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Il Senso dellO STATO
a cura di Salvatore Sfrecola |
In
barba agli interessi del cittadino contribuente.
Per ridurre i poteri delle Procure della Corte dei conti in campo un
parlamentare che di finanza e controlli dimostra di saperne poco o niente.
Dice di non essere "un prestanome". E aggiunge "ho studiato, so tutto sul
tema", come titola La Repubblica di oggi, a pagina 8. Ma quando viene
incalzato dal giornalista, Antonello Caporale, che ricorda come il suo
emendamento sulla Corte dei conti e sui poteri delle Procure regionale
abbia destato "grande polemica politica" si defila. "Potrebbe utilmente
parlarne con il presidente della Commissione, il collega Bruno. Conosce la
materia", è la sua risposta.
Ma allora che ruolo ha avuto Maurizio Bernardo, parlamentare del Popolo
della Libertà, classe 1963 (è nato il 3 giugno a Palermo), dottore in
sociologia, imprenditore del marketing e della pubblicità, come si legge
sul Sito della Camera, assegnato alla Commissione finanze?
Non vuole entrare nel merito. "Vorrei prendermi una giornata di riposo,
riflettere, riparare nel silenzio. Avremo modo di spiegare". E quando
Caporale azzarda che nell'emendamento ci sia "lo zampino di Tremonti", la
risposta è ancora una volta dilatoria: "la prego, ne parli con l'onorevole
Bruno". Insomma Bernardo ha tirato il sasso ed ha nascosto la mano. Ma il
sasso chi glielo ha messo in mano, fidando nella sua evidente
impreparazione giuridica e della scarsa sensibilità istituzionale, nonché
dell'assoluto disinteresse per le aspettative del "cittadino contribuente"
che da sempre pretende che le risorse che con proprio personale
sacrificio, pagando imposte e tasse, ha messo a disposizione dell'autorità
pubblica siano spese nell'interesse generale?
Questo disinteresse per il cittadino, che ha caratterizzato gran parte
della classe politica italiana almeno dal secondo dopoguerra, si è
accentuato oggi che i parlamentari vengono nominati e non eletti perché
non c'è voto di preferenza e chi entra a Montecitorio o a Palazzo Madama
acquisisce quel ruolo in virtù della sua collocazione in lista, quella che
ha voluto il segretario del suo partito. Nessun merito nel successo,
nessuna campagna elettorale alla "vota Antonio", come ci ha insegnato Totò
con la gustosa piece del candidato, quando i voti si dovevano conquistare,
uno ad uno, non solo nei confronti del partiti alleati ma anche dei
compagni di lista, per poter rientrare nel numero dei seggi assegnati.
A pensarci bene l'intervista dell'On. Bernardo è terrificante. Su un tema,
come quello delle garanzie che devono assistere la gestione del pubblico
denaro, cioè di tutti, che attiene al funzionamento della magistratura che
per prima è stata riordinata all'indomani dell'unificazione nazionale, il
Parlamento è investito di modifiche destinate ad effetti negativi sulla
legalità della gestione finanziaria e patrimoniale da un deputato che,
richiesto di spiegare perché ha fatto quelle proposte, invita a parlarne
al "collega Bruno. Conosce la materia".
Ogni ulteriore commento è superfluo. L'istituzione che è al centro del
sistema costituzionale delle garanzie nella gestione del pubblico denaro
viene trattata come un entucolo di periferia.
E nessuno si scandalizza!
30 luglio 2009 |
La
potente lobby dei gestori degli stabilimenti balneari.
Quando lo Stato non valorizza i beni demaniali marittimi.
In prossimità dell'estate, ogni anno, torna alla ribalta il problema dei
canoni demaniali marittimi, cioè delle somme che i gestori degli
stabilimenti balneari o delle attività economiche (bar, ristoranti, ecc.)
debbono allo Stato per effetto della utilizzazione, a fini
imprenditoriali, di tratti di arenili.
I termini del problema sono i seguenti: lo Stato unico proprietario delle
spiagge e del lido del mare, in quanto demanio necessario, può dare in
concessione quei beni per uso turistico a fronte del pagamento di un
canone, come si chiama l'affitto dei beni demaniali. Si tratta di somme
spesso modeste, poche centinaia o migliaia di euro al massimo, poco più,
come osserva oggi il Corriere della Sera, dell'importo di un abbonamento
per una cabina di lusso.
Lo Stato ha tentato più volte di aumentare i canoni, sempre ostacolato
dalla potente lobby dei gestori i cui argomenti sono di vario genere,
complice un atteggiamento tollerante dell'amministrazione pubblica, prima
quella marittima, oggi degli enti locali. In questi ambienti si sostiene,
infatti, e la tesi è ovviamente ripresa dai gestori, che coloro che
svolgono attività imprenditoriale sulle spiagge in realtà svolgono una
funzione pubblica in quanto tengono pulito l'arenile ed assicurano la
tutela dei bagnanti con servizi di assistenza vari, a cominciare dai
bagnini. Di più, qualcuno afferma che non si può attraverso il canone far
pagare una tassa ai gestori.
Occorre fare chiarezza in proposito.
In primo luogo c'è una regola fondamentale. Lo Stato proprietario del bene
lo concede in uso per finalità imprenditoriali e quindi deve trarne una
utilità che va rapportata al valore del bene. E' evidente, infatti, che
una spiaggia al centro di una località turistica "in" non ha lo stesso
valore imprenditoriale di una identica porzione di costa fuori del centro
abitato. Ugualmente deve dirsi della conformazione della costa, se
rocciosa o sabbiosa e, in questo caso, di quale dimensione.
Detto questo e considerato che il valore del bene, in quanto destinato ad
attività produttive, dovrebbe determinare la misura del canone, lo Stato
non dovrebbe considerare altro, neppure l'attività di pulizia dell'arenile
(che, peraltro, è configurata nel disciplinare come un onere del
concessionario), che sarebbe compito dello Stato o dell'ente locale
assicurare per la sicurezza dei bagnanti, ove la spiaggia fosse totalmente
"libera". Infatti la pulizia degli spazi per l'attività imprenditoriale
turistico-ricreativa è esigenza che il gestore dovrebbe soddisfare anche
se svolgesse l'attività in un locale chiuso o fornito di un giardino.
Ma ammesso che si debba considerare in una certa misura l'utilità
pubblica, a fini generali, dello stabilimento balneare questa dovrebbe
essere misurata e considerata nella determinazione del canone.
Da ultimo ho sentito ripetere più volte in ambienti di autorità che
provvedono al rilascio delle concessioni demaniali marittime, che erano
prima lo Stato, attraverso le Capitanerie di Porto, oggi gli enti locali,
che attraverso il canone si farebbero pagare, di fatto, le imposte.
Sciocchezza di proporzioni gigantesche, tanto, facevo notare a simili
interlocutori, che se avessero affittato un loro immobile evidentemente ne
avrebbero ricevuto un canone, mentre in caso di locazione ad imprenditori
o professionisti questi avrebbero pagato le imposte per effetto dei
guadagni conseguenti alla loro attività, Come i gestori degli stabilimenti
balneari pagano le imposte sulla base dei guadagni che derivano dalla loro
attività.
Con queste fantasiose elucubrazioni mentali lo Stato perde denaro che
sarebbe necessario per la comunità. Un caso da Corte dei conti che,
infatti, è intervenuta per sanzionare l'omessa individuazione, da parte
delle regioni, delle aree di maggior pregio e, pertanto, meritevoli di
canoni più elevati, e per la complessiva gestione del patrimonio demaniale
marittimo sul quale l'Agenzia del Demanio dovrebbe assumere determinazioni
più confacenti alla tenuta degli inventari ed alla valorizzazione dei
beni. Lobby permettendo, ovviamente. |
Difensori
civici addio?
La riforma Calderoli vorrebbe eliminare questa figura che media tra
amministrazione e cittadini (in Europa, infatti, si chiama "Mediatore").
In origine si chiamava Ombudsman. Lo avevano inventato nei paesi del
Nord Europa, in Svezia, per l'esattezza. Nel trattato dell'Unione europea
il "Mediatore", nominato dal Parlamento, " abilitato a ricevere le denunce
di qualsiasi cittadino dell'unione o di qualsiasi persona fisica o
giuridica e risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro, e
riguardanti casi di cattiva amministrazione nell'azione delle istituzioni
o degli organi comunitari.. Ogni anno il mediatore presenta una relazione
al Parlamento europeo sui risultati delle sue indagini" (art. 195). In
Italia si chiama "difensore civico", per ricordare il defensor civitatis,
magistrato cittadino introdotto nella prima metà del secolo quarto per
difender i plebei delle città dagli abusi commessi contro di essi dagli
honorati (i titolari delle cariche pubbliche), soprattutto per quanto
riguardava la riscossione delle imposte. Esiste nelle regioni e nei
comuni, che a volte si consorziano per avere un unico soggetto deputato a
questo compito. Che è quello di rappresentare alle pubbliche
amministrazioni le doglianze che gli vengono rappresentate dal cittadino.
Non ha poteri coercitivi, ma con la sua autorevolezza ottiene spesso dalle
amministrazioni il riconoscimento dei diritti dei cittadini, evitando che
questi si rivolgono al giudice civile o amministrativo, con oneri per le
amministrazioni e responsabilità. Anche sotto il profilo dell'immagine
deteriore che le amministrazioni inadempienti in tal modo offrono al
cittadino.
E' una figura utile senza dubbio, della quale ci si attendeva la messa a
punto quanto ai poteri e il rafforzamento della struttura, perché il
difensore civico abbia almeno un segretario e un archivio per poter
seguire le "pratiche" e riferire agli organi espressivi della comunità,
regionali, provinciali e comunali su quanto ha fatto e su ciò che ha
potuto constatare attraverso la sua attività.
Invece la bozza di riforma del Ministro Calderoli, a quanti riferisce il
Corriere della Sera di oggi, fra le altre cose che prevede, sulle quali
torneremo, prevede l'abolizione dei difensori civici. È un errore anche di
prospettiva, perché il cittadino percepisce immediatamente di essere
espropriato di uno strumento di difesa contro gli atti della pubblica
amministrazione lesivi di un proprio diritto o interesse che potrebbe
essere ripristinato senza dover ricorrere al defatigante strumento
giurisdizionale.
Perché, dunque, abolire una istituzione che esiste in tutti paesi d'Europa
la quale, anzi, chiede agli Stati membri l'istituzione di un difensore
civico nazionale, figura sulla quale ebbi modo di lavorare qualche anno fa
alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che in proposito aveva
istituito una commissione.
Una rete capillare di difensori civici sul territorio, a livello comunale,
provinciale e regionale avrebbe, come ho accennato, il compito importante
di fornire alla potere politico, al livello delle assemblee elettive, un
monitoraggio importante delle situazioni che il cittadino lamenta come
espressione di una cattiva amministrazione. In questo senso i difensori
civici oltre a deflazionare il ricorso alla giurisdizione, ordinaria e
amministrativa, sono dei sensori importanti della gestione pubblica,
mettendo in condizione chi deve amministrare di conoscere come il
cittadino percepisce le scelte fatte, con immediatezza, prima del momento
elettorale.
"Conoscere per deliberare", diceva Luigi Einaudi studioso di economia e di
storia, un piemontese avvezzo alla buona amministrazione, in apertura
delle sue famose "Prediche inutili". Si chiedeva, di fronte ad espressioni
del tipo: "la soluzione si trascina"; "il problema, una volta posto, deve
essere risoluto"; "urge, non si può tardare oltre ad affrontare la
questione", perché mai "il governo, perché il parlamento, perché il
ministro competente tardano tanto?" Per giungere alla conclusione "come si
può deliberare senza conoscere?", dacché è evidente che se le cose non
vanno vuol dire che si è deciso senza conoscere.
Ad Einaudi ha fatto eco Giuseppe Medici in un aureo volumetto dal titolo
"Conoscere per amministrare". Siamo sempre lì. Prima si pensa, poi si
agisce.
Questi autorevoli moniti hanno evidentemente dimenticato i collaboratori
del Ministro Calderoli i quali suggeriscono che si deliberi la
soppressione dei difensori civici con scarsa conoscenza della realtà
amministrativa che attraverso di essi può essere percepita e del ruolo che
gli stessi ricoprono, nonostante la scarsità di mezzi e l'ostilità
dell'amministrazione che assai poco li tollera e della politica che a
stento li sopporta.
Riformare e compito difficile. |
I componenti dureranno in carica tre anni.
La scorrettezza istituzionale del Ministro Bindi Istituito l’Osservatorio
nazionale sulla famiglia a governo in crisi, alla vigilia delle elezioni.
Non entriamo nel merito delle scelte. Lo ha fatto Avvenire di oggi con un
articolo di Francesco Riccardi, a pagina 11, con molta
determinazione,richiamando alcune osservazioni dell’On. Luisa Capitanio
Santolini, dell’Unione dei Democratici di Centro, che ha contestato le
nomine fatte dal Ministro Rosy Bindi che, con decreto del 13 marzo scorso,
ha individuato i componenti dell’Assemblea, del Comitato di coordinamento
e del Consiglio tecnico-scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla
famiglia.
La nomina, con decorrenza dalla data di registrazione provvedimento, ha la
durata di un triennio.
La formula della decorrenza è inusitata, in quanto, com’è noto, la
decorrenza dei provvedimenti soggetti a registrazione è quella della data
del decreto. Infatti, il visto della Corte dei conti rende efficace il
provvedimento con effetti dalla data dello stesso.
In questa sede non interessa se le varie componenti culturali, in
particolare quella cattolica, siano presenti in modo adeguato nel nuovo
organismo, come ha contestato la Santolini.
