di trasporto, quanto piuttosto la concorrenza tra le diverse modalità
di trasporto. In tal senso, anche M.L.
Tufano, op. cit., 40.
[20] Cfr. D. U. Galetta, La
politica comunitaria dei trasporti, cit., 9.
[21] Cfr. F. Munari, op. cit.,
39 ss..
[22] Il Comitato consultivo
configura un unicum nella sistematica
del Trattato che trae la sua origine, probabilmente, da un’analoga figura esistente
in seno alla CECA (cfr. per tutti N. Bellieni,
op. cit., 586), nonché
nell’omologo Comitato monetario, soppresso a seguito dell’unificazione
monetaria. Il Comitato ha un proprio statuto ed esercita funzioni di mera
consulenza in merito a quesiti specifici postigli dalla Commissione; pertanto,
le sue opinioni, che non sono rese pubbliche, non hanno carattere vincolante
per la Commissione.
[23] In tal senso, G. Greco - D. U. Galetta, Trasporti terrestri e relativo servizio
pubblico, op. cit., 1244, nonché F. Munari, Il diritto comunitario dei trasporti, cit., 11 che offre una puntuale disamina degli “aspetti speciali” -
mutuando l’espressione di M. L Tufano, I trasporti terrestri nella CEE,
Giuffré, 1990, 29 - della disciplina dei trasporti e delle difficoltà
incontrate della CE nell’avvio della propria politica comune.
[24] Ed invero l’originario art.
75 del Trattato (attuale articolo 71, modificato) prevedeva l’emanazione di
norme comuni applicabili ai trasporti internazionali in partenza, a
destinazione o in transito sul territorio di uno o più Stati membri,
attribuendo pertanto una specifica competenza comunitaria anche rispetto alla
disciplina dei trasporti con Paesi terzi ed alla gestione dei rapporti di
diritto internazionale da ciò derivanti. Infatti, detta norma legittimava la
Comunità a stabilire rapporti con Stati ed organizzazioni internazionali,
nonché a negoziare e stipulare trattati internazionali. In tal senso si era
pronunciata anche la Corte di Giustizia che, con la sentenza 31 marzo 1971, C -
22/70, Commissione c. Consiglio (AETS),
in Raccolta, 1971, 263, richiamandosi
alla teoria dei cd. “poteri impliciti nell’ordinamento comunitario” piuttosto
che allo stesso art. 75, aveva sancito il potere della Comunità di stringere
relazioni internazionali con Stati ed organizzazioni internazionali terze,
anche al fine di dare attuazione ai precetti in tema di politica comune dei
trasporti. La Corte, infatti, aveva collegato l’esistenza di competenze esterne
ad un preventivo concreto esercizio di competenze interne, parallele, da parte
della Comunità. Sulla sentenza AETS e
sulla teoria dei poteri impliciti, si veda per tutti B. Conforti, Diritto
internazionale, IV ed., Jovene, 1992, 168 ss; F. Pocar, Diritto delle
Comunità Europee, IV ed., Giuffré, 1991, 65; P. Mengozzi, Il diritto
della Comunità europea, Cedam, 1990, 73 ss; nonché A. Tizzano, Lo sviluppo
delle competenze materiali delle Comunità europee, in Riv. Dir.
Eur., 1981, 139 ss.. Successivamente, la Corte, con la sentenza 14 luglio
1976, C. 3-4 e 6/76, Kramer, in Raccolta, 1976, 1279, ha ritenuto
sufficiente, per il sorgere di detti poteri, che essi siano stati concretamente
esercitati, per esempio con la stipulazione di un accordo internazionale, e che
tale esercizio sia necessario al raggiungimento di obiettivi propri della
Comunità. Nello stesse senso, si veda il parere del 26 aprile 1977 n. 1776, Fondo europeo d’immobilizzazione per la
navigazione interna, in Raccolta,
1977, 755. Ci si è poi chiesti se tali poteri esterni della Comunità competessero
ad essa in via esclusiva, ovvero se potessero concorrere con le competenze
degli Stati membri. A tal proposito, la Corte di Giustizia ha precisato, con la
sentenza 15 dicembre 1976, C-41/76, Donkerwolke,
in Raccolta, 1976, 1921, che,
considerati il primato del diritto comunitario e gli obblighi nascenti in capo
agli Stati membri in forza dell’art. 3 lett. f) e 10 (ex art.5) del Trattato, si può ritenere che questi ultimi, se da un
lato possono esercitare competenze nelle materie coperte dall’azione della
Comunità solo fino a quando questa non abbia adottato proprie misure,
dall’altro lato dette competenze statali devono essere esercitate
nell’interesse comune di tutti i paesi membri.
