Cavaliere, mi consenta
un consiglio. Licenzi i suoi consulenti
in materia di giustizia. Quelli che, da
quando è sceso in politica, le hanno suggerito a ripetizione iniziative
sbagliate su giustizia e giudici, che non sono quelle che ci si aspetta da un grande leader politico e di governo che abbia una serena e
profonda visione istituzionale. Gli stessi che l’hanno evidentemente convinta
che la sentenza della Corte costituzionale, che ha bocciato la legge 20
febbraio 2006, n. 46 (c.d. “Pecorella”), che ha sostituito l’art. 593 del
codice di procedura penale escludendo l’appello del Pubblico Ministero in caso di assoluzione dell’imputato, sia “una cosa indegna”.
Aggiungendo che “siamo l’unico Paese in cui una persona, che è stata assolta, è
all’assoluta mercé di un’altra persona”.
Sono le sue parole,
come le riferisce il Corriere della Sera
del 25 gennaio, a pagina 11. E provano una personale
concezione della parità delle “parti” nel processo penale, sulla
base di un equivoco di fondo, alimentato dalle opinioni
(rispettabilissime, ma errate) di una parte dell’avvocatura, indotta dalla
riforma Vassalli, maldestra scimmiottatura del processo penale “all’americana”.
Quello, per intenderci, alla Perry Mason, fatto di colpi di scena, di trovate
dell’avvocato-investigatore alle prese con un Procuratore distrettuale ottuso
persecutore di innocenti, quando il colpevole stava in
aula a godersi la sceneggiata, lì, sempre seduto sulla seconda sedia della
prima fila, fino alla sua scoperta, con un coup
de theatre che tanto entusiasmava nonne e zie dinanzi al picolo schermo.
Vede,
Ma andiamo per ordine.
Cavaliere, ricorda come inizia
l’udienza in un processo all’americana? L’Usciere chiama la causa: “lo Stato di New York contro mister Brown”. Questo vuol dire che è lo stato come persona giuridica, come potere
politico e amministrativo che chiede conto al presunto colpevole del suo
comportamento. Tanto è vero che il Procuratore distrettuale viene
eletto dal popolo, cioè esprime il “desiderio di giustizia” della maggioranza
della popolazione, rispetto ad un comportamento ritenuto in contrasto con il
sentire medio.
Per cui nei film – gli americani sono
spesso severi e impietosi nel denunciare i loro difetti – si vedono Procuratori
che perseguono innocenti per guadagnare consensi in vista della conferma, ecc.
Il nostro sistema è diverso. L’azione
penale è obbligatoria (art. 112 della Costituzione), a garanzia di imparzialità, ed è rimessa all’iniziativa di un organo
pubblico e indipendente, il Pubblico Ministero, appunto, che la esercita non
nell’interesse dello Stato-persona, cioè del potere politico-amministrativo, ma
dello Stato-ordinamento, cioè della legge. Con la conseguenza
che il P.M. italiano può andare anche in diverso avviso rispetto
all’amministrazione che avesse denunciato il fatto. Situazione evidente
nel caso del giudizio di responsabilità dinanzi alla
In questo sistema, com’è essenziale
l’obbligatorietà dell’azione penale, è ugualmente fondamentale che il Pubblico
Ministero sia indipendente e che abbia la cultura della giurisdizione. I
magistrati, infatti, “si distinguono fra loro soltanto per diversità di
funzioni”, precisa il terzo comma dell’art. 107 della Costituzione. Per cui, se
sono distinte le funzioni giudicanti da quelle requirenti, identica è la
formazione professionale dei magistrati che possono passare dall’esercizio di
una funzione all’altra, ovviamente con delle regole, perché non si verifichino situazioni di incompatibilità, non tanto
giuridica (ben disciplinate), ma psicologica e di fatto che darebbero
un’immagine negativa della giustizia agli occhi del cittadino.
Il codice Vassalli ha inciso negativamente su questo
quadro istituzionale che si ricava dalla Costituzione ed ha trasformato il P.M.
in un superpoliziotto, attribuendogli, in sostanza, funzioni che non sono sue
Abbiamo voluto fare gli americani. E ne paghiamo le conseguenze, in termini di disagio e di
polemica politica.
Ma questa è un’altra cosa e ne
parleremo a parte.
Sta di fatto che dal processo
all’americana si fa derivare un concetto di parità delle parti che non è
esatto. È fortemente squilibrato ai danni di chi deve
perseguire la punizione dei reati. È quello che ha mosso la “legge Pecorella”,
definita da molti commentatori ad personam, nel
senso che avrebbe giovato soprattutto ad alcuni imputati “eccellenti”. Ed oggi l’On. Avv. Gaetano Pecorella, per compiacerla,
La verità l’ha scritta
Vittorio Grevi, sempre sul Corriere
del 25 gennaio, a pagina 38, titolando “Ristabilito l’equilibrio tra accusa e
difesa”. Quando osserva, anche con riferimento al “messaggio” con il quale il
Presidente Ciampi aveva rinviato alle Camere la legge, che si era determinata
una “grave e irragionevole ‘asimmetria’… tra accusa e difesa sul terreno del
potere di appello. Se da un lato, infatti, scrive
Grevi, in capo all’imputato veniva mantenuta la consueta
ampia possibilità di proporre appello contro le sentenze di condanna,
dall’altro la riduzione ai minimi termini del potere di appello del Pubblico
Ministero contro le sentenze di proscioglimento veniva a determinare una realtà
di concreto e non giustificabile squilibrio tra le posizioni dell’uno e
dell’altro protagonista del processo, di fronte alla sentenza di primo grado”.
In sostanza rivelando una “obiettiva inconciliabilità con il principio della
‘parità tra le parti’… a causa della irragionevole
disparità di trattamento per tale via introdotta tra il Pubblico Ministero e
l’imputato”.
Attendiamo di
leggere la sentenza, con la serenità che l’importanza del caso impone. Evitando le qualunquistiche dissertazioni alla Giacalone, che
attende le motivazioni precisando che “dopo averle lette sapremo dove ha
sbagliato la Corte costituzionale o dove ha trovato l’articolo che rende
incostituzionale la civiltà giuridica” (Libero
del 26 gennaio, a pagina 9).
Ma
di questo la sua maggioranza non si è data carico. Ne parleremo un’altra volta.
Salvatore Sfrecola