Quel che è singolare è la nomina, effettuata a governo in crisi da tempo,
ad un mese dalle elezioni dalle quali scaturità un nuovo esecutivo.
Infatti, anche se dovesse rimanere l’attuale maggioranza il governo, nuovo
a tutti gli effetti, si troverebbe nella situazione imbarazzante di
accettare a scatola chiusa le scelte della Bindi o cambiare i componenti
dell’Osservatorio che sono di nomina governativa.
È una cosa che in un Paese serio, nel quale vigono le regole del diritto
ed il rispetto delle istituzioni, non si dovrebbe fare.
Eppure il Ministro delle politiche per la famiglia, che ha avuto tutto il
tempo per dare corpo all’Osservatorio, previsto dall’articolo 1, commi
1250 e 1253 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007),
lo ha istituito con proprio decreto del 30 ottobre 2007, n. 242, con
previsione della sua durata triennale, corrispondente al programma di
attività, ed ha provveduto alle nomine solo il 13 scorso.
Un organismo pletorico, 46 membri, una sorta di piccolo Consiglio
Nazionale dell’Economia e del Lavoro, è stato detto. E già il nome non
porta bene, in quanto il CNEL, pur previsto dalla Costituzione all’art.
99, con funzioni indubbiamente rilevanti, tra cui quella di fornire
consulenza alle Camere ed al Governo e assumere iniziative legislative,
non riesce ad incidere sul dibattito e sulle decisioni delle une e
dell’altro.
Non si fanno queste cose Ministro Bindi! In tempi di crisi si attende il
nuovo governo. Temeva di essere accusata di non avervi provveduto? In
effetti il tempo è stato poco, avrebbe potuto spiegare, e sarebbe stata
una giustificazione migliore di quelle con le quali ha cercato di
rintuzzare le polemiche con fare saccente e intollerante, more solito. E
un po’ esibizionista come quel definirsi Rosy, quando all’anagrafe è Maria
Rosaria, che forse nella toscana Sinalunga, dov’è nata e della quale
ostenta l’accento, non è gradita. Più coerente Pannella, all’anagrafe
Giacinto, che usava scrivere anche sui manifesti detto Marco.
29 marzo 2008 |
Improprie “esternazioni”
di Mancino (Vicepresidente del CSM) e Scotti (Sottosegretario alla
giustizia) sul caso Mastella - Lonardo: è un problema di stile.
Mi hanno lasciato molto perplesso le dichiarazioni dell’On. Mancino,
Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, il quale, in
margine alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte
d’appello di Napoli, ha dato un giudizio severo sulla misura degli arresti
domiciliari disposta dai magistrati di Santa Maria Capua Vetere nei
confronti di Sandra Lonardo Mastella, moglie dell’ex Guardasigilli
dimessosi proprio a seguito di quell’inchiesta: “Personalmente - ha
affermato Mancino - ritengo che non ci fossero quelle condizioni che
legittimano la custodia cautelare”. Sulla stessa linea l’intervento,
sempre a Napoli, del Sottosegretario alla Giustizia, Luigi Scotti, ex
presidente del Tribunale di Roma: l’arresto della moglie di Mastella
-dice- è “inconcepibile”.
Non entro nel merito della vicenda. Può darsi che Mancino e Scotti, che
certamente hanno elementi maggiori di quelli acquisiti dalla stampa,
abbiano pienamente ragione nel criticare severamente l’operato dei
giudici. Ma essi non possono fare dichiarazioni “personali”, come privati
cittadini. Essi, infatti, non sono privati cittadini, ricoprono cariche
istituzionali rilevanti. Mancino, addirittura, quella di Vicepresidente
dell’organo di autogoverno della Magistratura. Scotti, ex magistrato, è
Sottosegretario alla giustizia.
Possiamo essere d’accordo con un’altra esternazione di Mancino: quelle
‘toghe’ che agiscono come ‘schegge’ sbagliando non possono coinvolgere
“l’intera magistratura in un’attività che è destabilizzante sul piano
generale”. Lo diciamo da tempo. Alcuni magistrati fanno male a se stessi
ed all’intera Magistratura.
Tuttavia a Mancino ed a Scotti si richiede un riserbo che è misura di uno
stile istituzionale che evidentemente è andato perduto nel degrado del
costume che caratterizza questa stagione della Repubblica.
I coniugi Mastella hanno i loro avvocati ai quali è consentita ogni
valutazione sull’operato dei giudici, anche la più critica. Hanno avuto la
solidarietà personale e politica dei colleghi parlamentari.
Chi rappresenta le istituzioni mantenga il riserbo e l’equilibrio che dia
pubblicamente conto del necessario equilibrio nell’esercizio delle
delicatissime funzioni. Certe esternazioni costituiscono un vulnus
all’immagine della stessa istituzione.
Un po’ di stile, perbacco! Imparate dal Senatore Giulio Andreotti, che ha
stretto la mano al suo accusatore, in aula, davanti alle telecamere,
nonostante l’immaginabile grandissima amarezza per le pesantissime accuse.
26 gennaio 2008 |
Abbiamo toccato il fondo!
Con il punto esclamativo. Ero tentato di usare l’interrogativo perché
questa classe politica, senza vergogna e senza pudore, chi riserverà senza
dubbio novità negative. Non è bastata, infatti, la "monnezza" a
svergognare l'Italia a livello mondiale. C’è voluto anche il Ministro
della giustizia che, inquisito, si dimette ma resta in carica perché il
Presidente del consiglio gli chiede di non lasciare la poltrona. Perché
teme di perdere la sua!
Veramente abbiamo toccato il fondo! Nella “prima Repubblica” i ministri si
rimettevano per un semplice avviso di garanzia, cioè per un atto formale
adottato dal giudice per mettere in condizione il presunto responsabile di
difendersi. Nella “seconda Repubblica” il Ministro della giustizia, il
responsabile del dicastero cui, in senso lato, fanno riferimento i
giudici, rimane in carica nonostante sia inquisito e siano inquisiti
parenti, famigli e sodali, per reati contro la pubblica amministrazione.
Chi crede nello Stato e lo vede ostaggio di questi politici di basso conio
si sente umiliato ed offeso nella sua dignità di cittadino. Sono i
politici i quali hanno consentito che una delle aree più belle del Paese
diventasse un'immensa discarica a cielo aperto, con evidenti problemi di
inquinamento ambientale e di salute, senza che nessuno sia intervenuto
seriamente per far cessare questo scempio. E ancora non si è parlato
dell'inquinamento delle falde acquifere cioè dell'acqua che beviamo e di
quella, spesso maleodorante, con la quale vengono irrorate le campagne
dalle quali provengono i prodotti che troviamo nei mercati di tutta Italia
e in Europa.
E cosa dire dei parlamentari che applaudono il discorso del Ministro
Mastella, non solo per le parole a difesa di se stesso, della propria
famiglia e del proprio partito? Il fatto è che la solidarietà, giusta e
dovuta sul piano umano, è venuta in concomitanza con i passaggi nei quali
il Ministro si è scagliato contro l'operato della magistratura.
Il rapporto fra classe politica e giudici è difficile da sempre e in ogni
parte del mondo. Il politico non accetta il controllo giudiziario. Eletto
dal popolo, si sente onnipotente e ritiene che solo al popolo debba
rispondere del suo operato. Ma in un ordinamento democratico e civile, in
uno stato di diritto, il politico, come ogni altro cittadino risponde
anche ai giudici per l'azione svolta quando essa è in contrasto con le
leggi e l'interesse generale al buon funzionamento dell'amministrazione e
alla tutela del denaro pubblico.
Ricordiamo che il Senatore Mastella, Ministro della Repubblica, è anche
quello che si è speso, all'inizio del 2007, a difesa del famigerato
emendamento Fuda alla legge finanziaria per il 2007, con il quale si
cancellavano i processi e le inchieste della Corte dei conti per danno
all'erario e che, se fosse rimasto nell'ordinamento (ma fu opportunamente
abrogato con un tempestivo decreto-legge a seguito della rivolta
dell’opinione pubblica), avrebbe reso praticamente impossibile l'azione
del Pubblico Ministero presso la Corte dei conti nelle indagini a carico
di quanti hanno prodotto danno all'erario.
In quelle frasi di Mastella, allora e ieri in Parlamento, c'è tutta una
concezione della politica che le persone perbene istintivamente rifiutano.
Una politica senza controlli, una politica assolutamente libera, non solo
nelle decisioni che sono espressione della realizzazione dell’indirizzo
politico, com'è giusto che sia, ma anche rispetto alle leggi che la stessa
classe politica ha approvato.
È un momento difficile della vita dello Stato. Con un governo modesto (è
un complimento!), e di un’opposizione modestissima. Ed è un complimento al
Presidente Berlusconi, erede di un'esperienza governativa della quale si
possono ricordare soltanto alcuni provvedimenti controversi. Un governo
che ha avuto la maggioranza più ampia della storia d'Italia, mandata a
casa per aver deluso, gravemente deluso, quanti l'avevano votata, ed oggi,
all'opposizione, delude per la sua incapacità di rappresentare un’ipotesi
alternativa all'attuale governo.
Un momento difficile. Per l'Italia, per i cittadini, tartassati da un
sistema fiscale ingiusto, in presenza di un aumento del costo della vita
che nella realtà percepita è senza dubbio superiore a quello che dicono
gli indici ufficiali delle statistiche. Quelle statistiche che l'ex
Ministro delle finanze Francesco Forte, illustre economista, ha detto di
sospettare da tempo non essere veritiere.
Questa situazione non può durare a lungo. L'Italia intera è allo sfascio.
Uno sfascio morale prima di tutto. E non si vede all’orizzonte un raggio
di luce.
17 gennaio 2008 |
C’è un giudice a Roma,
stavolta si chiama Consiglio di Stato.
C’è un giudice a Roma, potrà adesso dire Angelo Maria Petroni allontanato
dal Consiglio di amministrazione della RAI con una procedura che il
Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio ha giudicato illegittima e
che il Consiglio di Stato ha ritenuto di non dover sospendere.
Fumus boni iuris, diciamo noi giuristi richiamando il noto brocardo romano
quando la questione appare, ad una prima, sia pur sommaria, valutazione di
una ragionevole consistenza o inconsistenza. Per cui nella procedura
cautelare, che attiene alla decisione sulla richiesta del Ministero
dell’economia, l’istanza di sospensiva è stata considerata priva della
necessaria fondatezza, cioè del fumus boni iuris oltre che del periculum
in mora, un apprezzabile rischio per l’appellante Ministero e per la RAI a
seguito del reintegro di Petroni deciso dal TAR.
I giudici di Palazzo Spada, infatti, hanno ritenuto che non sussistessero
le condizioni per sospendere l’efficacia della sentenza del TAR che il
Ministero dell’economia aveva richiesto, in attesa della decisione nel
merito del Consiglio di Stato, e sulla quale l’Avvocatura generale dello
Stato si era spesa molto, tra l’altro contestando la giurisdizione del
giudice amministrativo nella vicenda, per essere la RAI società privata,
sia pure a capitale pubblico. Tesi ardita, ma comprensibile per evidenti
esigenze difensive dell’Amministrazione, in quanto da tempo la Cassazione,
che è il giudice della giurisdizione, ha aperto alla competenza del
giudice amministrativo ogni volta che vi siano interessi pubblici in
campo. Come nel caso della giurisdizione della Corte dei conti in materia
di danni erariali, finalmente riconosciuta dalle Sezioni Unite anche in
caso di gestione in forma privata di risorse pubbliche.
C’è, dunque, un giudice a Roma, che tiene a bada i prepotenti manomissori
delle regole del diritto, delle procedure di garanzia che, come nel caso
di Petroni, in considerazione della funzione pubblica del servizio
radiotelevisivo, prevede il coinvolgimento della Commissione parlamentare
di vigilanza nella nomina del Consigliere di amministrazione RAI di
pertinenza del Ministero dell’economia che della società è azionista
unico.
Intanto la polemica monta anche con considerazioni di basso livello
giuridico, che vuol dire di scarsa consistenza politica, che, per carità
di patria, in questa occasione mette conto non approfondire.
Petroni, epistemologo delle scienze umane e filosofo, corre adesso un solo
rischio, quello di riempire pagine e pagine di giornali e di google delle
polemiche legate alla vicenda RAI piuttosto che di riferimenti ai suoi
scritti scientifici che gli hanno fatto meritare la cattedra e lo hanno
collocato nel circuito dei più noti studiosi di filosofia.
Un’ultima considerazione per connessione, si direbbe in linguaggio
processuale. Che dire dell’ex Ministro Castelli che accusa Padoa Schioppa
di abuso d’ufficio (Corriere della Sera di oggi, a pagina 10), quel reato
che qualche giorno fa, in occasione delle indagini sul Sindaco Moratti per
l’attribuzione di funzioni dirigenziali ad certo numero di estranei
all’amministrazione, auspicava fosse soppresso!
5 dicembre 2007 |
La rivolta dei taxi.
L’impotenza del potere.
Il blocco del centro di Roma ieri, in ostaggio dei tassisti della
Capitale, è prova inequivocabile dell’impotenza del potere che accetta di
essere ricattato da una categoria di lavoratori che, tra l’altro, assicura
un pessimo servizio alla cittadinanza.
Perché questa è la verità. A Roma trovare un taxi è sempre difficile,
impossibile se piove. D’estate i taxi viaggiano senz’aria condizionata
“perché fa male”. In realtà l’auto consuma un po’ di più. Niente aria
condizionata, niente mance, è diventata da alcuni anni la mia regola. Per
non dire che i percorsi dei taxi sembrano spesso gite turistiche in città,
con scelta degli itinerari segnati dal traffico più intenso.