[25] La diversa regolamentazione
del trasporto nei vari Stati membri comportava, inevitabilmente, una
alterazione del mercato, elevando barriere all’accesso al mercato sia di
carattere soggettivo, dovute, per esempio, all’introduzione di specifiche norme
dirette al mantenimento da parte degli operatori di determinati standard e
obblighi di carattere qualitativo, professionale e/o finanziario, sia di
carattere oggettivo, dovute alla previsione, a tutela dell’industria nazionale,
di quote e contingenti di traffico, se non addirittura a riserve a favore di
taluni vettori (per es. nel traffico di cabotaggio), ai quali si aggiungevano,
talvolta, misure di regolamentazione delle tariffe e delle altre condizioni di
trasporto.
[26] È ben noto che determinate
linee, economicamente svantaggiose ed in perdita sotto il profilo degli
investimenti, sono state create e mantenute in vita per ragioni prettamente
politiche, giustificate dall’esistenza di obblighi di servizio pubblico in capo
al vettore nazionale. L’adempimento di tali obblighi, economicamente
svantaggioso per il vettore, veniva tuttavia compensato attraverso misure di
sostegno pubbliche, dirette o indirette, ovvero mediante la concessione di
riserve per la gestione in esclusiva di determinati traffici sicuramente più
redditizi.
[27] L’attuazione della politica
dei trasporti, considerata la sua strumentalità ai fini dell’effettiva
realizzazione della libertà di circolazione prevista nel Trattato, avrebbe
dovuto avvenire in tempi rapidi, come si evinceva anche dalla disposizione
dell’originario articolo 75 del Trattato (ovvero l’attuale art.71, peraltro
modificato) che, al secondo comma, prevedeva un periodo preciso e assai
ristretto per l’emanazione delle misure funzionali alla realizzazione della
politica dei trasporti, da adottarsi “durante il periodo transitorio”, e cioè
entro il 31 dicembre 1969. Il processo, in effetti, si è avviato con estrema
lentezza anche a causa dell’opposizione degli Stati membri alla creazione di un
sistema di trasporti unico ed integrato a livello europeo, basato su criteri
concorrenziali, che avrebbe comportato l’erosione di proprie competenze in
materia a favore della Comunità. A tal fine, gli Stati hanno sostenuto la
natura meramente programmatica dell’art.75 e, quindi, dell’obbligo ivi previsto
di avviare una politica comune dei trasporti, giungendo addirittura a dubitare
che il mercato comune comprendesse anche il settore dei trasporti. Sul
dibattito interpretativo della norma in parola, si veda N. Bellieni, op. cit., 547. La questione è stata, successivamente, definita
dalla Corte di Giustizia che, con la sentenza del 4 aprile 1974, C.167/73, Commissione c. Repubblica Francese (Marinai
Francesi), cit., ha dissipato le
incertezze in ordine alla specialità del trasporto rispetto alla realizzazione
del mercato comune.
[28] Cfr. in particolare le
Risoluzioni del 16 gennaio 1979, in G.U.C.E.,
C39 del 12 febbraio 1979; del 9 marzo 1982, in G.U.C.E., C 87 del 5 aprile 1982; del 16 settembre 1982, in G.U.C.E., C 267 del 12 ottobre 1982. Il
Parlamento, infine, di fronte alla persistente inerzia del Consiglio, aveva
presentato alla Corte di Giustizia un ricorso per carenza ai sensi dell’art.
232(ex art.175) del Trattato,
denunciando la violazione del Trattato da parte del Consiglio, avendo
quest’ultimo omesso di instaurare una politica comune nel settore dei trasporti
e di stabilire in modo vincolante il quadro di tale politica. La Corte, con la
sentenza del 22 maggio 1985, C - 13/83 (Parlamento
c. Consiglio), cit., pur
riconoscendo la discrezionalità del Consiglio nel determinare i fini ed i mezzi
della politica comune dei trasporti, ha rilevato la violazione del Trattato da
parte del Consiglio stesso avendo omesso di “garantire la libera prestazione
dei servizi in materia di trasporti internazionali e di stabilire le condizioni
per l’ammissione dei vettori, non residenti, ai trasporti nazionali in uno
Stato membro”.
[29] Cfr. F. Munari, Il diritto
comunitario dei trasporti, cit.,
11.
[30] Si tratta della decisione
del Consiglio del 21 marzo 1962, in G.U.C.E.,
4 aprile 1962 n.23, 720 ss. In argomento si veda M. L. Tufano, op. cit.,
77 e ss.
[31] Si tratta del Memorandum sull’orientamento da dare alla
politica comune dei trasporti presentato dalla Commissione al Consiglio in
data 10 aprile 1961 (COM (61) 50 def.) ove venivano evidenziati i tre obiettivi
generali della politica dei trasporti, consistenti nella soppressione delle
discriminazioni che avrebbero ostacolato la realizzazione del mercato comune,
nell’integrazione comunitaria dell’industria dei trasporti ed, infine,
nell’organizzazione generale dei trasporti nel quadro della Comunità.
Nell’ambito programma di riorganizzazione del mercato, i pubblici poteri
avrebbero dovuto assumere una posizione di neutralità, astenendosi
dall’adottare qualsiasi misura intesa a favorire un modo di trasporto a scapito
degli altri o tale da alterare la libera concorrenza tra le varie modalità di
trasporto. Da tale assetto del mercato avrebbe dovuto conseguire che i prezzi e
le tariffe avrebbero rispecchiato la reale situazione economica delle imprese,
senza che tale situazione fosse in qualche modo falsata dalle sovvenzioni
erogate a fronte dell’adempimento di obblighi di servizio pubblico o da aiuti
di stato corrisposti a vario titolo. Parallelamente, era necessario intervenire
a disciplinare i compensi che le imprese avrebbero dovuto corrispondere agli
Stati per l’utilizzo dell’infrastruttura pubblica di trasporto. In argomento,
si veda M. L. Tufano, op. cit., 57 e ss. e G. Greco - D. U. Galetta, cit., 1248 e ss.. Al Memorandum del 1961 ha poi fatto seguito un Programma di azione presentato il 27 febbraio
1962 (COM (62) 88 def. Del 23 maggio 1962) che, ridimensionando gli obiettivi
posti dal Memorandum a causa delle resistenza opposte dagli Stati membri,
recepiva le indicazioni raccolte e proponeva alcune misure concrete di
attuazione delle linee indicate nello stesso Memorandum; anche a tale proposito
si rinvia a M. L. Tufano, op. cit., 66 e ss.. Successivamente la
Commissione ha presentato al Consiglio una Comunicazione
sull’organizzazione comune del mercato dei trasporti del 14 settembre 1971e
un Memorandum sui trasporti come
strumento di politica regionale del 31 ottobre 1972.
[32] Il sistema di tariffazione
avrebbe dovuto comprendere tre elementi, consistenti nel costo marginale d’uso
(ovvero il costo dell’usura dell’infrastruttura provocata da ogni movimentazione,
a seconda delle caratteristiche, del peso e della velocità dei veicoli), nel
costo sociale (ovvero i costi dei danni arrecati alla circolazione, quale ad
esempio il costo di congestione, ed all’ambiente) e in un eventuale pedaggio
puro, qualora gettito derivante dalla tariffazione non avesse assicurato
l’equilibrio di bilancio della gestione dell’infrastruttura medesima.
[33] In tal senso, M. L. Tufano, I trasporti, in Professioni
e servizi nella CEE, Cedam, 1985, 229, nonché M. L. Tufano, I trasporti
terrestri nella CEE, cit., 118
ss.; ed ancora D. U. Galetta, La politica comunitaria dei trasporti, cit., 10.