Di fronte a questa situazione, i partiti giocano sulla pelle dei cittadini
una partita che vale poche migliaia di voti ma l’immagine stessa della
Città.
Poche migliaia di voti che dimostrano l’inconsistenza politica di chi
guida i partiti nella Capitale, con una visione miope del problema,
un’incapacità di guardare oltre. “Da un punto di vista strategico – scrive
Goffredo Buccini sul Corriere della Sera di oggi, in apertura della
cronaca di Roma – una forza conservatrice matura si accolla gravi rischi
assecondando o addirittura avallando forme di lotta così inconciliabili
con la convivenza civile”. Il riferimento è ad Alleanza Nazionale e alla
Destra, tradizionalmente vicini ai tassisti. Ma forse si gioca solo allo sfacio.
Questi “difensori” dei tassisti sussurrano all’orecchio che difendono chi
spesso sarebbe stato costretto ad esborsi impropri per l’assegnazione
delle licenze, un linguaggio oscuro che forse fa intendere che ci siano
stati illeciti, non è chiaro a quali livelli ed in quale forma, per la
“conquista” di un posto in macchina.
Se è così, la strada non è quella di perpetuare un monopolio che forse è
all’origine di certe situazioni poco chiare, ma di aprire il mercato in
termini fisiologici e compatibili con il ruolo della Città e denunciare
alla competente autorità giudiziaria gli illeciti che tanto fumosamente si
evocano.
Se poi non è vero, come mi auguro, è evidente che è inammissibile quanto è
accaduto.
E poiché in questa stagione va di moda evocare Sarkozy, ricordiamo che, da
Ministro degli interni, in occasione dello sciopero dei TIR che bloccavano
le strade di Francia viaggiando a velocità ridotta, disse chiaro che
nessuno avrebbe mai ostacolato lo sciopero in un Paese culla della
democrazia, ma non sarebbe stato assolutamente tollerato l’intasamento
delle strade che costituisce un illecito.
Gli autotrasportatori capirono al volo e la protesta s’incamminò sulla
strada di un civile confronto tra le parti sociali.
Avranno Veltroni ed i partiti uno scatto d’orgoglio necessario per
interpretare la loro funzione?
A proposito, gli operatori della Polizia Municipale hanno provveduto a
multare chi ha intasato il centro storico parcheggiando le macchine al
cento di piazze e strade. La protesta costa anche per chi sciopera. In
questo caso il costo è la multa.
29 novembre 2007 |
Daniele Paladini, un eroe.
Pacifisti smentiti a Pagman, ad una ventina di chilometri da Kabul, dove
l’inaugurazione di un ponte realizzato dai militari italiani, tra un
tripudio di folla, è stata l’occasione per una strage, nella quale ha
perso la vita Daniele Paladini, un sottufficiale italiano del genio
pontieri che, avendo identificato il kamikaze che stava per farsi
esplodere in vicinanza di alcuni bambini gli si è fatto incontro per
fermarlo ed è rimasto travolto dall’esplosione, con altri colleghi più
fortunati di lui.
Un eroe certamente, come credo fermamente debba essere qualificato chi si
comporta come Paladini. Dacché eroe è “chi, in imprese guerresche o di
altro genere, dà prova di grande valore e coraggio affrontando gravi
pericoli e compiendo azioni straordinarie”, ovvero “chi dà prova di grande
abnegazione e di spirito di sacrificio per un nobile ideale” (Vocabolario
della lingua italiana dell’Istituto Treccani, vol. II, 303). E certamente
nobile ideale è stato l’avere messo a repentaglio la propria vita per
salvarne altre, com’è avvenuto.
Attendiamo le reazioni delle autorità, se l’apprezzamento per il gesto,
espresso a caldo un po’ da tutti, si tradurrà in un riconoscimento
ufficiale per il gesto nobilissimo del militare, da parte di un governo
nel quale è presente una significativa istanza pacifista, il più delle
volte a senso unico, certamente in sintonia con quanto ha scritto Bertolt
Brecht, secondo il quale è “beata la terra che non ha bisogno di eroi”.
Una frase che ho sempre ritenuto sciocca, perché gli eroi non si vedono
solo in guerra o nelle aree di conflitti, come in Afghanistan oggi, ma
anche nella vita di tutti i giorni, quando qualcuno mette a repentaglio la
propria vita per salvare la persona debole aggredita da un violento o chi
sta per essere travolto da un’auto o da un treno o si getta tra le fiamme
per portare in salvo il bimbo o l’invalido impossibilitato a fuggire dal
pericolo.
Gesti di altruismo, di grande carità, dei quali le cronache sono ricche,
perché di eroi non possiamo fare a meno in alcune circostanze.
L’occasione di un gesto incontrovertibilmente eroico m’induce ad esprimere
il mio dissenso da certe ricompense conferite in passato a chi ha perso la
vita nel corso di ordinarie operazioni militari o di polizia.
Intendiamoci bene. La vita è il bene più prezioso e perderla al servizio
del Paese costituisce un dramma che merita un solenne riconoscimento,
anche con aiuti concreti alle famiglie che hanno perduto un loro caro. Un
riconoscimento che, tuttavia, non può essere costituito dalla medaglia
d’oro al valor militare, che è deputata a premiare un gesto straordinario,
che abbia consentito di salvare altre vite o di raggiungere un obiettivo
di grande importanza politico militare.
Se non vi è lo strumento giuridico per questi riconoscimenti si creino. Ma
la medaglia al valor militare o civile deve compensare un gesto
effettivamente eroico, altruistico, secondo la tradizione di un grande
popolo, come quello del Maresciallo Paladini, che non ha pensato alla sua
vita per salvare altre vite.
25 novembre 2007 |
A proposito di un
editoriale di Sergio Romano. Cosa “frantuma” la politica.
Mi dispiace di dover dissentire, per la seconda volta a distanza di due
giorni da Sergio Romano, che stimo molto, tanto che spesso ne cito
osservazioni e commenti, soprattutto politici e storici, per la verità.
Ieri avevo criticato la sua risposta ad un lettore del Corriere della Sera
in tema di famiglia (nella rubrica “a ruota libera” nel sito
www.lafamiglianellasocieta.org), oggi dissento dalle conclusioni di un pur
lucidissimo editoriale “La politica in frammenti” del 18 novembre, sempre
sul Corriere.
In questo caso il mio dissenso nasce da alcune considerazioni in materia
istituzionale. Romano si sofferma sul dibattito in Senato sulla legge
finanziaria per giungere alla conclusione che “non esistono in Italia le
condizioni istituzionali per una politica economica coerente, ispirata da
una visione organica, quale che sia, delle esigenze nazionali”. Verissimo.
La frammentazione politica rende da tempo discontinua l’azione delle
maggioranze. Avviene oggi con il proliferare dei partiti che
necessariamente rivendicano ciascuno un proprio spazio, avveniva ieri
quando i maggiori partiti di governo, soprattutto il democristiano ed il
socialista, erano articolati in correnti che rappresentavano spesso
orientamenti ideologici molto distanti tra loro, tanto da esigere una
specifica visibilità con l’introduzione, soprattutto in leggi di carattere
sociale, di normative e provvidenze ritenute da quelle minoranze
rispondenti alle esigenze dell’elettorato di riferimento. Così accadeva, e
accade, come rileva giustamente Romano che “non appena arriva in
Parlamento, la legge [finanziaria, ma lo stesso accade per ogni altra
proposta di legge] viene frantumata in tanti pezzi quante sono le materie
su cui è possibile avviare un negoziato. Non si discute della sua
filosofia. Non si cerca di accertare se le norme corrispondano a un
disegno complessivo e siano adatte a raggiungere obiettivi di interesse
generale. Si apre una gara in cui ciascuno cerca di lasciare un segno
della propria influenza e di ottenere risultati da tradurre in voti e
consensi. Dietro l'alluvione degli emendamenti si nasconde una pluralità
di motivazioni ideologiche, corporative o clientelari. Ogni partito, se
non addirittura ogni parlamentare, gioca per se stesso. Non esistono più
maggioranza e opposizione. Ogni voto può essere decisivo e avere un
prezzo. La discussione del bilancio, vale a dire il momento più importante
dell'attività di un organo legislativo, diventa una fiera degli scambi e
del baratto”.
È un’analisi correttissima. Come l’osservazione che, con riferimento alle
posizioni di Lamberto Dini, ”un sistema politico in cui un partito di tre
persone può essere decisivo non corrisponde agli interessi della nazione”.
Per giungere alla conclusione che “il vero nodo, da cui dipende il futuro
del Paese, è una riforma costituzionale che sottragga il presidente del
Consiglio al continuo ricatto dei suoi ministri e il governo al continuo
ricatto di un Parlamento frammentato, capace soltanto di esprimere la
somma algebrica di interessi particolari”.
Qui dissento. La frammentazione dei partiti ed il suo effetto negativo
sulla governabilità del Paese non è un problema esclusivamente e neppure
prevalentemente costituzionale, anche perché ogni limitazione della
libertà di espressione del consenso popolare richiede, in un ordinamento
democratico, una profonda meditazione e cautele nella definizione delle
norme che la disciplinano.
Ad una più attenta valutazione delle cause del fenomeno, infatti, emerge
in modo evidente che la proliferazione dei partiti è conseguenza
dell’assurda legislazione ordinaria che, attraverso il rimborso delle
spese elettorali ed il finanziamento dei giornali di partito, favorisce la
nascita di microformazioni le quali si alimentano di quelle provvidenze.
Vivacchiano, ma non muoiono. Anzi, spesso generano altri partiti che, in
assenza dell’intervento pubblico, a nessuno verrebbe in mente di fondare.
Attenzione, dunque, ad evocare riforme che è difficile realizzare e che
comunque richiedono ampi consensi (quelle costituzionali) generando
un’aspettativa che, rimanendo irrealizzata, non risolve il problema e
determina malessere crescente nell’opinione pubblica. E quello spirito
qualunquista che da sempre attecchisce facilmente in Italia.
20 novembre 2007 |
Se lo Stato si arrende
alla violenza.
Non mi convince. Assolutamente non mi convince che di fronte alla violenza
teppistica che ruota, o sembra ruotare, intorno al tifo degli stadi, la
scelta giusta sia quella di sospendere le partite ed evitare le trasferte
quando la squadra del cuore gioca fuori casa.
Non mi convince, perché è una resa dello Stato, che immagina di evitare la
violenza che si alimenta della contrapposizione delle tifoserie
semplicemente abolendo la partita di calcio. È come se il Ministro
dell’interno invitasse i cittadini ad uscire la sera senza orologio al
polso con signore senza collana al collo o con bigiotteria di scarso
valore, per eliminare aggressioni e furti.
No. Non mi convince. È una resa dello Stato, della sua autorità, della sua
autorevolezza, che significa innanzitutto assicurare ai cittadini il
diritto di vivere dove desiderano, come desiderano, senza il timore di
essere scippati, derubati, malmenati.
Occorre un’analisi più approfondita, per gradi.
L’aggressione alle forze dell’Ordine e alle strutture pubbliche che si
occupano di sport, il C.O.N.I., un’aggressione che ha interessato nel giro
di poche ore mezza Italia, dimostra qualcosa che non può essere
sottovalutata.
Un’organizzazione eversiva pronta a colpire per destabilizzare l’Italia
alla prima occasione? Non credo. Mi sembrerebbe eccessivo immaginare
dietro le migliaia di giovani teppisti scatenati una strategia. La
Polizia, i Carabinieri e l’intelligence avrebbero individuato una simile
organizzazione necessariamente capillare.
Non c’è, dunque, una strategia eversiva, anche se la Procura della
Repubblica di Roma avrà avuto le sue ragioni nel ritenere che l’azione dei
teppisti possa rivestire le forme dell’eversione, che non deve essere
necessariamente espressione di una strategia organizzata. D’altra parte
storicamente l’eversione, almeno all’inizio, è iniziativa di pochi.
È vero, invece, che in Italia c’è un diffuso malumore nei confronti del
pubblico, dell’autorità, ai vari livelli di governo. Un malumore che si
alimenta dell’insoddisfacente azione dei pubblici poteri, a cominciare
dall’ordine pubblico scarsamente assicurato in molte aree del Paese, per
continuare con il peso del fisco, la difficoltà delle famiglie di arrivare
a fine mese per l’aumento esasperato dei prezzi. Da ultimo, con
l’esplosione del costo dei mutui immobiliari che hanno mortificato quanti,
con personale sacrificio, hanno investito nell’acquisto della propria
abitazione. Cittadini virtuosi puniti perché tali. Così sentono gli
interessati.
È un malcontento che può esplodere in qualunque momento perché lo Stato
dimostra di essere troppo spesso forte con i deboli, impoveriti e
tartassati, e debole con i forti, gli evasori fiscali, i malavitosi,
italiani e immigrati, nei confronti dei quali non si vede una risposta
forte, adeguata alla tradizione culturale e politica di un grande Paese
occidentale. Perché una cosa è accogliere diseredati in cerca di lavoro,
altro è consentire un’immigrazione illegale e necessariamente portata a
delinquere per sopravvivere. Ma possibile che questa elementare equazione
non viene percepita?
Questo Stato è debole e non fa nulla per apparire dignitosamente presente
nella vita di tutti i giorni, per frenare l’illegalità a tutti i livelli,
come dimostra giorno dopo giorno, senza che si prendano misure, i
reportage di “Striscia la notizia”, che denuncia spreco di denaro pubblico
che nessuno sembra capace di frenare o di reprimere, mentre nei tribunali
oberati da milioni di cause chiunque può entrare anche armato e portare
via fascicoli processuali, mentre molti ospedali sono fatiscenti, le
scuole cadenti e senza controllo, ovunque dilaga la droga, espressione
evidente di disagio morale e sociale profondo. Per non dire che di cose a
tutti note, anche per personale esperienza.
Se lo Stato non riacquista prestigio, che si conquista con il rispetto di
semplici regole, ad esempio l’imparzialità e il buon andamento, che stanno
scritte in Costituzione (art. 97), con politiche veramente attente alla
famiglia, alle esigenze obiettive dei giovani e degli anziani, se tutto
questo non accade temo che la violenza possa dilagare al di là delle
imprese teppistiche che ci hanno presentato i telegiornali domenica sera.
Niente chiusura degli stadi, dunque. Lo Stato ed il mondo dello sport non
la devono dare vinta ai teppisti che avranno gongolato al pensiero che con
un po’ di macchine bruciate e qualche testa rotta possono bloccare
l’Italia.
Diverso è il rispetto e l’omaggio per le vittime della violenza. Dovuto,
come nel caso dell’Ispettore Raciti e del giovane Sandri. Credo che l’uno
e l’altro avrebbero preferito che, di fronte alla violenza che li ha
colpiti, lo Stato avesse avuto una reazione dignitosa e forte, dicendo
“sono qui a garantire l’ordine, avanti con le manifestazioni sportive in
programma. Chi le disturberà subirà le conseguenze di legge”.
Insomma, spero sempre che ci sia una volta di queste un Presidente del
Consiglio o un Ministro dell’interno che abbia un po’ di dignità
nell’esercizio dell’alta funzione e dica a tutti i violenti alto e forte
“ragazzi, la ricreazione è finita, si torna al rispetto della legge,
sempre!”.
Abbiamo già avuto un Presidente del Consiglio rimasto famoso perché, di
fronte allo sfacelo del primo dopoguerra e all’eversione di Destra e di
Sinistra, amava ripete “nutro fiducia”. Povero Facta! È passato alla
storia come un prototipo di politico irresoluto e incapace. Ma la storia,
si sa, purtroppo, la studiano pochi e ancor meno sono quelli che la
capiscono.
14 novembre 2007 |
Se ne va un Vescovo e
l’immagine dello Stato.
Il semplice sospetto è già una sconfitta dello Stato, della sua
immagine, del suo prestigio. Il sospetto è quello che Monsignor Bregantini
sia stato costretto a lasciare la Calabria perché inviso ai clan della
malavita locale. “Il vescovo anti-clan che deve lasciare la Locride”,
titolava il Corriere della Sera di ieri, in prima pagina, per la firma di
Gian Antonio Stella.
Cala il prestigio dello Stato e si rafforza quello della malavita. Se
riesce a provocare il trasferimento di un Vescovo “scomodo”, vuol dire che
la Mafia, comunque denominata, conta, è potente. È la mortificazione delle
persone perbene, mentre i clan faranno nuove reclute.
Il Presule lascia Locri “per essere destinato come arcivescovo metropolita
alla diocesi più importante di Campobasso”, annuncia il giornale,
ricordando che il Vescovo Brigantini aveva alzato spesso la voce contro i
clan calabresi dello Ionio. E molti, aggiunge il giornale, brindano,
levano il calice: “Buon viaggio Eccellenza”.
È molto probabile che si tratti di un “avvicendamento” fisiologico, per
una permanenza lunga quasi tre lustri, un ricambio secondo il vecchio
motto per il quale “tutti sono utili, nessuno è indispensabile”.
Soprattutto nella Chiesa, che vive in una dimensione spirituale che va al
di là del contingente.
Monsignor Bregantini, intervistato, ha garibaldinamente detto “obbedisco”,
ma ha anche precisato che, se avesse potuto decidere sul suo destino,
sarebbe rimasto in quella terra nella quale ha saputo incarnare non solo i
valori della fede, normale per un Vescovo, ma anche quelli della società
civile, che vuole vivere libera da condizionamenti illeciti, che non vuole
pagare il “pizzo” o sottostare ad altre forme di concussione, alle quali
ci hanno abituato le cronache.
Una notizia “agghiacciante”, è stato il commento di alcuni intellettuali
calabresi, quando si è saputo del trasferimento. Ci sono altri Vescovi e
sacerdoti in Calabria impegnati apertamente dalla parte della verità e
dell’impegno civile. Ma Bregantini aveva saputo meglio di altri
comunicare, come quando, appena arrivato, aveva distribuito un libro di
preghiere di “sfida alla mafia”. Altri raccoglieranno questa sfida. Ma il
fatto stesso che si debbano mobilitare le coscienze civili in una “sfida”
alla malavita vuol dire che lo Stato è lontano, troppo lontano.
9 novembre 2007 |
Giacalone ci riprova: “per
risparmiare iniziamo a chiudere la Corte dei conti”.
Lo aveva scritto e torna a scriverlo su Libero del 30 ottobre, a pagina
15. “Lo sostengo e argomento da tempo”, e rivendica una sorta di
primogenitura sull’“idea”, dopo la “bella inchiesta di Paolo Baroni, su La
Stampa”.
Non vorrei deludere il Nostro, ma non è il primo che vuole chiudere
l’organo di controllo e giudice della responsabilità amministrativa e
contabile di pubblici amministratori e dipendenti. Ci hanno provato in
tanti, tutti quelli che vogliono avere le “mani libere” nella gestione
delle risorse pubbliche, che rivendicano la “discrezionalità” del politico
che non è, come scrivono i manuali di diritto, esercizio di una scelta tra
soluzioni alternative tutte conformi a legge e alle regole dell’efficacia,
efficienza e economicità dell’azione dei poteri pubblici.
In politichese discrezionalità significa “faccio come mi pare, assegno
l’appalto o la concessione “a chi voglio io”. In un delirio di onnipotenza
nel quale il “politico”, tra virgolette, perché la Politica è una nobile
espressione dell’agire umano, trova sempre qualche “utile” difensore, che
magari vuole separare le carriere, per porre il Pubblico Ministero sotto
il controllo del potere politico o abolire la Corte dei conti.
Ma stia tranquillo Giacalone, non ci riuscirà. Per fortuna siamo in Europa
e qui la Corte dei conti è “istituzione” comunitaria con poteri di gran
lunga superiori a quelli della Corte dei conti italiana che i politici i
quali si ispirano alla “filosofia” del Nostro sistematicamente cercano di
limitare. Per poi lamentarsi se la Corte non arriva a fare alcune cose!
Abbiamo perso anche troppo tempo con questo bel campione “liberale”. Per
fortuna la gente, che sente minacciate le proprie tasche dall’incapacità
di una classe politica costosa e incapace, ragiona col proprio cervello e
se legge Giacalone che vuole abolire la Corte dei conti arriva a
conclusioni immediate. Vuole essere gradito ai detentori del potere. O
forse ha un fatto personale con i giudici di viale Mazzini!
31 ottobre 2007 |
Torna
la bandiera sul liceo Keplero!
Bravo Ministro Fioroni! La legalità torna al liceo scientifico Keplero di
Roma e con essa la bandiera nazionale, della quale, come ho scritto, era
rimasto poco più che un brandello sporco, un pezzetto del verde, accanto
ad una bandiera europea anch’essa dai colori improbabili.
La nostra protesta indignata ha mosso il Ministero ed il Ministro, che
ovviamente nulla sapeva fino al nostro articolo, ed ha consentito di
ripristinare la bandiera nello splendore dei suoi colori, nel rispetto
della legge che ne impone l’esposizione e del ruolo educativo che il
vessillo riveste, in un sentimento di appartenenza che è consapevolezza
della nostra storia e della civiltà che dalle rive del Tevere si è
irradiata nel mondo intero.
27 ottobre 2007 |
Il
Preside e un brandello di bandiera.
Abbiamo tutti in mente l’immagine di brandelli di bandiera, spesso
scampoli di stoffa sopravvissuta al fuoco nemico sui campi di battaglia.
Ed è sempre un’immagine che evoca sacrifici di uomini impegnati a
difendere il simbolo della Patria, quella bandiera “dai tre colori”, il
verde., il bianco e il rosso, sul cui significato si sono soffermati
patrioti e poeti.
Ecco, il verde, c’è solo il verde, o quello che doveva essere un giorno il
verde della bandiera, un modesto lembo di stoffa a fianco del portone
d’ingresso del Liceo Scientifico statale Giovanni Keplero, in via
Silvestro Gherardi, 87, a Roma. Niente più di un lembo di stoffa sporco,
accanto ad una bandiera europea altrettanto sporca.
È così da tempo. Evidentemente la cosa non interessa il Preside che
dovrebbe avere a cuore il decoro e la dignità dell’Istituto. E la bandiera
esposta è parte non secondaria dell’immagine della scuola.
Non so quali siano le idee politiche del Preside, ma non è importante. La
bandiera, come ho scritto più volte, non è di Destra o di Sinistra. È
l’immagine stessa dello Stato, espressione della sua identità e della sua
storia. Ecco, la storia che giustamente il Ministro Fioroni ha ricordato
essere parte importante dell’insegnamento impartito nelle scuole italiane
e fondamento della nostra cultura.
Allora, Onorevole Ministro, richiami all’ordine questo Preside
“distratto”, gli faccia capire che con il suo comportamento viene meno ai
suoi doveri di pubblico funzionario e di educatore. Una cosa che un
Preside non può fare. In qualche paese un Preside così sarebbe mandato a
casa. Qui non succederà, ma almeno una lavata di testa se la merita. Va
bene che, come dice un vecchio proverbio “a lavare la testa all’asino si
spreca tempo e denaro”.
E un Preside che vilipende la bandiera è, nella migliore delle ipotesi, un
asino!
16 ottobre 2007 |
Chi
rompe paghi.
“Chi rompe paga e i cocci sono suoi”, dice un vecchio proverbio, esempio
di antica saggezza. E di una regola giuridica antichissima. La disciplina
del damnum si trova nella Lex Aquilia (287 a.C.), la prima legge scritta
in materia di risarcimento del danno: in primo luogo, impose di
ragguagliare il valore del risarcimento all'ultimo prezzo più alto
raggiunto dal bene nel mese precedente, e poi richiese che tra il damnum e
il factus vi fosse un nesso di causalità. Una regola antica oggi scritta
nel codice civile all’articolo 2043, secondo il quale “Qualunque fatto
doloso, o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui
che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Regola elementare, logica, comprensibilissima da tutti. Eppure inapplicata
dallo Stato e dagli enti pubblici che trascurano di farsi risarcire da
quanti incendiano i boschi, imbrattano mezzi pubblici, vagoni dei treni e
delle metropolitane custoditi in aree teoricamente sorvegliate,
scarabocchiano monumenti e palazzi. Il Comune di Roma, si è letto di
recente, stanzia somme rilevanti per recuperare il decoro urbano, cioè la
pulizia della città, ma non pensa di identificare gli imbrattatori e di
far pagare loro la pulizia di quanto hanno sporcato. In sostanza fa
gravare sul cittadino oltre il danno la beffa!
È uno dei segni, neppure il più evidente, dell’incapacità della classe
politica italiana. Incapace di esprimere un minimo di dignità. Non la
recupererà neppure leggendo Beppe Servergnini che oggi sul Corriere della
Sera, in prima pagina, titola “Arriva il contrappasso per legge: chi
sporca, pulisca”.
Severgnini non è un giurista ma un acuto scrittore e commentatore e, con
il gusto della cultura anglosassone nelle vene, dice delle cose che
sarebbero delle ovvietà se le leggi fossero fatte osservare. Ma nessuno lo
fa, con la conseguenza che la mancanza di sanzione rende quasi lecito agli
occhi del cittadino il comportamento in effetti vietato. È come se la
norma fosse caduta implicitamente in desuetudine.
Il problema di questo Paese, infatti, non sta nella ampiezza di chi, a
vari livelli, viene meno ai doveri imposti dalle leggi. Ma nella
circostanza che i fatti spesso avvengono sotto gli occhi dei “tutori”
dell’ordine i quali non intervengono (ne è un esempio la ampia e variegata
violazione delle norme del codice della strada), mentre reati gravi
restano il più delle volte impuniti per le lungaggini del processo penale
e per la difficoltà di provare l’elemento psicologico del reato.
Una classe politica diligente e seria dovrebbe mettere mano a questi
problemi. Non lo farà. Neppure con il “pacchetto” Amato. Non perché il
Ministro dell’interno non sia in condizione di concepire un intervento
adeguato, essendo uno dei pochi che sa di diritto, ma perché non glielo
consentiranno, in omaggio ad un “buonismo” insulso e criminale.
9 ottobre 2007 |
Libero,
senso dello Stato zero! E getta benzina sul fuoco in una polemica
sindacale contro la Corte dei conti per un’indagine su presunte violenze
della Polizia.
L’occhiello di Libero di ieri, “Stato ingrato”, il titolo “il giorno
della vendetta”, in prima pagina, che, alla settima, diviene “Il giudice
fa il no-Tav - Processo alla polizia”. Ne scrive Tommaso Montesano, che
Vittorio Feltri deve considerare un gran giurista ed un fine politologo,
se gli affida una vicenda delicata come quella del danno all'immagine
della Pubblica Amministrazione di cui si sta occupando la Procura della
Corte dei conti di Torino.