[34] Si tratta della
Comunicazione della Commissione del 25 ottobre 1973, in G.U.C.E., 1973, n.16. Si aggiunga, infine, che il Parlamento Europeo
ha presentato all’Assemblea un’ampia Relazione
sulla situazione e l’evoluzione della politica comune dei trasporti del 5
gennaio 1979 (Documenti di Seduta del Parlamento Europeo n.512/78), che ha
rappresentato la base per le successive delibere parlamentari in materia.
[35] Nel corso della seconda fase
della politica dei trasporti assume particolare rilevanza l’intervento della
Corte di Giustizia che, con la più volte citata sentenza Marinai Francesi, n.167/73, aveva finalmente dissipato ogni
incertezza in ordine all’applicabilità dei principi del Trattato a tutto il
settore dei trasporti, dirimendo quindi ogni dubbio circa la presunta
specialità dei trasporti rispetto alla realizzazione del mercato comune.
[36] L’Atto Unico Europeo, di
revisione dei Trattati di Roma e di rilancio dell’integrazione europea, venne
adottato a Lussemburgo il 2-4 dicembre del 1985 dai Ministri degli Esteri degli
Stati membri; successivamente, il 17 febbraio 1986 si celebrò la cerimonia di
firma dell’Atto Unico Europeo, firmato, il giorno successivo, anche da Italia,
Grecia e Danimarca, ed entrato in vigore il primo luglio del 1987.
[37] Si tratta del Memorandum
adottato con il doc. COM 83/58 def. del 9 febbraio 1983, nonché del Libro
bianco Doc. COM (85)310 def. del 14 giugno 1985.
[38] Si tratta delle sentenze 22
maggio 1985, C. 13/83, cit., e 30
aprile 1986, C. 209-213/84 (Ministere
public c. Lucas Asjes c.a.), cit.
[39] Cfr. D.U.Galetta, La
politica comunitaria dei trasporti, cit.,
12.
[40] Cfr. F. Munari, Il diritto
comunitario dei trasporti, cit.,
53; nonché, dello stesso Autore, Il
diritto comunitario antitrust nel commercio internazionale. Il caso dei
trasporti marittimi, Cedam, 1993, 253 ss., che fornisce una ricostruzione
delle posizioni assunte in dottrina in ordine alla pronuncia della Corte.
[41] Cfr. F. Munari, Il diritto
comunitario dei trasporti, cit.,
54 e ss. e D.U.Galetta, La politica comunitaria dei trasporti,
cit., 13.
[42] In tal senso F. Munari, Il diritto comunitario dei trasporti, cit., 65 e ss, il quale condivide l’opinione espressa da J. Basedow - M. Dolfen, op. cit., par. 65. D’altronde,
sottolinea l’Autore, è proprio il traffico di cabotaggio quello che conosce,
all’atto di stipula del Trattato, le più consistenti limitazioni di accesso.
Ciò che è anche comprensibile ove si consideri che, per esempio nel trasporto
ferroviario, l’infrastruttura si identificava con l’impresa di trasporto e,
pertanto, la possibilità per i vettori stranieri di operare nei mercati interni
era drasticamente limitata, per non dire addirittura esclusa, dalla presenza di
una posizione di monopolio a livello nazionale.
[43] Si tratta del “Libro bianco sullo sviluppo della politica
comune dei trasporti. Una strategia globale per la realizzazione di un quadro
comunitario atto a garantire una mobilità sostenibile”, COM (92) 494,
pubblicato dalla Commissione il 2 dicembre 1992. Detto libro bianco fa il punto
della situazione dei trasporti, indicando le prospettive della politica comune
dei trasporti aerei, marittimi e terrestri (strada, rotaia ed idrovia), tendendo
altresì conto degli aspetti ambientali, sociali e tecnologici. La Commissione
evidenzia le difficoltà incontrate nell’attuazione di tale politica, derivanti
sia dalle divergenze esistenti nella legislazione e nella prassi dei vari Stati
membri sia dal fatto che la stessa doveva tener conto di situazioni esterne
alla comunità, ovvero dei paesi di transito e dei paesi terzi di origine e
destinazione dei trasporti. Il Libro Bianco fornisce, inoltre, una sintesi dei
dati statistici che evidenziano gli squilibri esistenti ed i tassi globali di
crescita del volume dei trasporti in relazione al PIL comunitario. In
particolare, fino al 1992, il trasporto stradale ha registrato tassi di
crescita (oltre il 4%) superiori a quelli del PIL (2 - 3%) a differenza degli
altri modi di trasporto che manifestavano un tasso di crescita inferiore o
addirittura negativo. In altri termini, il trasporto stradale è cresciuto a
ritmi frenetici rispetto ed a scapito degli altri modi di trasporto. Anche per
quanto concerne gli investimenti sulle infrastrutture di trasporto, questi si
sono concentrati sulla rete stradale (circa i 2/3 del volume globale per un
investimento pari a circa l’1% del PIL). Sotto tale aspetto, giova evidenziare
che, in termini percentuali rispetto alla crescita del PIL, gli investimenti
sulle infrastrutture sono stati inferiori rispetto all’aumento della domanda di
trasporto.