I fatti. Una manifestazione di protesta a Venaus, il 5 dicembre 2005, nei
confronti della decisione di far passare in Val di Susa la linea ad alta
velocità provoca incidenti con le Forze dell’ordine. Alle 3.30 del mattino
1000 agenti intervengono per disperdere il picchetto che impedisce
l’accesso alle aree del cantiere. C’è uno scontro, al termine del quale si
contano venti feriti tra i manifestanti e dodici contusi tra gli agenti di
Polizia.
Il contrasto dei manifestanti avrebbe assunto in alcune situazioni una
forma violenta, nella quale il Procuratore della Corte dei conti ipotizza,
in una fase dell’istruttoria preliminare, che sia risultata offuscata
l'immagine dello Stato. Di quello Stato che è abilitato ad esercitare la
forza per reprimere l'illegalità, in misura proporzionata all’offesa alla
quale si oppone, ma che non deve oltrepassare il limite invalicabile della
supremazia della legge e della legalità in ogni occasione.
Non entriamo nel merito dei singoli episodi, perché non abbiamo gli
elementi, e comunque non è questa la sede, ma avremmo voluto che Libero,
nella sua responsabilità di organo di informazione che offre elementi di
valutazione all'opinione pubblica, rappresentasse correttamente il fatto
materiale e la sua configurazione giuridica. Cioè riconoscesse che la
violenza non necessaria dell'autorità macchia l'immagine dello Stato e che
questa tutela dell'immagine è essa stessa, e in primo luogo, una tutela
delle Forze dell'ordine, della loro autorevolezza.
Invece, il giornale si è fatto portavoce di una ribellione sindacale che
prescinde da ogni valutazione dei fatti. Il Segretario del Sindacato
autonomo di polizia, Filippo Saltamartini, afferma che l'intervento della
Corte dei conti è “un intollerabile invasione di campo” e chiede
l’intervento del Ministro dell'interno per concludere che “la tutela
dell'ordine pubblico spetta allo stato”.
È la prova che non è stato compreso il problema. Ma forse non lo si è
voluto comprendere, semplicemente per cavalcare, come altre volte è stato
fatto, la protesta come se le forze dell'ordine, qualunque cosa facciano,
possono farla.
Non è così. E non è interesse delle Forze di polizia essere considerate
estranee a qualunque vincolo. La polizia deve essere considerata dai
cittadini espressione della legittima forza dello Stato e deve intervenire
con l’energia e l'autorevolezza che viene dal rispetto della legge per
reprimere tutti i reati, compresi quelli che vengono commessi nel corso
delle manifestazioni sportive, delle proteste, qualunque ne sia il motivo,
che non devono mai degenerare in violenza nei confronti di altre persone e
delle autorità pubbliche
Questa è la corretta impostazione del problema. Non giova all’autorità ed
alla sua autorevolezza agli occhi del cittadino la difesa di comportamenti
scorretti, che purtroppo abbiamo notato tutti più volte, anche se
limitati. Non c'è niente di non corretto nell'uso del manganello, ad
esempio, con il quale la polizia contiene la violenza della manifestazione
o disperde una manifestazione non autorizzata quando assuma un
comportamento aggressivo contro persone o cose.
Tuttavia non è concepibile, ad esempio, come più di qualche volta si è
visto, che un soggetto, ormai nell'impotenza di nuocere, a terra, sia
malmenato da cinque o sei agenti delle forze dell'ordine. Questi
comportamenti sono tali da danneggiare l'immagine dello Stato e della
polizia, che in quel momento lo rappresenta. Questo è il danno che la
Procura della Corte dei conti persegue. E non va trascurato che si è in
una fase istruttoria nella quale Pubblico Ministero accerta quanto è
avvenuto e, come accade in sede penale, muove contestazioni a coloro i
quali, in una prima analisi del fatto, vengono considerati “presunti
responsabili”, come dice la legge, a garanzia della loro difesa. È una
fase istruttoria nella quale il presunto responsabile si può difendere
personalmente, senza nessun onere di difesa legale e comunque questa
difesa non potrebbe essere assunta dall'Avvocatura dello Stato per il
fatto che l'Avvocatura non può tutelare un soggetto che si presume
responsabile di un danno all'erario quindi allo stesso Stato del quale
l'Avvocatura è patrona.
Concludendo, da un giornale che assume di essere il difensore delle
istituzioni ci si attendeva un’impostazione corretta, non che gettasse
benzina sul fuoco. Un’impostazione corretta che significa inquadramento
della fattispecie con chiarimento del momento procedimentale nel quale la
contestazione del pubblico ministero si colloca.
Non è così purtroppo. Libero troppo spesso indulge nell'attacco alle
istituzioni, che pure afferma di voler difendere, spacciandolo per una
concezione liberale dello Stato e della politica. Attacca quotidianamente
i magistrati, adesso anche quelli della Corte dei conti, quando non fanno
comodo all'impostazione politica che il giornale ritiene di dover
difendere. Come la pubblica amministrazione, che svilisce continuamente
agli occhi dei cittadini, invece di stimolarne la riforma che è il primo
interesse di dipendenti seri, getta discredito in un modo generico,
facendo di ogni erba un fascio. Questo modo di procedere non giova a
nessuno, è un qualunquismo becero, non porta da nessuna parte e non
porterà voti al Cavaliere, non contribuirà a sollevare la politica
italiana, non favorirà la formazione di una classe dirigente nuova.
Come spesso accade, anche in questo caso la politica del giornale si
conquista qualche simpatia da parte di coloro che si sentono legibus
soluti e non lascia tracce. È il più grave difetto di questo giornalismo,
non lascia traccia, non costruisce, si scrive addosso.
29 settembre 2007 |
Perché
gli italiani non amano i giudici.
Con il popolo del “Vaffa” facile, si è schierato ieri anche Mattias
Maniero, che su Libero, in prima pagina, si è chiesto “Perché nessuno
lancia un Vaffa anche ai giudici?”.
Lo spunto è l'iniziativa del Ministro della giustizia Mastella di chiedere
il trasferimento del Procuratore Capo della Repubblica e di un Sostituto
procuratore di Catanzaro che una relazione degli Ispettori del Ministero
avrebbe accusato di omessa vigilanza sulla fuga di notizie relativa ad
un'inchiesta scottante, nell'ambito della quale sono stati fatti nomi
illustri, di cui hanno parlato tutti i giornali, e di inopportune
interviste rilasciate ad inchiesta ancora aperta.
E così il giornale, che non risparmia mai accuse al Ministro Mastella,
quanto meno di essere un ballerino della politica, torna a prendersela con
i giudici, che hanno riscosso una certa solidarietà a Catanzaro, e, senza
entrare nel merito delle censure degli Ispettori, aggredisce l'intera
magistratura, una categoria nei confronti della quale non si potrebbe
indirizzare il tanto desiderato “Vaffa” liberatorio. Naturalmente seguono
una serie di esempi di disfunzioni della Giustizia, dalle scarcerazioni
“facili” alle inchieste che avrebbero a lungo tenuto fra gli indagati
personaggi poi risultati innocenti. Riferimenti di modesto contenuto
logico e argomentativo, che vanno dalle ritrattazioni sospette alle
carcerazioni preventive azzardate. In sostanza l'accusa è quella che i
magistrati sono una categoria intoccabile, nonostante le disfunzioni del
processo penale le lungaggini del processo civile che vedono una durata
dei procedimenti superiore a quella consueta negli altri paesi europei.
Non si dice, nonostante l’apparente ostilità del giornale ai politici
della prima e della seconda Repubblica, che le leggi sono spesso scritte
male, rendono difficile l'interpretazione, favoriscono, pur sulla base del
nobile intento di affermare principi garantistici, proprio coloro i quali
sono avvezzi a violare la legge. In sostanza la classe politica, il
Parlamento che pure vede presenti numerosi avvocati, forse proprio per
questa presenza, segue logiche e tecniche legislative che lasciano quanto
più possibile aperto il dubbio, con la conseguenza di rendere spesso
lontana nel tempo la definizione dei processi e quasi sempre incerta la
pena.
Ma il ragionamento di Libero non vuole approfondire, e non sarebbe
comunque quella la sede, i motivi autentici, le norme sbagliate, che sono
alla base delle disfunzioni vere. Se la prende, più semplicemente con i
magistrati, come di consueto sulla base di un certo orientamento politico,
che purtroppo sembra prevalere nella Destra italiana di questo momento o,
più esattamente, in quella che si autodefinisce Destra o Centrodestra,
liberale etc. e cavalca, spesso in modo becero, quella insofferenza del
potere politico al controllo giurisdizionale che accompagna un po’
dappertutto i rapporti tra la Casta del potere politico e la magistratura.
Tanto che in alcuni ordinamenti i politici sono riusciti a controllare e
condizionare l’indipendenza dei giudici, ad esempio mediante la
sottoposizione del pubblico ministero all'autorità governativa. È
l’obiettivo di quanti vogliono la “separazione” delle carriere e la fine
dell’obbligatorietà dell’azione penale, gabellata come riforma “liberale”.
È imbarazzante sentire chi afferma di parlare “da liberale” e difensore
delle istituzioni criticare, senza approfondire, la prima istituzione di
uno stato civile, la magistratura. Non perché la magistratura non possa
essere criticata ma perché, considerata l’importanza del tema, le critiche
debbono essere ponderate. Imbarazza e preoccupa anche un uomo di sinistra
che ha sempre dimostrato di avere il senso dello Stato, il Senatore Cesare
Salvi, giurista solido e Presidente della Commissione giustizia del
Senato. “L’antipolitica cresce perché c’è l’impressione che destra e
sinistra facciano esattamente le stesse cose anche in materia di
giustizia”, concludendo che “forse sarebbe meglio per tutti se Veltroni si
esprimesse in modo meno vago sulla questione morale” (Corriere della Sera,
25 settembre 2007, a pagina 22).
Una preoccupante convergenza di Destra e Sinistra che “non convince”
neppure Davide Giacalone che su Libero di oggi (La storiaccia di Clemente)
a pagina 12. Per cui “tirate le somme, è la cultura del diritto che va
ulteriormente a farsi benedire”. Perché, appunto, non si approfondiscono i
problemi.
È solo enunciazione. È l’emotività che muove dalla preconcetta ostilità di
molti politici nei confronti della magistratura, nella convinzione di
trovare ampio consenso nella gente.
Infatti, pronti ad applaudire le inchieste di tangentopoli o altre
indagini, quando le manette scattano ai polsi di politici o imprenditori
illustri, gli italiani, per quanto li riguarda personalmente, sono poco
rispettosi delle leggi. Si vede da piccole ma significative cose, dal
traffico delle città, dal mancato uso delle cinture di sicurezza, dal
diffuso ricorso al telefonino durante la guida, nonostante il kit che
accompagna i cellulari veda presente sempre l'auricolare. Si vede dalla
cattiva educazione di chi lascia l’auto parcheggiata davanti agli accessi
degli handicappati, in seconda fila, chiusa, sui marciapiedi, incurante se
preclude il passaggio agli anziani ed agli handicappati. Si vede dalla
sporcizia delle nostre città, dovuta alla cattiva educazione, al mancato
rispetto del prossimo. Si vede dinanzi alle tabaccherie dove spesso si
apre il pacchetto di sigarette appena comprato e si getta per terra il
rivestimento di cellophane.
Un popolo con siffatti comportamenti, che quando può cerca di prevaricare
il vicino, un popolo che ha imposto a ripetizione condoni edilizi e
tributari, questo popolo, che pure ha tante altre virtù, un buon cuore, il
senso dell'arte, una discreta cultura, questo popolo non può accettare
facilmente il controllo del giudice. E allora si schiera sovente con chi
critica la magistratura, convinto magari di farlo in nome della libertà,
di sentirsi liberale, di esprimere atteggiamenti di modernità.
Non è così. Ed è penoso constatare quanto sia diffuso questo
atteggiamento, sul quale spesso i magistrati non riflettono. I magistrati
che, essendo soggetti solo alla legge, ad essa devono fare riferimento e
non agli umori dell'opinione pubblica. Nondimeno devono avere sensibilità
per l’opinione corrente ed evitare di dare il destro ad ondate emotive che
possono coprire “vendette” della classe politica, limitare l'indipendenza
della magistratura e favorire l'emanazione di leggi che agevolano di fatto
i delinquenti, magari di quelli con i “colletti bianchi”.
26 settembre 2007 |
E se gli studenti cantassero l’Inno di Mameli?
L'ex Ministro dell'economia, Giulio Tremonti, ha proposto di fare
l'alzabandiera la mattina a scuola, almeno una volta la settimana. Con
minore autorevolezza dell'importante esponente politico vorrei fare una
proposta anch’io, quella che la mattina, prima dell'inizio delle lezioni,
gli studenti cantino l'inno nazionale, quell’Inno di Mameli che il
Presidente Ciampi faceva intonare anche ai militari nel corso delle
manifestazioni con presenza di reparti delle Forze Armate.
Sarebbe un bel gesto di italianità, un sentimento che non dovrebbe essere
classificato politicamente, essendo semplicemente testimonianza di
un'appartenenza che dovremmo tutti sentire di dover esprimere, non solo
durante le partite di calcio, quando si assiste alla scena penosa di
calciatori con stipendi di fior di milioni i quali non riescono neanche a
far finta di conoscere l’inno nazionale, come invece fanno sempre i
calciatori delle squadre con le quali i nostri supermilionari si
confrontano.
Lo spunto per queste elementari riflessioni mi viene da una bella
manifestazione alla quale ho assistito ieri, a Roma, in una splendida
giornata di sole in piazza Navona davanti al portone di Palazzo Pamphily,
fatto edificare da Papa Innocenzo X Pamphily, (1644-55) nell'anno 1650,
prestigiosa sede dell'ambasciata del Brasile, in occasione della cerimonia
di consegna di alcune onorificenze, anche ai cittadini italiani, da parte
dell'Ambasciatore Adhemar Gabriel Bahadian.
Prima che l’Ambasciatore e la Signora accogliessero gli ospiti nelle belle
sale decorate da Pietro da Cortona, Romanelli e Gaspare Pussino, per un
vino d’onore, in apertura della cerimonia la banda della Polizia
Municipale di Roma aveva intonato gli inni nazionali, prima l’Inno di
Mameli, poi l'inno brasiliano. E la cosa che più mi ha colpito è stata
l’aver sentito tutti i brasiliani presenti, dall'Ambasciatore, ai
diplomatici, ai numerosi ufficiali, ai tanti cittadini della Repubblica
sudamericana convenuti per l'occasione, cantare, con sincera
partecipazione, il loro inno nazionale. Senza esitazioni, dimostrando di
conoscerlo tutto. E vi assicuro, non lo avevo mai ascoltato, che è un inno
piuttosto lungo su note molto gradevoli di Francisco Manoel Da Silva, su
un testo di Joaquim Osório Duque Estrada, Poeta e scrittore brasiliano,
Dos filhos deste solo és mãe gentil/ Pátria amada/ Brasil !
Dei figli di questo suolo sei madre gentile,/ Patria amata/Brasile
Devo dire che mi sono sentito un po’ umiliato nel constatare che nessuno
dei tanti italiani presenti, autorevoli personalità della politica,
dell’arte, della società civile ha mosso le labbra per accennare al
ritornello, neppure alle prime strofe, di quei Fratelli d'Italia chiamati
perché l'Italia “s’è desta” e “dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa”!
Abbiamo avuto cattivi maestri con nessun senso della Patria, e continuiamo
ad averne, a Destra e a Sinistra.
Della proposta di Tremonti di fare l'alzabandiera si è parlato per un paio
di giorni, tra chi si è detto favorevole e chi contrario. Poi il silenzio.
Neppure Tremonti ha insistito. Non risulta che abbia assunto qualche
iniziativa in proposito. Evidentemente anche lui è un seguace della
“politica dell’annuncio”, quella che lancia un messaggio e poi è seguita
dal silenzio. Ma così, cari politici di casa nostra, non si va molto
lontano.
8 settembre 2007 |
Lavavetri e incapacità di gestire l’immigrazione clandestina!
E i lavavetri finirono nel tritacarne della polemica politica, un po’ per
esigenze elettorali di alcuni sindaci, alla ricerca di consensi, un po’
per confondere le idee agli italiani frastornati dalla litigiosità di
alcuni componenti dell’Esecutivo e sconcertati da “tesoretti” che si
scoprono a comando.
Accade così che, tolleranti con tutti, dagli occupanti abusivi di suolo
pubblico a quanti imbrattano palazzi e monumenti ed i mezzi del trasporto
urbano, alcuni sindaci hanno fatto dei lavavetri che ai crocevia delle
città, volente o nolente, dovevi sopportare fino a ieri, il
nemico-pubblico-numero-uno. Fino a ieri, perché da Firenze, su e giù per
l'Italia, anche dove i sindaci non hanno adottato l’apposita ordinanza,
non se ne vedono più.
È così si è pensato di aver risolto un problema, senza considerare che
certamente ne sono stati creati altri, forse più gravi. Nessuno si è
chiesto, ad esempio, che faranno i lavavetri da oggi in poi. Inventeranno
un altro “lavoro” o andranno ad infoltire le schiere dei diseredati a
disposizione della criminalità organizzata, nazionale o extracomunitari?
Perché dopo Firenze rimane il nodo, politico e sociale, dell'immigrazione
clandestina che è quella che alimenta la categoria dei lavavetri e non
solo.
Qualcuno, infatti, ha detto che altrettanto fastidiosi sono i
parcheggiatori abusivi la cui attività ha un evidente carattere estorsivo.
Nel senso che non è pensabile lasciare l’autovettura regolarmente
parcheggiata senza versare l’obolo. A Roma, in via Marsala, vicino alla
stazione Termini i parcheggiatori abusivi pretendono dagli automobilisti
anche sulle strisce blu. Ovviamente nessuno paga il ticket. E nessuno
interviene.
Ma torniamo ai lavavetri, non sempre arroganti e prepotenti. All’angolo
della mia strada c’è un indiano che si presenta con l’inchino e un
sorriso. E se l’automobilista dimostra non volersi servire della sua
prestazione va oltre, sempre sorridendo. Ma ci sono i prepotenti, uomini e
donne, che t’impongono la “pulizia” del vetro. Contro questi si doveva
intervenire. Gli altri non davano fastidio a nessuno.
Onestà però vuole che il fenomeno dei lavavetri, affrontato nel modo della
stampa ci ha riferito e che ha destato polemiche di vario genere, alcune
fondate, altre pretestuose, è conseguenza di una normativa inadeguata, ma
soprattutto in gran parte non applicata, sull'immigrazione clandestina.
Lasciamo perdere per il momento il problema dell'ospitalità, che l'Italia
con la sua millenaria civiltà, ha sempre assicurato a coloro i quali hanno
bussato alla sua porta. Ed anche di considerare che intorno
all’immigrazione si sono sviluppati interessi consistenti di enti e
associazioni onlus che incassano ingenti somme a carico dei bilanci
pubblici.
Il problema sta in una semplice equazione: immigrazione regolare = lavoro,
immigrazione clandestina = illegalità, delinquenza in tutte le sue forme.
Perché è evidente che se le autorità consentono la permanenza sul
territorio nazionale dei clandestini che non hanno lavoro, questi sono
inevitabilmente portati a delinquere in tutti i modi possibili, rubando,
prima di tutto, ed uccidendo, perché spesso il furto e la rapina si
trasformano in omicidio, quando la vittima reagisce, complice magari
qualche sniffata di cocaina per darsi coraggio.
I clandestini che non rubano e non uccidono, che non vanno ad arruolarsi
sotto le bandiere della malavita organizzata, che recluta ladri e
spacciatori e quant'altri servono a gestire attività illecite, questi
clandestini, che non commettono reati sanzionati dal codice penale, lavano
i vetri, chiedono l'elemosina, vendono i fiori nei ristoranti e per le
strade, fanno i parcheggiatori ed i guardiamacchine. Non commettono reati,
ma sono, il più delle volte, al servizio del racket.
E così, se le autorità impediscono ai lavavetri di fare il loro lavoro,
agli altri di chiedere l'elemosina o di vendere i fiori impediscono anche
al racket che sta dietro queste attività di lucrare sullo sfruttamento di
uomini e donne. Come quelle povere disgraziate che si vedono per ore in
ginocchio sui marciapiedi di Roma in atteggiamento di preghiera, per
chiedere l'elemosina.
E torna la domanda che ci siamo fatti all’inizio di queste riflessioni.
Che faranno i lavavetri, i mendicanti, i venditori di fiori, le donne in
preghiera tolti dalla strada? È molto probabile che vadano a svolgere
altre attività illegali. Non possono morire di fame. Spesso hanno una
famiglia, dei figli. Ecco allora che “risolto” un problema ne è sorto un
altro.
Lo ha creato una classe politica che in questi anni è stata inadeguata,
per usare un eufemismo, rispetto all'esigenza di governare il fenomeno
complesso dell'immigrazione. Che non è riuscita a trovare un giusto
equilibrio tra la disponibilità umana, la tradizionale accoglienza degli
italiani, ed anche - diciamolo francamente - l'interesse di alcuni
imprenditori, soprattutto agricoli, ma anche di lavori edili, di disporre
di manodopera a basso costo, e l'esigenza di garantire la sicurezza nelle
nostre città e nelle nostre campagne. Perché le violenze, con stupri e
torture, che i nostri giornali definiscono giustamente “efferati”, sono la
conseguenza di un’immigrazione non controllata e ormai difficilmente
controllabile per le dimensioni che ha assunto e per gli interessi
criminali che soddisfa.
È un grosso problema, umano e sociale, rispetto al quale sarà possibile
misurare la capacità della classe politica nel suo complesso, fatta di chi
governa e di chi rivendica di avere le carte in regola per succedergli al
governo. Non sarà facile. E non sarà neppure indolore.
1 settembre 2007 |
Alzabandiera, incomprensioni e vecchi rancori.
“Alzabandiera a scuola? - si chiede Angelo Pezzali nella sua rubrica
Stradanuova su La Provincia Pavese del 25 agosto 2007 - Nella hit parade
delle strane proposte dell’estate, l’idea di Giulio Tremonti (e Bossi che
dice?) ha un sapore rancido di caserma. Perché imporre dalla cattedra,
perché obbligare all’amor patrio? All’esaltazione, a forza, del tricolore?
Tremonti che ha assolto agli obblighi militari, da soldato semplice,
dovrebbe essere vaccinato. E sapere che questo rito laico antico avrebbe
un effetto contrario. Come quello che, giusto nelle aule, abbiamo avuto
con Alessandro Manzoni. Cioè di detestarlo mentre doveva essere solo
amato”.
Il testo è integrale, preso da internet, via Google. E merita qualche
commento. Ci sono alcune paroline che denotano preconcetti ed una cultura
stantia.
Come prima cosa Pezzali si pone una domanda, retorica, “perché obbligare
all’amor patrio?” E allora, perché obbligare allo studio dell’italiano,
della storia e della geografia?
A scuola non si obbliga, s’insegna. Alla curiosità ed all’amore per il
sapere, oggi si usa dire per i saperi, tra i quali c’è la storia della
terra sulla quale viviamo, ricca di monumenti, civili e religiosi, e di
memorie culturali pregevolissime, che fanno della nostra piccola Italia un
grande Paese, un unicum della cultura e dell’arte.
Lasciamo perdere le caserme, nelle quali, peraltro, s’è fatta l’Italia e
dove molti hanno imparato ad essere italiani. Non Pezzali, evidentemente,
che non sappiamo se ha “assolto” agli obblighi di leva.
Da quanto scrive apprendiamo, inoltre, che Pezzali, a scuola, detestava
Manzoni. Colpa del suo insegnante, o dello stesso Pezzali, forse distratto
da altro.
C’è, poi, un’espressione “rito laico antico”, che probabilmente è la vera
chiave di lettura dell’acido commento di Pezzali alla proposta di Tremonti.
Ho scritto che i giovani di Comunione e Liberazione i quali, come
riferisce il Corriere della sera si spellavano le mani nell’applauso
all’ex Ministro dell’economia hanno dimostrato maturità civica, lasciando
alla storia e agli storici vecchie ruggini antirisorgimentali di una parte
del mondo cattolico orfana del “potere temporale”. Un peso insopportabile
per una Chiesa universale Patria della Fede, uno status incompatibile, sul
finire del Secondo Millennio, con l’universalità del suo insegnamento.
Immaginate solo un Tribunale dello Stato della Chiesa che condanna a morte
un patriota che lotta per l’unità d’Italia. In nome del Papa Re, che pure
è stato un grande Papa, Pio IX.
La nota di Pezzali è antistorica e diseducativa. Fortemente diseducativa.
Lei sì che ha un sapore “rancido”.
Ha detto bene, invece, il Ministro dell’istruzione, Giuseppe Fioroni:
“Credo che la patria e l'amor di patria siano una cosa seria: la bandiera
contribuisce a creare un sentimento di appartenenza all'identità
nazionale”.
Bravo Fioroni, Pezzali rimandato a settembre!
26 agosto 2007 |
Alzabandiera, un’ottima idea!
Un’idea “applauditissima dal popolo di Comunione e Liberazione”,
riferisce in prima pagina oggi il Corriere della Sera, la proposta di
Giulio Tremonti, al meeting di Rimini, di fare l’alzabandiera nelle
scuole, “tutte le mattine o almeno una volta alla settimana”.
Ottima idea, come dice l’ex Ministro dell’economia, in un Paese, come il
nostro, “in cui l’idea più prossima all’identità nazionale è quella della
nazionale di calcio!”
E giù i ciellini “in piedi a spellarsi le mani”, mentre “il segretario ds
con il gomito sul tavolo e la fronte appoggiata al palmo della mano non
muove un muscolo e più tardi sorvola, senza accennare a repliche”. Devo
dire che un po’ mi delude questo atteggiamento di Piero Fassino, se il
Corriere ha riferito bene. Stimo il Segretario dei Democratici di
Sinistra, che ho conosciuto Ministro della giustizia quando da Presidente
dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti ho avuto occasione di
incontrarlo più volte apprezzandone equilibrio e intuito politico.
La bandiera, come ho scritto a proposito di una vivace riunione del
Preconsiglio, a Palazzo Chigi, in cui si parlava di depenalizzazione del
vilipendio alla bandiera, su iniziativa del leghista Senatore Castelli,
Ministro della Giustizia, “a me non la devono toccare. Non devono neppure
pensare di toccarla! La bandiera non è né di destra né di sinistra, è
l’emblema dello Stato e basta” (Un’occasione mancata – O una speranza mal
riposta?, Nuove Idee Editore).
On. Fassino, a mio giudizio avrebbe dovuto unirsi all’applauso, se non
altro per condividerne gli effetti positivi.
Bene, dunque, l’iniziativa dell’On. Tremonti, che mi auguro sia accolta
all’unanimità in Parlamento, perché un equilibrato “senso dello Stato” è
un additivo importante per dare sprint ai cittadini onesti ed ai
lavoratori capaci. È consapevolezza dei valori comuni della Patria, che
sono la storia e le tradizioni che uniscono, indipendentemente dalle idee
politiche e dagli interessi personali.