[44] Per quanto concerne gli
aspetti inerenti l’impatto ambientale dei trasporti, la Commissione aveva
adottato un apposito “Libro verde relativo
all’impatto dei trasporti sull’ambiente: una strategia comunitaria per uno
sviluppo sostenibile dei trasporti nel pieno rispetto dell’ambiente”,
COM(92)46 def., pubblicato nel maggio 1992.
[45] In particolare, il Libro
Bianco del 1992 individuava i seguenti provvedimenti essenziali: la riduzione
degli squilibri modali con azioni tendenti ad eliminare le distorsioni della
concorrenza; la creazione di reti transeuropee; l’adozione di norme tecniche
severe in materia di inquinamento e di ogni altro tipo di nocività; l’aumento
della sicurezza di tutti i modi di trasporto; il controllo severo
dell’applicazione delle regole sociali per i lavoratori, quali quelle in
materia di orario di lavoro ecc.; l’aumento della dimensione esterna del
mercato unico dei trasporti, mediante il coinvolgimento dei paesi dell’EFTA e
dell’Europa orientale, con particolare riguardo a quelli che hanno richiesto
l’ingresso nell’Europa comunitaria.
[46] L’imputazione dei costi e
delle esternalità dei trasporti è problema caro alla Commissione, giacché
investe diversi profili. Il Libro Bianco sullo sviluppo futuro del sistema dei
trasporti, infatti, si sofferma in più punti sul tema, rilevando che “gli
utenti devono sostenere costi equi; i servizi di trasporto devono promuovere la
coesione all’interno della Comunità; devono contribuire all’eliminazione delle
principali minacce ambientali ed al raggiungimento dello sviluppo sostenibile
(§ 39)... Una delle ragioni fondamentali per cui esistono squilibri ed
inefficienze è che gli utenti dei sistemi di trasporto non hanno mai dovuto
sobbarcarsi l’intero costo sociale delle loro attività e che la costruzione
delle infrastrutture di trasporto non è progredita come avrebbe dovuto. I
singoli processi decisionali hanno così prodotto risultati, in termini sociali,
inferiori al livello ottimale, compromettendo l’equilibrio fra domanda ed
offerta di trasporto, sia fra modi diversi, sia all’interno dei singoli modi (§
76)...Occorre affrontare la questione dei costi reali del trasporto e della
necessità di internalizzare i costi esterni in modo da assicurare lo sviluppo
di un sistema dei trasporti sostenibile (§ 95)... In tema di armonizzazione,
gli sforzi maggiori saranno puntati all’elaborazione di un quadro comunitario
per la tariffazione dell’uso delle infrastrutture ed altri costi a carico
dell’utenza...Le imputazioni improprie introdurrebbero tensioni dato che gli
utenti finiranno con l’accordare preferenza ai sistemi di trasporto che non
addebitano il costo pieno. L’imputazione secondo principi diversi comporterebbe
pesanti distorsioni nella concorrenza e renderebbe problematica l’elaborazione
di una strategia coerente nei confronti della politica comunitaria degli aiuti
come strumento da utilizzare per attenuare la pressione sul sistema in
difficoltà (§ 345)”.
[47] Il ruolo centrale delle
infrastrutture come veicolo di efficienza e competitività, ed in particolare la
necessità di puntare sulla creazione di una rete transeuropea dei trasporti,
viene evidenziato dalla Commissione anche nel successivo Libro Bianco Delors sulla “Crescita, competitività ed occupazione”,
COM (93) 700 def., pubblicato nel 1993, subito dopo la firma del Trattato di
Maastricht.