Così mi auguro che delle bandiere che saranno issate le autorità pubbliche
abbiano maggiore cura di quanta oggi ne riservano a quelle che sono
esposte accanto ai portoni degli uffici. Tenute lì giorno e notte alle
intemperie, ridotte ad autentici stracci dai colori irriconoscibili, come
davanti alle scuole, chiuse fin dalla fine degli scrutini. Non sarebbe
stato meglio ammainarle quelle bandiere che lasciarle all’ingiuria del
tempo polveroso dell’estate? Perché la bandiera è bella se garrisce al
vento, e spendente nei colori con i quali ci è stata consegnata dalla
storia, il verde dei nostri prati, il bianco delle nevi delle montagne più
alte, il rosso che ricorda il sangue degli eroi che hanno fatto l’Italia
unita. Retorica, certo, ma a volte non guasta, come dimostrano i popoli
che dalla loro tradizione traggono motivi di fierezza e d’impegno
lavorativo, dagli Stati Uniti al Giappone, dalla Francia alla Russia, dove
è stato esibito nei giorni scorsi un tricolore (bianco, blu e rosso) lungo
decine di metri!
Infine, last but not least, ultima considerazione, ma non meno importante:
l’applauso dei ciellini dimostra che sono state superate talune ritrosie
del mondo cattolico rispetto a simboli dello Stato di derivazione
risorgimentale (e cosa c’è di più risorgimentale della bandiera con la
quale gli italiani, a qualunque regione appartenessero, hanno combattuto
per l’unità!). Anche per questo l’iniziativa di Tremonti va condivisa e
incoraggiata!
24 agosto 2007 |
Perché Roma capitale d'Italia.
Torna periodicamente, anche in questo torrido agosto 2007, complice forse
il Solleone, la proposta di trasferire la capitale d'Italia a Milano.
Perchè, si dice, il capoluogo della Lombardia è il centro nevralgico e
produttivo del Paese. Proprio nei giorni scorsi giornali e televisioni
davano notizia che i milanesi sono i primi contribuenti d’Italia, quanto a
tributi regionali e comunali, per cui appare evidente, nella concezione
produttivistica diffusa in molti ambienti del Nord, in particolare
nell'attuale opposizione e, ovviamente, nella Lega Nord per l'indipendenza
della Padania, cioè in una cultura regionalista, fare d'una città simbolo
delle attività imprenditoriali, l'emblema dell’intero Paese, quindi la sua
capitale. Anche se poi si scopre che i più stakanovisti degli italiani
stanno a Roma. Ma di questo parleremo in altra occasione.
Devo dire che di fronte a queste ripetute iniziative, il cui carattere
folcloristico non sfugge a nessuno, io sono indotto a rispondere in modo
che non vorrei sembrasse un po' snob.
Dico: mi sembra giusto portare altrove la capitale. Senza offesa per
Milano, mi pare che, effettivamente, a Roma questo ruolo vada un po'
stretto. Questa nostra Città che è l'erede del più grande impero della
storia, di una civiltà giuridica che ha lasciato un segno ancora oggi
evidente nelle istituzioni e nel diritto, questa Città che è stata scelta
dalla Provvidenza come sede della cattedra di Pietro, questa “Roma - per
dirla con padre Dante (Purgatorio XXXII, 102) – onde Cristo è romano”, si
trova ad essere capitale di quello che, ancora una volta con tutto il
rispetto e il grande amor di Patria che pervade la mia mente e il mio
cuore, è uno “staterello”, di modeste dimensioni, dove il mestiere più
lucroso e più diffuso è quello del politico ai vari livelli di governo,
dove ampie aree del Paese sono sottratte all'effettiva sovranità della
Repubblica.
In un'Italia meravigliosa, nella quale vi sono città la cui storia è
espressione di civiltà, da Torino a Venezia, a Firenze, a Napoli a
Palermo, città che sono state capitali di repubbliche, regni e principati,
piccoli ma illustri, non ci sarebbe che il dubbio della scelta. Torino e
Firenze, del resto, sono già state capitali del Regno d'Italia, il primo
nome dello Stato unitario.
Firenze, ad esempio, non ha, a differenza di altre città una dimensione
esclusivamente regionale. La sua storia culturale e istituzionale ne fanno
un esempio di città che potrebbe assurgere al ruolo di capitale. E poi sta
al centro dello Stivale. Ma sulle rive dell'Arno nessuno lo auspica. Già
quando fu capitale, per un breve periodo, i fiorentini non gradirono.
Troppi gli uffici, troppi i ministeriali a spasso per i viali e lungarno.
Tanto che quando la capitale fu trasferita a Roma i figli di Dante
tirarono un sospiro di sollievo.
Essere capitale è impegno grande per una città, richiede strutture
adeguate, un piano regolatore che assorba gli spazi destinati ai ministeri
ed a tutta la popolazione che opera negli uffici pubblici e in funzione
della loro attività. Poi ci sono gli uffici regionali, del comune, della
provincia. Troppe autorità e troppi interessi. Per questo ancora oggi Roma
non ha uno statuto speciale, adeguato al suo ruolo di capitale d'Italia.
A questo punto che fare? Da romano preferirei che la mia Città rimanesse
l'erede di un grandissimo passato che vive nella cultura moderna delle
istituzioni e del diritto ed è un esempio per il mondo intero. Proprio
oggi il Corriere della Sera dà conto di un dibattito in corso negli Stati
Uniti sulle somiglianze con l’impero di Cesare, richiamando un libro di
Cullen Murphy, Are We Rome? Tre Fall of an Empire and the Fate of America.
E poi Roma é la sede della Chiesa cattolica. Qui si vive benissimo
soltanto con il turismo. Roma non ha bisogno di essere la capitale
d'Italia, anche senza arrivare all'eccesso di quell’anziano signore che
incontrai a borgo, come si chiama la zona intorno San Pietro, dove le
strade non si chiamano vie ma borgo, che, ad una delle esternazioni del
Bossi separatista, mi diceva: “se ne vadano pure, ce ne andiamo anche noi.
Rimaniamo all'ombra del cupolone, anzi cuppolone. Con la nostra storia
siamo il museo Roma”.
Non si può fare. Roma sta al centro d'Italia e se volessimo costruire una
nuova capitale da queste parti, com'è stato fatto in Brasile con Brasilia,
si dovrebbe cercare qualche località idonea ad essere base di una
espansione urbanistica per le esigenze della politica e del governo. Si
potrebbe provare con Frosinone o con Viterbo, ma non è detto che ciociari
e maremmani del sud gradiscano. Anzi mi permetto, senza averne ascoltato
neppure uno, di dire che senz'altro stanno bene così.
E poi dove trovare il surrogato dei palazzi del potere, Quirinale, Madama,
Montecitorio, Chigi? Ognuno diverso, tanti musei della storia e dell’arte!
Abbiate pazienza milanesi! Di cosa stiamo parlando?
Roma dunque è destinata inevitabilmente a rimanere la capitale d'Italia.
Si rassegnino i leghisti in servizio permanente effettivo e di
complemento. Molto spesso si disprezza ciò che non si conosce o non si
riesce a capire.
21 agosto 2007 |
Se
la Camorra investe a Roma. Stupisce che qualcuno si stupisca.
Bufera sul Rita Bernardini, Segretario nazionale dei Radicali italiani,
per l'allarme lanciato su infiltrazioni camorristiche a Roma. “Rilevo
-aveva detto qualche giorno fa - che la lingua parlata sempre più nei
locali e nei bar intorno ai palazzi romani della politica è il napoletano.
Si tratta di ingressi recenti con la spesa di centinaia di migliaia di
euro di ristrutturazione. Sono stati rilevati molti locali, non so se
dalla camorra”.
Naturalmente l’apparente equiparazione tra napoletani e camorra nelle
parole della Bernardini ha scatenato reazioni polemiche, a cominciare dal
Sindaco della Città partenopea, Rosa Iervolino. Ed ha fatto bene Gennaro
Migliore, Capogruppo del Partito della rifondazione comunista alla Camera,
napoletano, a dire “i soldi riciclati non hanno accento”.
Resta il fatto, sul quale è bene che le autorità vigilino, di continue
ristrutturazione di locali in giro per la città e in particolare nelle
aree centrali, indotte forse da alcune agevolazioni fiscali, che
dovrebbero suggerire una verifica delle operazioni finanziarie connesse,
per accertare che non si stiano utilizzando somme di denaro di provenienza
dubbia. Basta passare per qualche strada del centro a distanza di pochi
mesi per constatare che molti locali hanno cambiato attività e sono stati
completamente ristrutturati. E si tratta sempre di locali di grandi
dimensioni.
È noto, d'altra parte, che la malavita organizzata, qualunque sia
l'accento sulla bocca dei suoi esponenti, usa riciclare il denaro
attraverso iniziative imprenditoriali, soprattutto nella grande e media
distribuzione. Attraverso l’utilizzazione di somme erogate in contanti
alle imprese che provvedono alle opere edilizie.
D’altra parte i “prestiti di mafia” sono molto appetibili. Costano poco o
niente. La malavita non ricerca interessi sulle somme date in prestito. È
sufficiente che le sia restituito denaro “pulito”, anche nella stessa
quantità.
In tutta questa polemica agostana - ma quante verità emergono proprio ad
agosto! - a stupire, se mai, è la dichiarazione dell'ineffabile Prefetto
di Roma, Achille Serra. Il quale, nel confermare che l'argomento sarà
inserito all'ordine del giorno del prossimo Comitato per l'ordine e la
sicurezza pubblica, ha detto che a Roma “non è mai emersa la possibilità
di una gestione territoriale della camorra”. Traggo da Il Sole 24 Ore del
18 agosto e rimango stupito da tanta sicumera.
E magari il Prefetto è anche convinto che a Roma non si paghi il “pizzo”!
19 agosto 2007 |
Zero
in condotta (politica) e “tolleranza zero".
Rimasto a Roma, com’è consuetudine, formale, un po’ stantia e stucchevole
(lui in ufficio, noi in vacanza!), il Ministro dell’interno Giuliano
Amato, non ha esitato ad esternare, come i suoi predecessori, del resto.
Ed ha detto cose che, se gli italiani riflettessero un po’, sono a dir
poco esilaranti. “Per il futuro – riferisce così le parole del Ministro il
Corriere della Sera di oggi - la lotta all'illegalità sarà a 360
gradi. Adottiamo quella che si chiama la “dottrina Giuliani” perché
combattere la piccola illegalità è comunque propedeutico, e a volte
strumentale, per fronteggiare la grande criminalità: si deve creare nelle
nostre città un senso di ordine che è fatto di regole cui tutti ci
atteniamo e che facciamo rispettare”.
È la scoperta “dell’acqua calda”, come si usa dire. Ma dov’era il Ministro
Amato, già Presidente del Consiglio, giurista illustre, quando tutte le
persone di buon senso dicevano la stessa cosa?
La gente ha bisogno di sicurezza e la chiede ai governi. Da sempre, Prof.
Amato. Perché gli “ordinamenti generali”, come lei che è docente di
diritto costituzionale “m’insegna”, hanno istituzionalmente il compito di
garantire innanzitutto la sicurezza interna, oltre che assicurare la
difesa dei confini della Patria e amministrare la giustizia.
Ai governi, quindi, a qualunque latitudine, i cittadini chiedono che la
propria abitazione sia al sicuro dai ladri, nazionali, comunitari o
extracomunitari. Chiedono di ritrovare l’automobile parcheggiata sotto
casa. Chiedono di poter rincasare tranquillamente, anche a notte fonda. Lo
stesso per i figli e le figlie.
È questo un problema che esige una speciale riflessione ed una
dichiarazione come quella del Ministro Amato?
Ricordo di aver sentito tanti anni fa, in occasione di una conferenza
sullo Stato ed sul suo ruolo nella società civile, una considerazione di
un costituzionalista, il Prof. Marino Bon di Valsassina. Egli si diceva
trasecolato per aver sentito una dichiarazione analoga a quella del
Ministro Amato, del tipo “il governo garantirà l’ordine pubblico”. Ma cosa
dovrebbe assicurare il Governo, si chiedeva l’illustre studioso? Se la
funzione prima del governo è quella di assicurare la sicurezza dei
cittadini.
Mi parve allora e mi pare oggi veramente la scoperta dell’acqua calda.
Come l’espressione “tolleranza Zero”. Ma perché mai uno Stato (con la “S”
maiuscola, naturalmente), attraverso la sua Polizia, i suoi Carabinieri, i
suoi Giudici, dovrebbe ammettere una certa qual tolleranza rispetto ai
reati. E, poi? Quale tolleranza? Per quali reati ed in quale misura? Il
20, il 10 per cento, di più, di meno o più dei reati?
È un ragionamento che da solo dimostra che si è fuori di ogni senso di
responsabilità istituzionale. Perché, caro Ministro, nessun cittadino, a
Destra e a Sinistra, ammette una certa qual tolleranza rispetto ai reati.
Tolleriamo lo scippo? E se la vecchietta viene trascinata sull’asfalto e
battendo la testa muore?
Ma ci voleva tanto a pensare che la gente non tollera che un ubriaco al
volante che uccide va punito? Ed un drogato? A proposito, che fine ha
fatto Pannella dopo che i soliti obnubilati dallo spinello hanno ucciso
povera gente che attraversava la strada?
Cosa diversa è, poi, comprendere le ragioni di comportamenti devianti e
deviati. Ragioni culturali, come l’ignoranza, e sociali, come la povertà e
la mancanza di lavoro. Lo Stato faccia la sua parte, per rimuovere, come
si legge in Costituzione all’articolo 3, “gli ostacoli di ordine economico
e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Ma chi sbaglia deve pagare, altrimenti s’introduce di fatto una causa di
giustificazione che attua una spirale perversa di illegalità. Che può dar
luogo a risposte comprensibili, come le “ronde padane”, ma che uno Stato
degno di questo nome non può ammettere.
17 agosto 2007 |
Il
giudice e l’opinione pubblica
“La politica - ha detto il Ministro della giustizia, Mastella, nel dare
notizia di un suo intervento con richiesta di chiarimenti sulla
scarcerazione del presunto piromane di Latina e sulla mancata adozione di
misure cautelari nei confronti di chi, sospettato di un precedente
omicidio, ha nuovamente ucciso a Sanremo - deve tenere senz’altro presente
la sensibilità crescente dell’opinione pubblica su questi fatti”.
Deve farlo anche il giudice? In sostanza, chi è chiamato ad esercitare
l’azione penale, il Pubblico Ministero, o il Giudice per le indagini
preliminari (G.I.P.), investito della richiesta di misure cautelari, deve
preoccuparsi, nel decidere, della sensibilità dell’opinione pubblica
rispetto a fatti che destano allarme sociale? Ed in quale misura, gli
elementi di pericolosità sociale che provengono dalle informative della
polizia giudiziaria o che il magistrato percepisce autonomamente, ad
esempio dalla stampa, entrano nella valutazione che egli è chiamato ad
adottare?
Il tema è molto delicato e tocca, da un lato, “la discrezionalità e
l’autonomia dei magistrati” che – ha ribadito il Ministro – “bisogna
rispettare”, e che giudici e pubblici ministeri, ovviamente, difendono a
spada tratta come espressione della loro funzione, dall’altro la
sensibilità dei cittadini di fronte all’allarme sociale che consegue a
certi comportamenti delittuosi. Considerato che ciò che colpisce non è
tanto il delitto in sé, quanto la presunta incapacità delle istituzioni,
globalmente considerate, di prevenire un nuovo delitto, da parte di chi ha
dimostrato di essere pericoloso, e l’impunità del reo (la scarcerazione
“facile”).
A torto o a ragione sono questi i casi che minano agli occhi della gente
il prestigio della magistratura, nei confronti della quale l’atteggiamento
dell’opinione pubblica sconta una certa ritrosia del cittadino al rispetto
delle regole (per tutte quelle tributarie), che la sola presenza dei
giudici richiama.
In sostanza, come si difende la credibilità delle istituzioni, dello Stato
e della Magistratura, che hanno tra i compiti fondamentali e primigeni
quello di assicurare l’ordine e la sicurezza interna?
Problematiche che hanno affaticato generazioni di giuristi, politologi e
sociologi, troppo complesse per lo spazio limitato di questa rubrica. La
quale, tuttavia, ha il vantaggio di consentirci, e non è poco, di
delimitare il tema. Da un lato i diritti delle persone, innocenti fino a
prova contraria, e le procedure che li garantiscono, dall’altro la
funzione di prevenzione rimessa all’autorità di pubblica sicurezza ed alle
misure cautelari che essa, all’occorrenza, richiede al giudice.
E allora non c’è dubbio che il magistrato, che è chiamato a valutare i
comportamenti umani ritenuti penalmente illeciti, la cui pericolosità
sociale è alla base della previsione normativa del reato, è tenuto a
valutare, in concreto, se il soggetto è effettivamente pericoloso, secondo
le notizie delle quali è in possesso e degli elementi che provengono da
altre fonti (dai mezzi d’informazione, ad esempio), perché potrebbe
reiterare l’azione delittuosa. Magari il suo intervento può limitarsi a
richiamare l’attenzione delle forze dell’ordine sull’esigenza di ulteriori
accertamenti.
Capisco che il carico degli affari nelle Procure penali è tale che il
Pubblico Ministero in alcuni casi non è in condizione di percepire dalle
carte quella pericolosità come poi si rivelerà, magari a distanza di
tempo, conclamata in un delitto. Si pensi a tutte le persone che sono
state oggetto di attenzione per disturbi mentali, che non si sa se e
quando eventualmente potrebbero essere nuovamente pericolose.
Tuttavia queste difficoltà non dovrebbero far venir meno l’attenzione per
l’esigenza di monitorare alcune situazioni potenzialmente pericolose. Vale
innanzitutto per le forze dell’ordine, ma anche per la magistratura, che
in questo caso devono lavorare d’intesa. Perché una cosa è che sfugga
l’ennesimo truffatore, altra che possa impunemente essere lasciato libero
di reiterare il delitto chi ha dimostrato potenzialità eversive
dell’ordine pubblico o di costituire una minaccia per la sicurezza dei
cittadini.
È il caso dell’ubriaco, fermato più volte, ed al quale è stata sospesa la
patente, che investa, uccidendola, ancora ubriaco, una giovane ed esce di
prigione tra l’ira dei parenti e della gente.
Non c’è dubbio che le carte siano formalmente a posto. Che il giudice
abbia valutato, nell’adottare il provvedimento di scarcerazione, la
sussistenza di alcune condizioni previste dalla legge. Ad esempio, la
pericolosità del soggetto e la sua potenziale attitudine a reiterare il
delitto. È una valutazione discrezionale che, tuttavia, non va adottata
sulla base di un mero formalismo. Altrimenti potrebbe provvedervi anche un
computer con un semplice programmino che, a fronte della previsione
normativa puntualmente definita, consenta, una volta immessi alcuni dati
sul comportamento del presunto responsabile, di individuare il
provvedimento da adottare.
La discrezionalità del giudice è altra cosa ed è responsabilità preziosa
per la democrazia e le istituzioni.
Non è condizionato dalla “sensibilità” dell’opinione pubblica che, al
limite, potrebbe essere fuorviante. Ma deve tenerne conto, nella misura in
cui le misure cautelari che è chiamato ad adottare corrispondono, nella
loro determinazione legislativa e nella adozione concreta che si attende,
alla pericolosità sociale che il legislatore ha ritenuto di dover
individuare.
Se la norma non consente questa consonanza, se il giudice ritiene che,
rispetto all’esigenza di impedire delitti o di punire i colpevoli, egli
non ha gli strumenti adatti, ha il dovere di rappresentarlo a Governo e
Parlamento. A questo servono le relazioni in occasione dell’inaugurazione
dell’anno giudiziario della Cassazione e delle Corti d’appello.
Perché, attenzione, la giustizia non può ignorare il consenso
dell’opinione pubblica sull’effettività del suo ruolo, soprattutto oggi,
nella società dell’immagine e dei mass media. Nessuna istituzione può a
lungo sostenere un deficit di consenso. Lo dimostra la politica, con la
crisi profonda che vive oggi agli occhi della gente.
Ma la Magistratura, che già subisce gli effetti negativi della resistenza
della classe politica ad accettare il controllo giudiziario, non può
permettersi di non riscuotere il consenso dell’opinione pubblica. Perché
questo aprirebbe la strada ad una “normalizzazione” dell’ordine
giudiziario che buona parte della classe politica persegue o è disponibile
ad accettare.
12 agosto 2007 |
Se
il “tutore” dell’ordine non applica le nuove sanzioni per illeciti
stradali.
Non
se ne vergognano e nessuno lo fa loro notare.
Neppure un quotidiano serio, come il Sole 24 Ore, che raccoglie queste
dichiarazioni, sia pure anonime, a pagina 3 dell'edizione del 4 agosto,
per la firma di Daniele Barzaghi.
Mi riferisco alle affermazioni, attribuite ad esponenti della Polizia
Municipale di Roma e di Milano, a proposito delle nuove sanzioni previste
dal Codice della strada a seguito del decreto legge varato dal Governo la
settimana scorsa.
Secondo questi “tutori” dell’ordine, "le nuove regole non saranno
applicate per un bel po'". Così la pensa un responsabile della Polizia
Municipale di Roma. E da Milano aggiungono "sono decreti legge, utili come
i ricoveri d'urgenza ma non basta. C'è sempre la possibilità che dopo 60
giorni non vengano confermati dal Parlamento, e di conseguenza tutte le
multe elevate nei primi due mesi rischiano di essere annullate. Per questo
le nuove sanzioni non verranno neanche applicate".
Dichiarazioni rigorosamente anonime. Frutto d'ignoranza e di disprezzo
delle istituzioni. D’ignoranza, dacché è noto che il decreto legge entra
in vigore immediatamente, all’atto della sua pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale. Inoltre, è improbabile che venga bocciato e comunque, in caso
di mancata conversione, “le Camere possono tuttavia regolare con legge i
rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti”, come
recita il terzo comma dell'articolo 77 della Costituzione.
Ignoranza crassa, spocchia e disprezzo dello Stato e delle istituzioni che
andrebbe sanzionato. C'è da attendersi un intervento dei Sindaci di Roma e
di Milano. Mi auguro anche un'indagine della Magistratura, della Procura
della Repubblica e della Procura regionale della Corte dei conti. Sono
dichiarazioni che hanno una rilevanza disciplinare e penale, il rifiuto di
applicazione della legge, potenzialmente fonte di danno erariale per la
mancata entrata nei bilanci comunali dell’importo delle sanzioni previste
dal decreto.
8 agosto 2007 |
Il
catasto degli incendi ai prefetti per sottrarre i sindaci agli interessi
locali.
La proposta è del Capo del Dipartimento della Protezione civile, Guido
Bertolaso. Affidare alle Prefetture, sottraendolo ai comuni, un compito
che questi, in molti casi, hanno dimostrato di non essere in condizione di
svolgere: la redazione del catasto delle aree distrutte dal fuoco che, per
legge, non possono mutare destinazione.
La misura, suggerita nel corso dell’audizione di Bertolaso alla
Commissione ambiente della Camera, è immaginata come temporanea ed è
ampiamente condivisa. Sarebbe attuata con un’ordinanza di Protezione
civile, nell’ambito delle misure d’emergenza per le zone del centro sud
devastate dagli incendi. “La dichiarazione dello stato di calamità – ha
precisato Bertolaso –ci consente di intervenire in questa direzione e nel
giro di 90-120 giorni, con l’ausilio della Forestale, saremo in grado di
avere la mappa aggiornata delle aree bruciate”.
Lo scopo è evidente. Evitare che le pressioni locali, mosse dagli
interessi dei proprietari delle aree boschive, che intendono utilizzarle
per finalità edilizie, possano prevalere sulla mappatura delle zone
percosse dal fuoco, affidata ai comuni.
È la dimostrazione che alcune attività di competenza degli enti locali,
specialmente in regioni a rischio malavita, possono essere influenzate
dalla criminalità organizzata o comunque da interessi locali.
La pressione sui sindaci da parte dell’elettorato è forte. Ed ha effetti
negativi sulla buona gestione, soprattutto dei beni patrimoniali della
comunità. O di quelli affidati agli enti locali, come nel caso del demanio
marittimo che in molti casi segue logiche clientelari, ad esempio nella
determinazione e riscossione dei canoni.
Ed allora, perché una misura temporanea? Lo Stato si deve riappropriare
delle funzioni che sono d’interesse generale, come la tutela del
patrimonio naturalistico della Nazione.
5 agosto 2007 |
Quando
il Ministro della giustizia “bacchetta” un giudice!
Clementina Forleo, non mi è simpatica. In televisione, intervistata da Daria Bignardi, a “Le invasioni barbariche”, mi è sembrata “caricata”,
imprudente nel linguaggio, che per un magistrato dovrebbe essere sempre
misurato. E poi ha l’intervista facile, da evitare quando si è chiamati a
ius dicere in nome del Popolo Italiano. Non mi ha convinto neppure quando
ha distinto i guerriglieri dai terroristi, nel processo che ha
mandato assolti il marocchino Mohamed Daki e degli altri due nord africani
accusati di associazione con finalità di terrorismo internazionale. Non ha
convinto neppure la Corte di Cassazione che ha annullato la sentenza con
rinvio, per “vizi di motivazione”.
Anche nella vicenda della richiesta di rendere "utilizzabili" nel processo
le intercettazioni telefoniche in cui sono incappati i Ds Massimo D'Alema,
Nicola Latorre, Piero Fassino; il senatore e i deputati di Forza Italia,
Grillo, Comincioli e Cicu, a Giuseppe D’avanzo, sul Corriere della Sera di
oggi, sembra che la Forleo in alcuni passi dell’ordinanza “scivoli in
qualche eccesso moralistico e sovrattono".
Non sono queste, tuttavia, le censure dell’On. Mastella. Il Ministro della
giustizia ipotizza nell’iniziativa del giudice “una potenziale lesione dei
diritti e dell'immagine di soggetti estranei al processo”. I “soggetti
estranei” sono, nel comunicato del Ministro, i politici di cui si parla.
Quelli che la Forleo definisce “complici consapevoli”. Come avrebbe dovuto
qualificare la loro posizione se, a torto o a ragione, li ritiene complici
di un reato?
La Forleo continua a non essermi simpatica per quanto già detto. Ma l’On.
Mastella, che, invece, mi è umanamente simpatico, si rivela in questo caso
più uomo di fazione che ministro della Repubblica. Un po’ come quando ha
difeso l’emendamento Fuda, che intendeva far retroagire l’inizio della
prescrizione nell’azione di responsabilità amministrativa per gli illeciti
contabili, con la conseguenza che sarebbe stato impedito al Pubblico
ministero della Corte dei conti di chiedere il ristoro dei danni subiti
dall’Erario!
Senso dello Stato Signor Ministro! Quelle cose, le faccia dire da qualcuno
dei suoi. Lei resti Ministro “della Repubblica”.
21 luglio 2007 |
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