[48] In tal senso si esprime la
Commissione al § 57 del Libro sullo sviluppo futuro dei trasporti del 1992.
[49] È il Libro Verde “Verso una corretta ed efficace
determinazione dei prezzi nel settore dei trasporti. Strategie per
l’internalizzazione dei costi esterni dei trasporti nell’Unione Europea”,
COM (95) 961 def.. In tale documento la Commissione sostiene la necessità di
introdurre, in aggiunta alla politica di regolamentazione, una politica dei
prezzi basata sui costi sociali. Il Libro verde si concentra, principalmente,
sulle problematiche relative al trasporto stradale che, oltre a non coprire il
costo delle infrastrutture necessarie, produce circa il 90% dei costi esterni
(congestione, incidenti, inquinamento acustico ed atmosferico) che si
riversano, quasi integralmente, sulla collettività. Con riferimento, invece, al
settore ferroviario, viene evidenziata la necessità di affrontare in modo
coordinato ed approfondito la questione relativa al recupero dei costi delle
reti. Viene, infatti, riscontrata una forte mancanza di corrispondenza tra
l’attuale sistema infrastrutturale e la domanda commerciale di moderni servizi
ferroviari. La progressiva liberalizzazione del mercato dovrebbe rendere gli
operatori ferroviari più sensibili alle forze di mercato, spingendoli ad
adeguare la struttura dei propri servizi ed a variare, quindi, anche la domanda
di infrastrutture. Soltanto se verrà attuato quel processo di risanamento
finanziario delle ferrovie richiesto dalla direttiva 91/440 sarà legittimo
attendersi un netto miglioramento della situazione, grazie al quale il settore
potrà più facilmente sostenere i costi delle infrastrutture.
[50] Commissione Europea, Libro Bianco Pagamento commisurato all’uso
dell’infrastruttura: approccio graduale a un quadro comune di fissazione degli
oneri per l’infrastruttura di trasporto nell’UE, COM (1998) 466 def. del 22
luglio 1998. La Commissione prevedeva tre fasi di attuazione del programma
illustrato nel Libro Bianco: la prima fase preparatoria, riguardante il periodo
1998 - 2000, sarebbe servita a raggiungere un’intesa sulle metodologie idonee a
misurare i costi marginali e sull’idea di prelevare gli oneri nel punto di
utilizzazione; nella seconda fase, per il periodo 2001-2004, si sarebbe dovuto
provvedere all’adattamento di oneri particolari ed all’armonizzazione dei
sistemi applicati ai diversi modi di trasporto; l’ultima fase, per il periodo
successivo al 2004 e fino a data da destinarsi, avrebbe previsto l’applicazione
completa dei principi armonizzati, tenendo conto delle prime esperienze
maturate nel corso della seconda fase.
[51] Il costo marginale sociale è
un costo variabile che corrisponde “al costo di un veicolo addizionale o di una
unità di trasporto addizionale che utilizza l’infrastruttura. In senso stretto
possono variare minuto per minuto in funzione dei vari utenti del trasporto in
momenti diversi, in differenti condizioni e in luoghi distinti”. Tra le
componenti del costo marginale rientrano i costi operativi (costo dell’energia,
del lavoro e taluni costi di manutenzione), i costi dei danni
all’infrastruttura (manutenzione e usura dell’infrastruttura), i costi della congestione
e della scarsità delle risorse (costo dei ritardi causati ad altri utenti o non
utenti e quelli derivanti dall’impossibilità di utilizzare contemporaneamente
la medesima rete), i costi ambientali (inquinamento atmosferico, idrico e
acustico), i costi degli infortuni (danni alle cose, alle persone e mancata
produzione) (cfr. par.7 Libro Bianco).
[52] Libro Bianco “La politica
europea dei trasporti fino al 2010: il tempo delle scelte”, COM (2001) 370.
[53] Uno studio sugli effetti
dell’apertura dell’Unione ai nuovi quindici Stati è stato realizzato dalla European Federation for Transport and
Enviroment, Be smart, do it
better. A guide to sustainable transport in accession countries, Bruxelles,
dicembre 2002.